Il Secondo Welfare: genesi, sviluppo, caratteri, tendenza.

Autrice: Anna Laura Rum – 

Abstract

Il Secondo Welfare è l’insieme di interventi che si affiancano a quelli garantiti dal settore pubblico – il “Primo Welfare” – per offrire risposte suppletive ed integrative ai bisogni della collettività e si è sviluppato per affrontare la sempre più evidente crisi dello Stato sociale, in forte difficoltà nel prendersi carico e gestire molti dei problemi che interessano i cittadini.

Il presente scritto è un tentativo di approfondire il tema, ancora dai contorni incerti, a partire da una panoramica sul sistema di welfare, in Europa e in Italia, per poi delineare il passaggio dal Primo al Secondo Welfare, fondamentale per tamponare le recentissime crisi – pandemica e belliche – fino, poi, a scorgere una necessaria integrazione fra i due modelli.

Verranno messi in luce gli attori e protagonisti del Secondo Welfare: in una visione innovativa, lo Stato tende la mano ai soggetti privati, laddove non riesce ad arrivare con le proprie risorse, accorgendosi che il contributo di origine privatistica, in certi casi, è più efficiente e diretto nel rispondere alle istanze sociali dei cittadini.

Ancora, verranno analizzate le disposizioni del nuovo Codice dei contratti pubblici, d. lgs. 36/2023, in materia di Secondo Welfare e sarà osservato il sistema di Secondo Welfare dalla prospettiva normativa e giurisprudenziale eurounitaria.

Infine, sarà esposto, schematicamente, il contenuto del Sesto Rapporto sul Secondo Welfare, elaborato dal Laboratorio “Percorsi di Secondo Welfare”.

Sommario: 1. Introduzione: il Welfare State nel panorama europeo e italiano 2. L’approdo al Secondo Welfare 3. Il ruolo del Secondo Welfare nelle recenti crisi 4. Secondo Welfare e Terzo Settore 5. Secondo Welfare e volontariato 6. Riferimenti al Secondo Welfare nel nuovo Codice dei Contratti pubblici, d.lgs. 36 del 2023 7. Secondo Welfare e servizi pubblici nella prospettiva eurounitaria 8. Il Sesto Rapporto sul Secondo Welfare

  1. Introduzione: il Welfare State nel panorama europeo e italiano

I Welfare State europei hanno vissuto l’apice del proprio sviluppo nel periodo compreso tra la fine della Seconda guerra mondiale e i primi anni Settanta. In questa fase, grazie all’intensa crescita economica e al rafforzamento dei diritti civili e sociali, nella maggior parte dei Paesi democratici occidentali, si è assistito alla rapida e pervasiva espansione di sistemi di protezione sociale sempre più ampi e complessi.

Nei Paesi del Sud Europa e in particolare in Italia, presero forma modelli incentrati sull’uomo capofamiglia, occupato in prevalenza nell’industria, protetto da parte del soggetto pubblico, assieme ai familiari a carico.

Il sistema di welfare si incentrava non solo sugli aspetti prettamente lavorativi (come accadeva, in parte, già all’inizio del Novecento), ma anche su pensione, invalidità o disoccupazione.

Tuttavia, nei sistemi così delineati, potevano riscontrarsi profonde disparità di trattamento, fra i lavoratori occupati, che potevano accedere ad ampie tutele sociali e gli esclusi dal mercato del lavoro, che godevano di minori tutele o, addirittura, ne erano completamente privi. Inoltre, si riscontravano differenze interne alle stesse categorie tutelate, con sostanziali disparità tra i lavoratori occupati in piccole imprese, che ricevevano prestazioni di importo modesto e godevano di trattamenti di minor favore e i lavoratori delle imprese medio-grandi, che godevano, invece, di un più ampio ventaglio di tutele.

Dopo la straordinaria crescita economica e sociale che negli anni Cinquanta e Sessanta aveva accompagnato la fase espansiva del welfare, negli anni Settanta, con l’avvento di crisi politiche, sociali, economiche e finanziarie, si sprofondò in un periodo di austerità: si avvertì, in particolare,   la necessità di contenere la spesa pubblica e di fronteggiare nuovi rischi sociali, come la non autosufficienza, l’esclusione sociale, il mancato sviluppo o l’obsolescenza del capitale umano, la precarietà lavorativa, la difficoltà di conciliazione fra responsabilità lavorative e responsabilità familiari, derivanti da profondi cambiamenti demografici, economici, sociali e culturali.

