27/11/2017 – il potere sovversivo dei valori

il potere sovversivo dei valori

 

Nel 1963 Francesco Rosi realizzò un film “coraggioso” perché, raccontava, in modo esplicito della corruzione e della speculazione edilizia. E lo faceva persino utilizzando personaggi e situazioni talmente verosimili da apparire come una rappresentazione di cronaca. A conferma di ciò, la didascalia del film recava: «I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce.» Quella realtà, diventò soggetto di un film negli anni ’60, allo scopo di risvegliare la coscienza civile, che però ormai viene accettata e non scandalizza più.

La questione non riguarda più fenomeni isolati, da intendersi come “deviazioni sociali” e soprattutto non viene percepita come una grave “patologia”, ma invece, come “male necessario” o persino come “metodo di amministrazione” del potere.

Eppure, proprio in quegli anni appariva ancora come “scandalosa” la spartizione del potere per fini di partito. E’ nel 1968 che, in occasione del congresso della Democrazia Cristiana a Milano e della formazione del futuro governo Leone, Massimiliano Cencelli, utilizzò un metodo (che porta il suo nome) finalizzato a garantire nella compagine governativa l’equilibrio tra le correnti e i partiti che assicuravano il sostegno all’esecutivo.

Il metodo Cencelli, in quell’epoca, destò scandalo è fu apostrofato come oltraggioso rispetto ai principi democratici. Ma gli stessi che lo criticarono (e i loro eredi) sono oggi i più convinti sostenitori e lo applicano in ogni circostanza: sia all’interno dei partiti, sia negli incarichi di governo, sia nelle assunzioni.

Negli anni ’70 la pratica della “spartizione” fu presentata come scandalosa, in pubblico, ma come scaltra e necessaria in privato. Si arrivò persino all’adagio per il quale, in ogni assunzione sarebbe stato opportuno “garantire, su tre persone, due raccomandati e uno bravo”!

Ci sarà chi ricorda ancora l’esponente di un partito che con “spudorato realismo” arrivò a proporre la “legittimazione delle tangenti”. In fondo, il ruolo della politica era quello di creare opportunità e sembrava opportuno trovare un sistema di ricompense “a cielo aperto”, per evitare la diffusione di sistemi sotterranei.

In qualche modo, quindi, si è trattata di una sorta di “evoluzione” del pensiero politico che lascia agli idealisti il compito di preoccuparsi dei valori e dell’interesse della collettività, generando, in parallelo una classe, sempre più numerosa, di soggetti “scafati” (come si dice nella capitale, sia del Paese, sia di questi metodi) che fornissero la garanzia della insensibilità agli ideali e della propensione agli accordi finalizzati a posizioni o vantaggi.

Passava così il concetto che “la politica è una cosa sporca”, enunciato con finta rassegnazione, ma con la radicata voglia di giustificare qualunque gesto “non lecito” fino al punto da garantire immunità o protezione.

Anche la Democrazia cristiana e il Partito comunista non furono immuni da questa tentazione. La prima, in modo più netto, praticò la politica della doppia morale, per la quale la base doveva perseguire finalità etiche e promuovere i valori civili, mentre il vertice del partito, allo scopo di governare (nell’interesse della base) avrebbe dovuto “sporcarsi le mani”, perché lo richiedeva il sistema del potere. In modo diverso e più facile il PCI che, partendo da posizioni di contrasto e lotta, abbandonò ogni pretesa di etica del confronto (come ai tempi di Peppone) e si lanciò all’assalto con ogni mezzo, perché “in guerra e in amore ogni scorrettezza è lecita”. In quel caso si trattava della prima opzione, non della seconda e divenne lecito ogni mezzo anche non corretto (anche quelli contestati all’avversario) pur di giungere al potere.

Sono quelli gli anni in cui si giustifica la “propaganda a fin di bene”, sorgono quotidiani dichiaratamente schierati che non fanno mistero di diffondere ciò che oggi chiameremmo “fake news”, tanto che il famoso Indro Montanelli pensò bene di chiedere “la distinzione tra i fatti e le opinioni”. Ma non ebbe molta fortuna: la realtà esercita meno attrazione rispetto al pettegolezzo.

Il paradosso “storico” fu che, proprio all’uscita dai tempi bui del fascismo, gli unici partiti disposti a parlare di “patria” e “unità nazionale” erano quelli di destra. Certamente per ragioni nostalgiche o per posizionamento ideologico, ma non si può trascurare anche la componente della convinzione che i “valori” dovessero essere presi in considerazione, in modo prioritario, rispetto alle contrapposizioni di partito.

E così, i valori della convivenza civile che dovrebbero rappresentare il patrimonio comune di una nazione, diventarono una “connotazione” del conservatorismo. Tanto che, quando, diversi anni dopo, lo stesso leader del PCI, Berlinguer, pose la “questione morale”, si interpretò il suo gesto come una “regressione”, un gesto disperato o persino, l’espressione del conservatorismo.

Anche i valori, con il tempo, sono diventati materia da frullatore, tanto che all’interno di un partito nato più tardi che li aveva scelti nel proprio nome (Italia dei valori) troviamo anche personaggi, dall’etica discutibile, protagonisti di frequenti cambi di casacca.

Adesso dei valori non si ha più traccia. Sono un tema degli sfigati che, essendo esclusi dai giochi di potere, invocano argomenti “alieni” per sovvertire il sistema.

In un sistema che si fonda sul profitto individuale (singolo o associato) chi propone il perseguimento di “valori” è percepito come “sovversivo”. Lo spiega bene anche il dizionario Treccani per il quale “sovversivo è chi tende a modificare l’ordine costituito”.

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