In house providing: un percorso lungo e tortuoso tra legislatore, Corte Costituzionale, CGUE e giurisprudenza.

Autore: Luigi Randazzo – 

Abstract

 

Questo lavoro realizza un approfondimento sul tema dell’ in house providing.

Lo fa partendo da una disamina dei requisiti di questo istituto.

Ci si sofferma sul dibattito sviluppatosi relativamente all’onere motivazionale alla luce degli interventi della Corte Costituzionale e della giurisprudenza amministrativa.

Gli affidamenti in house vengono trattati con riguardo all’attuazione degli interventi finanziati dal PNRR e con riferimento alla riforma dei servizi pubblici locali di cui al d.lgs. 201/2022.

Quest’ultima riforma, pur riconoscendo la discrezionalità dell’ente nelle varie fasi dell’istituzione, della regolazione e della scelta delle modalità di gestione dei servizi pubblico, ripropone la necessità della motivazione dettagliata della scelta, con l’intento di garantire un più corretto utilizzo delle risorse pubbliche.

Infine viene fornito un esame dell’istituto nel nuovo Codice dei contratti pubblici, con il quale – come vedremo – la scelta di ricorrere all’in house providing non rivestirà più carattere secondario rispetto al libero mercato, ma rivestirà carattere alternativo a quest’ultimo.

  • Evoluzione dell’in house providing

1.1       Requisiti della società in house

Come noto, l’affidamento c.d. in house ha originariamente costituito una deroga ai principi comunitari, di guisa che il suo utilizzo è stato subordinato alla sussistenza di determinate condizioni.

E’ stata la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Corte di Giustizia CE 18.11.1999, causa C-107/98, Teckal s.r.l. c. Comune di Viano) ad enucleare per la prima volta i requisiti del soggetto affidatario in house, recepiti dalla Direttiva “Appalti” all’art. 12 co.1.

L’art. 12 co.1 ha elencato i tre requisiti che l’ente in house deve obbligatoriamente possedere per poter risultare affidataria di beni o servizi prescindendo dall’indizione di una gara.

Innanzitutto deve trattarsi di un soggetto dotato di personalità giuridica, intendendosi con cio l’idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, attive o passive.

In secondo luogo, è necessario che la P.A. eserciti un controllo sull’ente analogo a quello esercitato sui propri organi e uffici.

Sul punto la giurisprudenza ha più vote chiarito che trattasi di un controllo diverso rispetto a quello previsto dal diritto commerciale in capo al socio unico, decisamente più intenso.

In passato si riteneva che tale controllo presupponesse la partecipazione della P.A. totalitaria.

Le Direttive, recepite nel Codice dei contratti, hanno, invece, ammesso una volta per tutte che vi possano essere anche partecipazioni private.

Con riguardo al requisito del “controllo analogo”, ai fini della sua configurazione, è inoltre richiesto che siano previsti, nello statuto, nell’atto costitutivo o nei patti parasociali, degli strumenti ulteriori, in base ai quali viene attribuito un potere di indefettibile autorizzazione e di veto da parte del socio pubblico (c.d. ius vitae ac necis).

In buona sostanza, tutte le volte in cui l’amministratore dell’ente in house deve compiere un atto rilevante, questi sarà sottoposto al potere di veto e autorizzazione del socio pubblico.

Si parla, infatti, di società eterodiretta che, diversamente dalle altre società, è caratterizzata dalla tradizionale dualità soggettiva (socio/società).

Si può pertanto affermare che trattasi di un rapporto interorganico tra ente pubblico e società in house, in cui quest’ultima costituisce un mero organo dell’ente pubblico.

In tal senso è stato proprio il Consiglio di Stato  (Ad. plenaria, decisione 3 marzo 2008, n. 1) che, nel definire la differenza tra società in house e società miste a partecipazione pubblica maggioritaria, ha chiarito che la prima agisce come vero e proprio organo dell’amministrazione in virtù del controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

Infine, deve sussistere il c.d. vincolo di prevalenza, secondo cui il soggetto affidatario deve destinare in favore dell’ente o degli enti che lo controllano la maggior parte del ricavato.

Il contenuto delle direttive in tema di in house è stato, come vedremo, sostanzialmente recepito dall’articolo 5 del D.Lgs. n. 50/16 e dall’articolo 16 del D.Lgs. n. 175/2016 in tema di società con partecipazione pubblica.