Tali sfide economico-sociali si sono trascinate fino ai giorni nostri, a causa, anche, dei fenomeni di globalizzazione e di integrazione europea.

Infatti, da una parte, la globalizzazione ha agito sul Welfare State imponendo nuovi vincoli e limitando, dopo la Golden Age, le capacità dei governi nazionali di progettare, finanziare e gestire i propri sistemi di protezione sociale. Invece, dall’altra parte, un forte impatto sulla configurazione nazionale del Welfare State è stato generato dall’integrazione europea che, a partire dagli anni Ottanta, attraverso sia il completamento del mercato interno, sia l’effettiva unione economica e monetaria, ha messo in moto un processo che è andato a condizionare, direttamente e indirettamente, anche lo sviluppo dei sistemi di welfare nazionali: con il Trattato di Maastricht del 1992, ad esempio, vi è stata la cancellazione virtuale dei confini e la creazione di un mercato unico, che ha condotto alla progressiva dissoluzione dello stretto e tradizionale legame tra diritti sociali e territorio.

Quindi, nell’ultimo ventennio, i Welfare State europei si sono trovati in una condizione di crescente difficoltà che li ha resi incapaci di affrontare, totalmente o parzialmente, bisogni sociali consueti e nuovi. I fenomeni di globalizzazione e il processo di integrazione europea, che hanno influenzato profondamente le azioni adottabili dagli Stati nazionali, ne hanno indebolito la capacità strategica ed operativa, specialmente sul fronte sociale; inoltre, a livello di dinamiche “endogene”, come i cambiamenti demografici, i mutamenti delle strutture familistiche e le trasformazioni del mercato del lavoro – in particolare per quel che riguarda giovani e donne – sono stati ridisegnati i confini entro cui, tradizionalmente, operavano gli attori pubblici.

Di fatto, dunque, da oltre due decenni, i Paesi europei stanno riformando i propri modelli sociali, basati su strutture demografiche e socio-economiche ormai datate.

Più specificamente, in Italia, a causa del perdurare della crisi economico-finanziaria e di problemi strutturali, in tema di welfare si è avvertita una forte difficoltà, al pari di tanti altri Paesi europei e, in questo scenario di sfide e trasformazioni, si è delineata la necessità di individuare un “nuovo” modello di Welfare, che permettesse di rispondere in modo efficace ad istanze di tutela sociale sempre più differenziate e complesse, tenendo sotto controllo, al contempo, i costi da sostenere.

 

  1. L’approdo al Secondo Welfare

A grandi linee, possono distinguersi tre cause che hanno condotto ad una crisi progressiva del sistema del Primo Welfare italiano.

In primo luogo, la crescente differenziazione dei bisogni ha reso sempre più inefficaci le risposte offerte dalle pubbliche amministrazioni: le tradizionali misure di welfare incentrate principalmente su erogazioni monetarie (pensioni, sussidi) e sull’offerta di servizi standardizzati, alla luce dei cambiamenti in atto, risultavano sempre più inadeguati.

In secondo luogo, si è assistito ad una sempre maggiore incapacità delle famiglie di garantire un salvagente di servizi, per i propri componenti più vulnerabili, quali minori, giovani e anziani, così non potendo più compensare le lacune del pubblico.

In terzo luogo, la crisi ha accentuato situazioni di grave povertà già in essere, per le molte famiglie che, per aiutare i propri componenti più fragili, hanno ridotto i consumi, speso i risparmi, talvolta contraendo debiti. Quindi, sono peggiorate le condizioni di vita di coloro che già si trovavano in difficoltà e, talvolta, sono aumentate le situazioni di indigenza di persone che mai si erano trovate in questa condizione.

Pertanto, a fronte di uno scenario di sfide e trasformazioni, è emersa con ancora più forza la necessità di rispondere in modo nuovo e più efficace a una domanda più differenziata di tutela sociale: il nuovo Welfare doveva assistere le diverse facce della vulnerabilità, che colpiva in particolare e sempre più la classe media, fornendo più prestazioni e servizi e sempre meno trasferimenti in denaro.

Il nuovo Welfare doveva fondarsi sull’integrazione tra due sfere di intervento sociale: una pubblica e una privata. Ecco come siamo approdati al “Secondo Welfare”.

