20/05/2020 – Per i consiglieri regionale non c’è peculato sulle spese che presentano giustificativi generici

Per i consiglieri regionale non c’è peculato sulle spese che presentano giustificativi generici
di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
 
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 14167, dell’8 maggio 2020, ha sostanzialmente dato ragione al ricorso di alcuni consiglieri regionale: per i giudici di legittimità le spese fedelmente giustificate non sono sintomo di reato anche se ritenute eccessive, determinando un’illegittima inversione della prova.
Il contenzioso
La Corte di Appello con sentenza del 3 maggio 2019, confermava in parte le condanne disposte dal Tribunale nel 12 luglio 2017 nei confronti di alcuni consiglieri regionali per vari fatti di peculato e falso.
In particolare si contestava ad un consigliere nella sua qualità di tesoriere del gruppo consiliare dell’Assemblea regionale di avere falsificato la firma del segretario attestando nel relativo verbale lo svolgimento della riunione del gruppo consiliare, in realtà non tenuta, destinata all’approvazione del rendiconto delle spese del gruppo consiliare stesso per l’anno 2011.
Un’altra consigliera regionale era ritenuta responsabile del reato di peculato continuato ; per la sua qualità aveva diritto a contributi finalizzati alle categorie di spesa previste dalla Legge Regionale 38 del 1990 di disciplina della materia e si appropriava dei fondi a lei assegnati, per un totale di circa euro 90.000, producendo titoli giustificativi attestanti spese non inerenti le attività del gruppo.
In dettaglio, si trattava di:
– spese di ristorazione e di trasporto per attività diverse;
– materiali vari non rinvenuti presso l’ufficio o comunque non relativi all’attività istituzionale;
– doppi rimborsi di spese di aereo;
– spese varie presso esercizi commerciali per utilità familiare.
La Corte confermava la qualificazione giuridica delle appropriazioni quale reato di peculato rilevando:
– che i fondi venivano anticipati ai Consiglieri i quali, utilizzandoli per fini non istituzionali, se ne appropriavano e si utilizzava anche una carta di credito intestata alla Regione (…..) con addebito sul conto corrente del gruppo di appartenenza.
– il momento di commissione dell’appropriazione andava individuato nell’approvazione del rendiconto, essendo questo il momento in cui era esternata la volontà illecita non potendo essere manifestata in altro momento la volontà definitiva di appropriazione.
Il dolo del peculato era dimostrato dalla genericità della documentazione di giustificazione e dalla evidente estraneità delle spese rispetto ai fini istituzionali. In particolare, atteso che ai Consiglieri regionali venivano forniti uffici, muniti di computer e dotazioni di cancelleria, rimborsi generalizzati per spese di trasporto, per giustificare ulteriori spese in tale ambito andava dimostrata la insufficienza delle dotazioni.
Allo stesso modo, osservava la Corte di appello, non risulta mai provata la finalità degli esborsi per consumazioni in bar e ristoranti «benché simili spese possono avere attinenza con lo svolgimento di attività di propaganda politica, va sottolineato che tale finalità non risulta affatto provato né può essere presunta. Talvolta emerge piuttosto la prova contraria».
I consiglieri regionali avverso la sentenza sfavorevole della Corte di Appello, si sono rivolti alla Cassazione con una serie articolata di motivazioni.
La sentenza della Cassazione
Per la Corte di Cassazione i ricorsi sono fondati. Innanzitutto, per il reato consumato il 26 marzo 2012, va dichiarata immediatamente la prescrizione, in assenza di cause di sospensione del termine; va difatti considerato che i motivi proposti per tale reato sono di contenuto tale che, se accolti, comunque renderebbero necessario un giudizio di rinvio, ipotesi rispetto alla quale prevale l’obbligo di immediata declaratoria delle cause di estinzione del reato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen..
Sono fondati i motivi nei quali la sentenza impugnata ha sviluppato una motivazione che, a fronte delle contestazioni delle difese sulla sussistenza delle condotte di peculato sia quanto alla effettuazione di spese non consentite che quanto alla sussistenza del dolo di appropriazione, effettivamente finisce per invertire l’onere della prova del reato.