 

1.2       Il delicato tema dell’onere motivazionale

Essendo sin dall’origine inquadrato come una deroga ai principi dell’evidenza pubblica, il ricorso all’in house providing ha richiesto l’esistenza di una dettagliata motivazione, che specificasse le ragioni del mancato ricorso al mercato aperto e i vantaggi che da ciò ne potrebbero derivare, rappresentando l’opzione sul piano dei costi e dei benefici per la collettività e per l’Amministrazione.

L’obbligo di motivazione prescinde dal fatto che si tratti di affidamento al di sotto o al di sopra della soglia di rilevanza comunitaria.

L’introduzione di un obbligo di motivazione così dettagliato trova la sua ratio in una scelta del legislatore italiano e si pone pertanto in contraddizione con quanto invece previsto dal legislatore comunitario.

Il considerando n. 5 della Direttiva n. 23/2014 prevede, infatti, che “nessuna disposizione della direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che l’Amministrazione desidera prestare essa stessa”.

Secondo le disposizioni comunitarie, quindi, la scelta di ricorrere al mercato o di produrre da se un determinato servizio o bene è indifferente.

Per il nostro ordinamento interno, invece, l’affidamento in house costituiva una scelta con carattere subordinato rispetto all’outsourcing, secondo un rapporto regola-eccezione.

In tale contesto si coglie il senso dell’art. 34 c. 20 del D.L. 179/2012, in materia di affidamento di servizi pubblici locali di rilevanza economica, che obbliga la P.A. a rappresentare le ragioni dell’autoproduzione e la sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per tale forma di affidamento attraverso apposita relazione, e ciò nonostante un siffatto  obbligo dovesse ritenersi comunque presupposto dal rispetto  del principio costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa (cristallizzato anche nell’art. 3 della  l.  241/1990).

In tale prospettiva si colloca anche la ratio dell’art. 5 del D.Lgs. n. 175/2016 che pone in capo all’Amministrazione l’onere di motivare, in modo analitico, la scelta di costituire una società in house o di acquisire partecipazioni in essa, rappresentando la coerenza della decisione in rapporto ai principi di economicità, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa.

Si pensi, ancora, alla ratio che ha ispirato l’art. 192 co. 2 D.lgs. n. 50/2016 che contempla un obbligo di motivazione rafforzato nel caso di ricorso all’in house providing, con onere di esplicitazione degli obiettivi di universalità, socialità, efficienza, economicità, qualità del servizio e ottimale impiego delle risorse pubbliche che si intende perseguire.

Quest’ultima rappresenta una disposizione molto controversa, oggetto sia di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, sia di questione di legittimità costituzionale.

Nel primo caso con ordinanza del  Consiglio di Stato, sez. V, 7 gennaio 2019, n. 138,  è stata investita la CGUE della questione con rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE.

Nel dettaglio, le riserve sulla normativa interna sono  scaturite dal suo raffronto  con le  prescrizioni eurounitarie e sono  state estese anche all’obbligo delle stazioni appaltanti di dare conto nella motivazione di cui sopra dei “benefici della collettività per la forma di gestione prescelta”(in house) così ampliando lo spettro dell’indagine, avuto riguardo all’intero impianto della legge  delegata,  laddove  impone all’autonomia di scelta delle pp.aa. condizioni ulteriori rispetto a quelle strettamente rinvenibili nelle direttive UE nn. 23 e 24 del 2014 e nel più generale quadro normativo europeo di riferimento.

Nel secondo caso, con  ordinanza  15  novembre  2018,  n.  886,  il Tar Liguria,  sez.  II,  ha  sollevato  questione  di  legittimità costituzionale dell’art. 192, co. 2, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), rubricato «Regime speciale degli affidamenti in house» (all’interno del Titolo II «In house»), nella parte in cui, disponendo l’obbligo per le stazioni appaltanti di dare conto delle «ragioni del mancato ricorso al mercato» nella motivazione di un  provvedimento  di  affidamento in  house, introdurrebbe  un  aggravamento all’esercizio del potere discrezionale delle pp.aa. non riconducibile ad alcuno dei principi o dei criteri direttivi della l. delega 28 gennaio 2016, n. 11, in tal modo violando indirettamente l’art. 76 Cost.

La legge delega, più in particolare, al comma 1, lett. a)dell’art. 1 indica il divieto di gold plating, cioè il «divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall’articolo 14, commi 24-ter e 24-quater,  della  legge  28  novembre  2005,n.  246»,e al comma 1,  lett. e) del  medesimo  articolo,  riferibile  agli affidamenti in house, sembra non contemplare criteri o principi idonei a giustificare la presenza nel decreto legislativo  del requisito  contestato, limitandosi  a  disporre  il  rispetto della  “garanzia  di  adeguati  livelli  di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione(…)”.