Osservate, allora, le dinamiche che hanno condotto il nostro sistema di protezione sociale nell’attuale situazione di crisi, può procedersi ad analizzare il ruolo che il Secondo Welfare ha assunto nel contesto socio-economico italiano. Come visto, infatti, proprio per uscire da questa condizione di crisi, è stata formulata la proposta del “Secondo Welfare”, una commistione di programmi di investimenti sociali a finanziamento non pubblico, fornito da un’ampia gamma di attori privati, che operano prevalentemente in reti contraddistinte da un forte carattere territoriale, i quali vanno progressivamente affiancandosi agli attori pubblici.

In sostanza, si tratta di azioni sviluppate da soggetti sia profit che non profit – come aziende, assicurazioni, sindacati, fondi integrativi, associazioni datoriali, enti bilaterali, fondazioni, associazioni, enti di volontariato, mutue, enti religiosi, cooperative e imprese sociali – che, a diverso titolo, sono in grado di offrire un ampio ventaglio di misure e interventi sociali per affrontare i rischi e i bisogni dei cittadini.

Tali soggetti non sostituiscono la spesa pubblica con la spesa privata, ma mobilitano risorse aggiuntive che permettono di implementare azioni sussidiarie, rispetto ai “tradizionali” interventi messi in campo dallo Stato.

Dunque, a fronte di un Welfare State che non riusciva a rispondere coerentemente ai bisogni sociali vecchi e nuovi della popolazione, in Italia è stato individuato un nuovo modello di welfare, il Secondo Welfare, col quale affrontare, efficacemente, le crescenti domande di tutela sociale espresse dai cittadini e che, nel contempo, consentisse allo Stato di tenere sotto controllo il proprio bilancio: misure e interventi sociali erogati da soggetti privati, affiancano, ora, in via sussidiaria e integrativa, l’operato degli attori pubblici, ove questi ultimi non riescano a fronteggiare, da soli, i bisogni di welfare dei cittadini.

Il Secondo Welfare, quindi, si delinea come l’insieme di interventi che si affiancano a quelli garantiti dal settore pubblico – il “Primo Welfare” – per offrire risposte suppletive ed integrative ai bisogni della collettività e si è sviluppato per affrontare la sempre più evidente crisi dello Stato sociale, in forte difficoltà nel prendersi carico e gestire molti dei problemi che interessano i cittadini.

Come visto, le ragioni di tale crisi sono molteplici, ma si possono individuare alcune macro-dinamiche che, più di altre, determinano questa situazione: mutamenti socio-demografici epocali, scarsi investimenti pubblici per affrontarli e, più recentemente, la crisi pandemica legata al Covid-19, che ha accelerato e aggravato problemi già presenti.

Il Secondo Welfare è così definito per essere secondo da un punto di vista temporale, essendosi sviluppato successivamente al Primo Welfare, strutturato dallo Stato nel corso del Novecento e da un punto di vista funzionale, in quanto aggiuntivo, rispetto agli schemi del Primo Welfare, integrando le sue lacune, stimolando la sua modernizzazione e addentrandosi in aree di bisogno ancora inesplorate dal soggetto pubblico. Infine, è secondo sotto un profilo finanziario, posto che mobilita risorse aggiuntive di natura non pubblica, messe a disposizione da diversi soggetti economici e sociali.

In definitiva, può affermarsi che il Secondo Welfare viene attuato da parte di soggetti non pubblici, che affiancano lo Stato per rispondere ai bisogni sociali dei cittadini, attraverso collaborazioni, relazioni sociali e partnerships: da questo incontro, nascono nuovi servizi, prodotti e modelli per rispondere più efficacemente alle necessità di welfare delle persone e delle comunità.

In particolare, gli interventi, tutt’altro che autoritativi, prevedono frequentemente la partecipazione e responsabilizzazione dei beneficiari, anche mediante il cofinanziamento delle prestazioni.

Tali iniziative contribuiscono a innovare il sistema di welfare nazionale, ampliare il raggio della protezione sociale, alimentare crescita e sviluppo economico.

 

  1. Il ruolo del Secondo Welfare nelle recenti crisi

Il Secondo Welfare ha avuto un ruolo cruciale anche per affrontare la recente crisi pandemica, con le connesse emergenze sanitarie, economiche, culturali-formative, ma anche per affrontare gli attuali problemi di gestione e accoglienza dei rifugiati, la odierna necessità di aiuti alle popolazioni colpite dalla guerra in Ucraina ed Israele, e i problemi sorti anche in Italia, di natura economica ed occupazionale.

La pandemia, in particolare, ha accentuato i limiti strutturali del welfare statale, c.d. Primo Welfare, ovvero, la predominanza del sistema previdenziale rispetto alla sanità e alle politiche sociali e delle politiche passive rispetto alle attive.