Per i giudici di legittimità non è di per sé dubbio che una condotta di utilizzazione a fini personali dei fondi che vengano anticipati dall’ente e posti a disposizione dei gruppi per determinate spese “istituzionali” integri il reato di peculato. L’appropriazione, difatti, si realizza con l’utilizzazione per scopi personali e la condotta successiva di falsificazione della documentazione giustificativa della spesa stessa rappresenta un modo per occultare la già avvenuta appropriazione e non, invece, il modo di indurre in errore l’ente perché corrisponda i fondi, caso nel quale si porrebbe una questione di possibile diversa qualificazione del fatto.
Si noti, peraltro, che nella casistica della Cassazione , utile per la qualificazione dei fatti in esame, si rilevano non solo decisioni aventi ad oggetto vicende comparabili ma anche vicende collegate proprio alle attività dei medesimi gruppi consiliari.
Con la sentenza della Cassazione n. 53331 del 19 settembre 2017, relativa a casi in cui altri componenti del medesimo Consiglio regionale si sono appropriati di somme destinate al rimborso di spese secondo le medesime disposizioni , si era accertato in modo diretto nel corso di intercettazioni che gli imputati erano ben consapevoli di avere richiesto rimborsi non dovuti e che li avevano occultati con pezze di appoggio (scontrini etc) palesemente irregolari. I giudici di merito avevano individuato documenti prodotti due volte, alcuni illeggibili, rinvenuto ricevute prive di data e firma e/o senza riferimento ai beni acquistati; tali anomalie rappresentavano una ragionevole prova della sostanziale falsità di tali documenti. Inoltre, degli accertamenti mirati dimostravano in modo diretto l’uso privatistico dei fondi per essere alcuni acquisti solo simulati e per essere stati pagati dei canoni di locazione per immobili in uso personale.
Nel caso di specie, la Corte di Appello, a fronte di motivi specificamente mirati a contestare la non inerenza ed il dolo di appropriazione, ha innanzitutto fatto riferimento proprio al precedente citato per risolvere il tema della qualità di pubblici ufficiali dei ricorrenti e della configurabilità quale peculato nella appropriazione del denaro anticipato dall’ente pubblico avendo la documentazione successiva una mera funzione di occultamento della operazione illecita.
Per questa parte la decisione è corretta.
La Corte di Appello risolve, poi, il tema della non inerenza delle spese e del dolo con il quale avveniva la appropriazione con argomenti riferiti principalmente al dolo (quasi a dare per scontata la non inerenza, pur contestata dalle parti) osservando, per quanto di interesse:
– in linea generale le spese sono giustificate in modo generico ed è sufficiente esaminare le ricevute per avvedersi della estraneità delle spese stesse ai fini istituzionali – tali affermazioni non sono accompagnate da alcuna indicazione specifica ma si fa riferimento alla generalità delle spese.
– a fronte della fornitura da parte dell’ente di strumenti di ufficio e copertura diretta di spese di trasporti, per giustificare le spese ulteriori in tale stesso ambito gli interessati avrebbero dovuto dimostrare l’insufficienza di quanto fornito dal Consiglio regionale; ma tale prova non era stata offerta dagli imputati.
– per gli esborsi per bar e ristoranti, pur essendo spese in teoria ricomprese in quelle ammesse, la finalità specifica non poteva essere affatto presunta; in alcuni casi, anzi, la Corte riteneva esservi la prova della finalità privata della spesa.
Per questa parte, la decisione non può essere condivisa in quanto:
– sostanzialmente vi è una mancata risposta alle deduzioni delle difese e, comunque, la mancata valutazione della non inerenza delle spese, il cui accertamento resta affidato dalla sentenza impugnata al mero dato della genericità delle giustificazioni;
– oltre alla assenza di risposta che lascia carente la motivazione sull’accertamento della non inerenza delle spese, si aggiunge la peculiare affermazione in diritto della sentenza che, con la affermazione «va sottolineato che tale finalità non risulta affatto provata né può essere presunta. Talvolta emerge piuttosto la prova contraria», sostiene in termini espliciti, per il caso in esame, che è applicabile una regola di inversione dell’onere della prova.
In conclusione la Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello.

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