In nessun caso è stata ravvisata una violazione della normativa comunitaria, bensì è stato ritenuto che il maggior rigore della normativa interna risulta essere coerente con la disciplina unionale, risultando comunque proconcorrenziale.

Ciò appare peraltro anche coerente con la dottrina maggioritaria e con la nota teoria “gianniniana”, secondo cui la determinazione adottata dall’Amministrazione rappresenta il frutto di una tipica ponderazione degli interessi in gioco.

 

1.3       Affidamenti in house e PNRR

L’attuale congiuntura risulta condizionata dalla forte esigenza di fornire una pronta attuazione agli investimenti pubblici finanziati dal PNRR, imponendo una maggiore valorizzazione dei principi di auto-organizzazione, risultato ed efficienza, a svantaggio della cultura che ha portato  alla cultura della  “gara ad ogni costo”.

Non può non menzionarsi l’art. 10 del D.L. n. 77/2021, convertito con modifiche dalla Legge 29 luglio 2021, n. 108 (rubricato “Misure per accelerare la realizzazione degli investimenti pubblici”), che ha ampliato l’area applicativa del ricorso all’ in house providing.

Esso, infatti, dispone che, al fine di “sostenere la definizione e l’avvio delle procedure di affidamento ed accelerare l’attuazione degli investimenti pubblici, in particolare di quelli previsti dal PNRR e dai cicli di programmazione nazionale e dell’Unione europea 2014-2020 e 2021-2027”, le P.A. possono avvalersi, mediante apposite convenzioni, del supporto tecnico-operativo di società in house qualificate ai sensi dell’articolo 38 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50”.

E ancora, la norma in esame, al comma 3, reca una disciplina ad hoc sulla motivazione del ricorso alla formula dell’in house providing in deroga al mercato, prevedendo che “ai fini dell’articolo 192, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016, la valutazione della congruità economica dell’offerta riguardo all’oggetto e al valore della prestazione e la motivazione del provvedimento di affidamento dà conto dei vantaggi, rispetto al ricorso al mercato, derivanti dal risparmio di tempo e di risorse economiche, mediante comparazione degli standard di riferimento della società Consip S.p.A. e delle centrali di committenza regionali”.

Infine, il comma 4 della disposizione in esame statuisce che le Regioni, le Provincie autonome e gli enti locali “per il tramite delle amministrazioni centrali dello Stato, possono avvalersi del supporto tecnico-operativo delle società di cui al comma 1 per la promozione e la realizzazione di progetti di sviluppo territoriale finanziati da fondi europei e nazionali”.

Quest’ultima disposizione è stata oggetto di attenzione da parte del Consiglio di Stato, Sez. Consultiva per gli Atti Normativi (parere del 7 ottobre 2021 n. 1614/21), in quanto sembrerebbe consentire agli enti territoriali di avvalersi del supporto tecnico-operativo di tutte le società in house, ancorché sotto il controllo statale, sottoscrivendo con le società a partecipazione pubblica delle apposite convenzioni attuative onerose, ai sensi del comma 5 dell’art. 10 D.L. n. 77/2021.

Si tratterebbe di una deroga al c.d. controllo analogo che consentirebbe agli enti territoriali di avvalersi di qualsiasi società in house, ivi includendo quelle rispetto alle quali non viene esercitato un controllo analogo, in quanto partecipate dalle Amministrazioni centrali dello Stato.

Infatti, come giustamente osservato in dottrina, “una lettura alternativa della disposizione in esame (volta a limitare l’applicazione ai soli rapporti fra amministrazione conferente ed organismo in house) ne paleserebbe la sostanziale inutilità, atteso che non occorrerebbe certo una specifica disposizione per consentire a una qualunque amministrazione di avvalersi di propri organismi in house al fine di attivare con essi specifiche convenzioni aventi ad oggetto l’espletamento di attività di supporti tecnico-operativo finalizzate alla realizzazione di piani e programmi (anche) di matrice eurounitaria”.

 

1.4       La riforma dei servizi pubblici locali

Possiamo dire che il primo intervento organico in materia si ha con la riforma dei servizi pubblici locali di cui al d.lgs. n. 201/2022.

Si tratta di un provvedimento al cui interno è possibile rintracciare i principi e le regole in grado di assicurare l’operatività del sistema del settore delle società in house.

Il dlgs. n. 201/2022, al quale va riconosciuto il merito di aver razionalizzato i diversi interventi susseguitesi nel corso del tempo, ha introdotto i parametri cui gli amministratori sono tenuti ad attenersi.