A fronte di questi limiti e dell’incapacità di affrontare i bisogni, così articolati, emergenti dalla crisi pandemica, si è andato ad accentuare il protagonismo del Secondo Welfare, avviando nuovi processi di semplificazione e sburocratizzazione nell’erogazione dei servizi, aprendo a prospettive innovative per la costituzione di reti multi-attori, così moltiplicando gli intrecci tra Primo e Secondo Welfare.

Il Secondo Welfare ha contribuito a limitare le ricadute sociali del periodo pandemico e ha incrementato i contributi per il sociale rispetto ad aree di intervento come sport, cultura e ambiente.

Durante la pandemia, il Secondo Welfare ha contribuito ad arginare gli effetti della crisi economica e sociale, con modalità innovative di azione e penetrazione in nuove aree di intervento. Per esempio, la collaborazione con il Terzo Settore e con la società civile ha facilitato la gestione in tempi stretti di misure nazionali quali i “buoni spesa”.  Altri casi di innovazione, in consolidamento delle attività precedenti, sono state le azioni verso il sistema scolastico, in fase di chiusura delle scuole e di formazione a distanza.

In definitiva, può osservarsi che, nei periodi di forte crisi, come pandemia e guerre in paesi relativamente vicini, talvolta lo Stato sociale non riesce a raggiungere tutti i cittadini e a rispondere interamente ai loro bisogni. Così, infatti, non è riuscito lo Stato italiano a fronteggiare, con le proprie sole risorse, lo stress economico, sociale e sanitario degli ultimissimi anni.

Dunque, stiamo attualmente assistendo alla decisa emersione e consolidamento di un nuovo modello di welfare, il Secondo Welfare, che si caratterizza per un sussidio di matrice privatistica alle carenze statali, ad un intervento fattivo e talvolta determinante dell’iniziativa privata nell’erogazione del servizio pubblico, sia in chiave integrativa, rispetto all’iniziativa statale, che sostitutiva.

In momenti di forti crisi, quindi, lo Stato tende la mano all’iniziativa privata, per chiedere supporto nell’erogazione di servizi a tutela di interessi primari, e costituzionalmente garantiti, della collettività, quali, fra gli altri, la salute, l’istruzione, il lavoro. Gli ultimi anni della storia italiana lo hanno dimostrato: affidare più responsabilità ai privati può giovare allo Stato. Gli attori privati, infatti, integrano con proprie iniziative le strategie pubbliche di Welfare. Un principio, quest’ultimo, sancito nel nostro ordinamento dall’articolo 118, u.c., della Costituzione, che formalizza il riconoscimento delle comunità locali e dei corpi sociali intermedi e ne ammette l’autonomia, inquadrando i soggetti privati in ambito territoriale locale quali attori complementari, e non sostitutivi, rispetto alle istituzioni pubbliche.

 

  1. Secondo Welfare e Terzo Settore

In materia di Secondo Welfare, si impone un approfondimento sul tema del Terzo Settore, al primo strettamente connesso, considerata la recente istituzionalizzazione del fenomeno e l’apporto concreto che gli attori del Terzo Settore garantiscono all’apparato pubblico nell’erogazione di tutti i servizi rientranti nell’area welfare.

Innanzi tutto, il Terzo Settore può essere definito come un sistema sociale ed economico che si affianca alle istituzioni pubbliche e al mercato e che interagisce con entrambi, per l’interesse delle comunità. In altri termini, il Terzo Settore è un insieme di enti di carattere privato che agiscono in diversi ambiti, dall’assistenza alle persone con disabilità alla tutela dell’ambiente, dai servizi sanitari e socio-assistenziali all’animazione culturale. Spesso, poi, gestiscono servizi di welfare istituzionale e sono presenti per la tutela del bene comune e la salvaguardia dei diritti negati.

Ancorché il Terzo Settore esista da decenni, è stato riconosciuto giuridicamente in Italia solo nel 2016, con l’avvio della riforma che ne definisce i confini e le regole di funzionamento: al Terzo Settore è dedicato, oggi, un Codice, contenuto nel d.lgs. 117 del 2017.

Quindi, può ricondursi al Terzo Settore, in particolare, quell’attività di interesse generale definita dalla legge, posta in essere da un ente privato, iscritto al registro unico nazionale del Terzo Settore, che agisce senza scopo di lucro, per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.

Fanno parte degli enti del Terzo Settore anche imprese sociali, cooperative o semplici associazioni che svolgono attività commerciali.

Pertanto, il Terzo Settore non è solo impegno sociale organizzato, ma è anche un motore importante dell’economia del paese, quella ispirata da finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale condivise.

È importante ricordare che, tuttavia, non tutti gli enti non profit possono entrare a far parte del Terzo Settore, essendo richiesto, come requisito imprescindibile, lo svolgimento di una o più attività di interesse generale. Inoltre, la legge esclude taluni enti dal Terzo Settore, come i sindacati, i partiti o le fondazioni di origine bancaria, ancorché enti non profit.

La definizione giuridica di enti ricompresi nel Terzo Settore, data dal Codice, all’art. 4, c. 1, è la seguente: “Sono enti del Terzo Settore le organizzazioni  di  volontariato, le associazioni di promozione  sociale,  gli  enti  filantropici,  le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni,  riconosciute  o  non riconosciute, le fondazioni e gli altri  enti  di  carattere  privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento,  senza  scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità  sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione  volontaria  o  di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità  o  di produzione o scambio di beni o  servizi,  ed  iscritti  nel  registro unico nazionale del Terzo Settore”.

Allora, il processo d’istituzionalizzazione del Terzo Settore, tuttora in corso, implica, per gli interessati, un necessario adeguamento a criteri di semplificazione, leggibilità e standardizzazione: per esempio, l’accesso a fondi privati richiede trasparenza e misure d’impatto sociale standard, così come l’iscrizione al registro unico del Terzo Settore, che prevede di ricondurre l’attività svolta ad almeno uno dei 26 ambiti definiti dal legislatore nel Codice.

 

  1. Secondo Welfare e volontariato

I caratteri e le finalità del Secondo Welfare impongono anche la necessità di un confronto con le realtà di volontariato, capillarmente diffuse sul territorio nazionale e in continua crescita, di rilievo fondamentale per la sussistenza e il raggiungimento degli scopi del Secondo Welfare: le Organizzazioni di volontariato, infatti, accanto agli enti del Terzo Settore, permettono allo Stato e agli enti locali, a partire da quelli più vicini ai cittadini, i Comuni, di intervenire fattivamente con interventi per rispondere ai bisogni primari socialmente richiesti.

Possiamo pienamente affermare che il Secondo Welfare si avvale dell’operato del volontariato, talvolta vero strumento di coordinamento fra cittadino ed ente locale, per l’erogazione di servizi indispensabili e di rilievo primario. Si pensi, a solo titolo esemplificativo, all’attività di primo soccorso erogata con le autoambulanze, o all’attività di accompagnamento e trasporto di persone non autosufficienti presso strutture ospedaliere, o, ancora, all’assistenza a soggetti con patologie non curabili e degenerative.

Precisamente, possiamo definire “volontariato” quell’insieme di organizzazioni che prestano servizi gratuitamente, sotto varie forme, più o meno strutturate, nell’ambito del welfare, a livello locale: tuttavia, sarebbe improprio dire che il sistema di welfare locale venga sorretto esclusivamente dal volontariato, o addirittura da quest’ultimo sostituito.

Infatti, se è vero che ci sono contesti locali o regionali in cui il volontariato interviene con ruolo pregnante nei servizi sociali, sociosanitari o sanitari, rappresentando un punto di riferimento prioritario per gli affidamenti, con il conseguente flusso di significative risorse pubbliche, pur tuttavia, in altre realtà territoriali, si possono trovare attori del Terzo Settore, come, ad esempio, cooperative sociali, a garantire i medesimi servizi.

Per quanto attiene al rapporto fra volontariato ed enti locali, si osserva che questi ultimi accolgono di buon grado la formazione di Organizzazioni di volontariato, in quanto non solo di fondamentale utilità in termini di servizi ai cittadini, ma anche perché, negli anni, sono andate sviluppandosi relazioni strette e profonde, fra i due soggetti, tanto da costituire un patrimonio condiviso della politica locale: è frequente il ricorso a modelli di co-progettazione, fra Comuni e Organizzazioni di volontariato, che si affiancano al modello di affidamento al volontariato di un mero ruolo esecutivo.

Inoltre, gli enti locali e principalmente i Comuni, talvolta, condividono risorse con le Organizzazioni di volontariato, come immobili, aree pubbliche, spazi condivisi, al fine di costruire un coordinamento di progetti su scala locale, dove Comune e Organizzazione si rapportano paritariamente.