Pur riconoscendo la discrezionalità dell’ente nelle varie fasi dell’istituzione, della regolazione e della scelta delle modalità di gestione dei servizi pubblico, viene riproposta la necessità della motivazione dettagliata della scelta, con l’intento di garantire un più corretto utilizzo delle risorse pubbliche.

In questa prospettiva, l’autorità locale deve necessariamente prendere in considerare gli elementi che concorrono a determinare la migliore realizzazione del pubblico interesse attraverso l’attivazione di questo o quel servizio.

Al contempo è riservato all’autorità locale un margine di discrezionalità molto ampio allorché decide di promuovere la realizzazione di un servizio pubblico non ricompreso tra quelli imposti dalla normativa vigente.

Margini di discrezionalità che appaiono, invece, decisamente ridotti ad opera del d.lgs n. 201/2022 allorchè si percepisce la volontà di predeterminare a monte le opzioni riservate alle autorità locali anche in relazione agli affidamenti in house.

In questo senso si vedano quelle disposizioni che specificano l’iter logico giuridico che l’ente deve osservare sia in relazione alla  decisione di attivare un pubblico servizio di natura non obbligatoria, sia in relazione alle correlate modalità di gestione, indicando i criteri che gli enti locali devono tenere in considerazione.

In particolare, degna di nota è l’indicazione puntuale oltre che esaustiva degli elementi che devono inderogabilmente essere oggetto di valutazione da parte dell’ente al fine di poter individuare la modalità di gestione più adeguata e con essa definire il rapporto contrattuale.

In altri termini, all’avvio della procedura di affidamento, l’ente è chiamato ad una valutazione preliminare che tenga conto dei “… risultati della eventuale gestione precedente e del medesimo servizio sotto il profilo della finanza pubblica, della qualità del servizio offerto, dei costi per l’ente locale e per gli utenti e degli investimenti effettuati”, fornendone adeguato riscontro in sede di motivazione.

Come se ciò non bastasse, con riguardo agli affidamenti in house di importo superiore alla soglia di rilevanza europea, il legislatore ha previsto  un onere motivazionale aggravato richiedendo che venga dato “espressamente conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato ai fini di un’efficiente gestione del servizio, illustrando anche sulla base degli atti e degli indicatori di cui agli artt. 7, 8 e 9, i benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, con riguardo agli investimenti, alla qualità del servizio, ai costi dei servizi per gli utenti, all’impatto sulla finanza pubblica, nonché agli obiettivi di universalità, socialita’, tutela dell’ambiente e accessibilita’ dei servizi, anche in relazione ai risultati conseguiti in eventuali pregresse gestioni in house, tenendo conto dei dati e delle informazioni risultanti dalle verifiche periodiche di cui all’articolo 30”.

 

1.5       L’avvento del nuovo Codice dei Contratti

Anche gli affidamenti in house sono stati innovati dal nuovo Codice dei Contratti pubblici (D.lgs. n. 36/2023).

L’art. 7 del nuovo Codice dei contratti, in linea di continuità con quanto suddetto e con il succitato parere del Consiglio di Stato, introduce il principio di auto-organizzazione della P.A., in forza del quale quest’ultima è libera di decidere se autoprodurre la prestazione, rivolgersi al mercato o, per esempio, cooperare con altre PP.AA. con un partenariato pubblico-pubblico.

Da sempre infatti si è dibattuto circa la collocabilità dell’in house providing nell’ambito dell’alveo della discrezionalità vincolata o in quello dell’auto-organizzazione.

Proprio con il nuovo Codice dei contratti pubblici la discussione intorno all’in-house ha ripreso improvvisamente vigore.

Il  d.lgs.30/2023 porta con se una prospettiva decisamente nuova rispetto a quanto disciplinato dal vecchio Codice degli appalti.

La scelta di ricorrere all’in house providing non riveste più carattere secondario rispetto al libero mercato, ma riveste carattere alternativo a quest’ultimo.

Ciò lo si coglie, innanzitutto, dal fatto che non è possibile rinvenire una riproposizione dell’in house providing nei termini di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 50/2016, secondo cui questa fattispecie costituisce una deroga ai principi unionali e ai principi contenuti nelle direttive in materie di appalti di rango comunitario.