In definitiva, le organizzazioni di volontariato hanno un ruolo di grande valore nel sistema di welfare locale e può sicuramente affermarsi che questa tendenza contribuisce allo sviluppo del Secondo Welfare, integrandolo e potenziandolo, entrando il volontariato in relazione con gli enti locali attraverso modalità ora meramente “esecutive”, ora, invece, alla pari, in ottica di accordi o convenzioni.

Infine, deve evidenziarsi che, a differenza degli enti dell’istituzionalizzato e normativizzato Terzo Settore, le Organizzazioni di volontariato conservano maggiore flessibilità, sia nella loro struttura e nel loro sostentamento, che nel loro rapportarsi al soggetto pubblico, non essendo richiesto loro di essere preposte ad attività rigidamente indicate dalla legge, né iscrizioni in appositi registri.

L’importanza del volontariato viene riconosciuta a livello globale, tanto che è stata istituita un’apposita Giornata per farne memoria.

In occasione della Giornata Internazionale del Volontariato, celebrata a Trento, lo scorso 3 febbraio 2024, è intervenuto anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la cui dichiarazione si riporta di seguito:

«Il volontariato rappresenta un valore inestimabile, espressione della solidarietà basata sulla consapevolezza di un destino comune a tutta l’umanità.

Nelle sue diverse esperienze, contribuisce alla coesione di ogni società e rappresenta un veicolo prezioso per la comprensione e la cooperazione internazionale.

Offrire soccorso a chi è in difficoltà con altruismo e abnegazione genera comunità inclusive, robuste, fondate sulla tutela dei diritti fondamentali.

L’ampia e spontanea mobilitazione in aiuto delle comunità colpite da eventi calamitosi ne è testimonianza.

Il volontariato costituisce, altresì, una risorsa preziosa per le istituzioni che, con la valorizzazione della partecipazione della società civile, possono adottare misure più efficaci e vicine ai bisogni e alle attese delle persone.

Le Nazioni Unite esortano gli Stati membri a coinvolgere maggiormente i volontari nell’affrontare le emergenze e le nuove necessità collettive globali, tra le quali spicca il contrasto ai cambiamenti climatici e il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

In questa Giornata, esprimo a coloro che offrono la loro opera il profondo senso di gratitudine della Repubblica».

 

  1. Riferimenti al Secondo Welfare nel nuovo Codice dei Contratti pubblici, d.lgs. 36 del 2023

Una visione d’insieme del Secondo Welfare richiede un approfondimento anche del rapporto fra questo modello assistenziale e la normativa in materia di contratti pubblici. L’approfondimento in questione, in particolare, verrà condotto attraverso un’analisi della Relazione illustrativa al nuovo Codice dei contratti pubblici, d.lgs. 36/2023: le norme particolarmente rilevanti del Codice, in materia di Secondo Welfare, possono individuarsi nel disposto degli artt. 6 (recante principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale e disciplina dei rapporti con gli enti del Terzo Settore), 127 (sull’affidamento dei servizi sociali), 128 (sui servizi alla persona) e 129 (sugli appalti riservati).

Procedendo con ordine, l’art. 6, come noto, recepisce la sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, che ha sancito la coesistenza di due modelli organizzativi alternativi per l’affidamento dei servizi sociali, l’uno fondato sulla concorrenza, l’altro sulla solidarietà e sulla sussidiarietà orizzontale. Il secondo tipo di affidamenti (diretti) riguarda in particolare i servizi sociali di interesse generale erogati dagli enti del Terzo Settore e non rappresenta una deroga, da interpretare restrittivamente, al modello generale basato sulla concorrenza, bensì uno schema a sua volta generale da coordinare con il primo.

Il fondamento costituzionale di un tale modello si rinviene nell’art. 118, c. 4 Cost., in quanto esso costituisce attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, coinvolgendo la società civile nello svolgimento di funzioni amministrative, e nell’art. 2 Cost., configurando, altresì, uno strumento di attuazione dei doveri di solidarietà sociale, necessari a realizzare il principio personalista su cui si fonda la Costituzione.

Quindi, occorre consentire un bilanciamento tra concorrenza e sussidiarietà orizzontale, superando la tendenza ad assicurare la prevalenza assoluta della prima sugli altri valori parimenti protetti dalla Costituzione.

Il modello proposto intende anche apportare benefici alla collettività in termini di efficacia, efficienza e qualità dei servizi, promuovendo la capacità di intervento dei privati, spesso più rapida di quella delle amministrazioni.

A tal fine, è previsto che gli enti affidatari dei servizi debbano essere scelti nel rispetto dei principi di non discriminazione, trasparenza ed effettività (e sempre in base al principio del risultato). In tal modo, viene attribuita portata generale a quanto già previsto dagli artt. 55 e 57 del Codice del Terzo Settore (d.lgs. n. 117 del 2017), chiarendo il rapporto di non conflittualità tra le norme considerate e il Codice dei contratti pubblici.

Del resto, il superamento del rapporto di conflittualità tra il Codice del Terzo Settore e il Codice dei contratti pubblici è già stato messo in evidenza dal parere n. 802 del 3 maggio 2022 del Consiglio di Stato, secondo cui “sia in sede legislativa che in sede di interpretazione giurisprudenziale emerge chiaramente una linea evolutiva della disciplina degli affidamenti dei servizi sociali che, rispetto a una fase iniziale di forte attrazione nel sistema della concorrenza e del mercato, sembra ormai chiaramente orientata nella direzione del riconoscimento di ampi spazi di sottrazione a quell’ambito di disciplina”.

L’art. 6 del nuovo Codice dei contratti pubblici recepisce anche la normativa comunitaria: Considerando 28, 117 e 118 della direttiva 2014/24; art. 10, lettera h) della stessa direttiva, intitolato «Esclusioni specifiche per gli appalti di servizi»; art. 77 della direttiva citata, intitolato «Appalti riservati per determinati servizi».

Inoltre, l’art. 6 recepisce la recente giurisprudenza europea, secondo cui:

– “L’articolo 10, lettera h), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che prevede che servizi di trasporto sanitario di urgenza ed emergenza possano essere attribuiti mediante convenzione, in via prioritaria, soltanto a organizzazioni di volontariato e non a cooperative sociali che possono distribuire ai soci ristorni correlati alle loro attività” (Corte di giustizia dell’Unione Europea, sezione VIII, sentenza 7 luglio 2022, cause riunite C 213/21 e C 214/21, Italy Emergenza Cooperativa Sociale contro Azienda Sanitaria Locale Barletta-Andria-Trani);

– “L’articolo 10, lettera h), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere interpretato nel senso che rientrano nella deroga da esso prevista all’applicazione delle norme di aggiudicazione degli appalti pubblici l’assistenza prestata a pazienti in situazione di emergenza in un veicolo di soccorso da parte di un paramedico/soccorritore sanitario, di cui al codice CPV [Common Procurement Vocabulary (vocabolario comune per gli appalti pubblici)] 75252000-7 (servizi di salvataggio), nonché il trasporto in ambulanza qualificato, comprendente, oltre al servizio di trasporto, l’assistenza prestata a pazienti in un’ambulanza da parte di un soccorritore sanitario coadiuvato da un aiuto soccorritore, di cui al codice CPV 85143000-3 (servizi di ambulanza), a condizione, con riferimento a detto trasporto in ambulanza qualificato, che esso sia effettivamente assicurato da personale debitamente formato in materia di pronto soccorso e che riguardi un paziente per il quale esiste un rischio di peggioramento dello stato di salute durante tale trasporto” (Corte di giust. U.E., sez. III, sent. 21 marzo 2019, C-465/17. Pres. Vilaras, Est. Šváby, Avv. gen. Campos Sánchez-Bordona – Falck Rettungsdienste GmbH, Falck A/S c. Stadt Solingen);

– “1) Gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che consente alle autorità locali di attribuire la fornitura di servizi di trasporto sanitario mediante affidamento diretto, in assenza di qualsiasi forma di pubblicità, ad associazioni di volontariato, purché il contesto normativo e convenzionale in cui si svolge l’attività delle associazioni in parola contribuisca effettivamente a una finalità sociale e al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza di bilancio. 2) Qualora uno Stato membro consenta alle autorità pubbliche di ricorrere direttamente ad associazioni di volontariato per lo svolgimento di determinati compiti, un’autorità pubblica che intenda stipulare convenzioni con associazioni siffatte non è tenuta, ai sensi del diritto dell’Unione, a una previa comparazione delle proposte di varie associazioni. 3) Qualora uno Stato membro, che consente alle autorità pubbliche di ricorrere direttamente ad associazioni di volontariato per lo svolgimento di determinati compiti, autorizzi dette associazioni a esercitare determinate attività commerciali, spetta a tale Stato membro fissare i limiti entro i quali le suddette attività possono essere svolte. Detti limiti devono tuttavia garantire che le menzionate attività commerciali siano marginali rispetto all’insieme delle attività di tali associazioni, e siano di sostegno al perseguimento dell’attività di volontariato di queste ultime” (Corte di giustizia dell’Unione europea, quinta sezione, sentenza 28 gennaio 2016, in causa C-50/14, Consorzio Artigiano Servizio Taxi e Autonoleggio (CASTA) e altri contro Azienda sanitaria locale di Ciriè, Chivasso e Ivrea (ASL TO4), Regione Piemonte).