Sul punto la giurisprudenza contabile ha avuto modo di precisare che: “Posto che il nuovo Codice dei contratti pubblici non ricalca i contenuti dell’art. 5 del D.Lgs. n. 50/2016 in merito alla definizione dei requisiti dell’in house providing, si ritiene che la specificazione contenuta alla lett. c) del comma 1 dell’art. 14 del D. Lgs. 36/2023, per cui si può ricorrere all’affidamento a società in house “nei limiti fissati dal diritto dell’Unione europea” garantisca la continuità con le condizioni previste dal vecchio Codice; quando quest’ultimo sarà definitivamente abrogato, i riferimenti per la definizione dell’in house providing potranno pertanto riscontrarsi: o nell’art. 17 della Direttiva n. 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, o nell’art. 12 della Direttiva n. 2014/24/UE sugli appalti pubblici, oppure nell’art. 28 della Direttiva n. 2014/25/UE sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali” ( Corte dei Conti Veneto, deliberazione n. 145/2023)

L’art. 17, c.1, del nuovo Codice elenca i requisiti soggettivi che devono possedere le società affidatarie, richiamando quelli disciplinati dagli art. 4 e 16 del D.Lgs. n. 175/2016 (Testo unico sulle società a partecipazione pubblica).

E’ in relazione all’obbligo motivazionale che si rinviene una diversa impostazione rispetto a quanto previsto dal citato art. 192 del d.lgs. n. 50/2016.

Con la richiamata deliberazione n. 145/2023 la Corte dei Conti del Veneto ha   affermato che “il richiamo contenuto nel comma 2 dell’art. 7 ai principi espressi dagli articoli 1, 2 e 3 dell’articolato normativo, induce il Collegio a ritenere che rimanga fermo l’onere motivazionale di cui si è detto, senza che possa procedersi, anche nel novellato regime, ad un affidamento diretto tout court”.

Se è vero che il comma 2 dell’art. 7 del nuovo Codice richiede sempre l’obbligo di motivazione, non sembra più richiesta una presa d’atto del fallimento del mercato, risultando sufficiente che venga dato atto nella motivazione dei maggiori vantaggi che il ricorso all’in house providing può assicurare.

In particolare, secondo il nuovo Codice degli Appalti, laddove il servizio viene reso a vantaggio della collettività, la motivazione dovrà dare atto della maggiore funzionalità per la collettività, e non solo della maggiore convenienza economica.

In buona sostanza, si dovrà evidenziare in che modo il ricorso all’autoproduzione possa garantire il conseguimento degli obiettivi di universalità, socialità e qualità della prestazione.

Laddove, invece, si tratti di servizio strumentale all’attività della P.A. ci troviamo di fronte ad una motivazione ancora più attenuata, in quanto sarà possibile limitarsi a dare conto dei vantaggi di celerità, economicità e perseguimento di interessi strategici, a fronte dei maggiori costi e tempi più lunghi che il ricorso alla CONSIP o alle altre centrali di committenza richiederebbe per espletare una gara in concorrenza.

Infine, si segnala che con il nuovo Codice, in ossequio al principio della fiducia, la P.A. per procedere all’affidamento diretto non è più tenuta a verificare che chi afferma  di possedere i requisiti di qualificazione come società in house li possegga realmente.

In passato, invece, va rammentato che era stato istituto presso l’ANAC un apposito registro al quale dovevano risultare iscritti tutti i soggetti che ambivano ad essere qualificati come società in house. Solo in caso di esito positivo delle verifiche operate da ANAC, il soggetto poteva risultare destinatario di affidamenti diretti.

Successivamente, è stato introdotto un meccanismo simile a quello della SCIA, in virtù del quale il soggetto era tenuto ad autocertificare il possesso dei requisiti, fatta sempre salva la possibilità di revoca in caso di successivo controllo.

In linea con quest’ultima posizione, il nuovo Codice, come detto, ha rimosso ogni onere in capo al soggetto che dichiara il possesso dei requisiti.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

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– F. Figorilli, L’in house providing fra discrezionalità vincolata e autorganizzazione alla luce delle recenti riforme del legislatore,  Rivista della regolazione dei mercati, Fasc. 3/2023;

– C. Guarini, Una nuova stagione per l’in house providing – L’art. 192, co.2, del d.lgs.18 aprile 2016,n. 50,tradubbi di legittimità costituzionale e sospetti di incompatibilità, Federalismi.it, n. 8/2019;

– S. Ambra, L’affidamento in  house alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, Salvi Juribus, 14 ottobre 2023;

– A.M. Chiarello, “Una nuova cornice di principi per i contratti pubblici”, Il diritto dell’economia» issn 1123-3036, anno 69, n. 110 (1 2023)

–  F. TRAMONTANA, I limiti al ricorso all’in house providing tra disciplina nazionale e ordinamento eurounitario. Note a margine dell’ordinanza di rimessione alla CGUE dell’art. 192 del Codice contratti, in LexItalia.it, www.lexitalia.it, 16 gennaio 2019,

 

 

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