Come visto, in merito alla nozione di enti del Terzo Settore, l’art. 4 del d. lgs. n. 117 del 2017 definisce questi ultimi come “le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo Settore”.

Anche la Corte di Giustizia, nel richiamo giurisprudenziale già visto sopra (Corte di giustizia dell’Unione Europea, sezione VIII, sentenza 7 luglio 2022, cause riunite C 213/21 e C 214/21, Italy Emergenza Cooperativa Sociale contro Azienda Sanitaria Locale Barletta-Andria-Trani), ha precisato che la nozione di organizzazioni o di associazioni “senza scopo di lucro”, che possono beneficiare di affidamenti diretti, ai sensi dell’art. 10, lettera h), della direttiva 2014/24, deve essere strettamente circoscritta alle organizzazioni e alle associazioni che non perseguono alcun fine di lucro e che non possono procurare alcun utile, neppure indiretto, ai loro membri, non rientrando, pertanto, in siffatta nozione le cooperative sociali che, distribuendo utili ai soci, non possono definirsi “senza scopo di lucro”.

Ancora, la Corte di Giustizia, in un’altra pronuncia (Corte di giustizia dell’Unione Europea, sentenza 21 marzo 2019, C-465/17, punto 59), ha precisato che tali organizzazioni o associazioni devono avere l’obiettivo di svolgere funzioni sociali e non avere finalità commerciali; infine, devono reinvestire eventuali utili per raggiungere i loro obiettivi.

Il modello in questione è coerente, infine, con il modello del partenariato pubblico–pubblico, fondato sulla collaborazione tra amministrazioni per la realizzazione di attività di interesse comune in mancanza di un rapporto sinallagmatico che preveda uno scambio di prestazioni. La co-amministrazione pubblico-privato proposta non si basa infatti sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico. Ciò secondo le indicazioni della Corte costituzionale, nella sentenza n. 131 del 2020.

Procedendo con l’art. 127 del nuovo Codice dei contratti pubblici, recante le norme applicabili ai servizi sociali e assimilati, si nota che la disposizione, tenendo fermo quanto previsto dal predetto art. 6, stabilisce che per l’affidamento dei servizi sociali e degli altri servizi assimilati di cui all’allegato XIV alla direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, per valori pari o superiori alla soglia di Euro 750.000, le stazioni appaltanti procedono alternativamente: a) mediante bando o avviso di gara; b) mediante avviso di pre-informazione, pubblicato con cadenza continuativa per periodi non superiori a 24 mesi, con l’avvertenza che l’aggiudicazione avverrà senza ulteriore pubblicazione di un avviso di indizione di gara.

In entrambi i casi, il comma 1 della disposizione in esame rinvia all’allegato II.6., rispettivamente, parte I lett. E) e parte I, lett. F), per quanto concerne le informazioni che il bando o l’avviso devono contenere.

Le stazioni appaltanti possono comunque utilizzare anche la procedura negoziata senza pubblicazione di bando, ai sensi dell’art. 76 del Codice e, in tal caso, non applicandosi le previsioni sopra ricordate.

L’avvenuto affidamento del servizio è reso noto mediante la pubblicazione di un avviso di aggiudicazione. È possibile raggruppare gli avvisi su base trimestrale inviandoli cumulativamente al più tardi 30 giorni dopo la fine di ogni trimestre.

I bandi e gli avvisi di gara per le fattispecie in esame devono contenere le informazioni di cui all’allegato II.6, parte III, conformemente ai modelli di formulari stabiliti dalla Commissione europea mediante atti di esecuzione.

Gli avvisi, poi, devono essere pubblicati conformemente all’art. 164.

L’art. 128, invece, detta una disciplina specifica attinente ai cc.dd. servizi alla persona, facendo salvo quanto previsto dall’art. 127: in applicazione dell’art. 37 (che disciplina la programmazione dei lavori e degli acquisti di beni e servizi), le stazioni appaltanti approvano gli strumenti di programmazione nel rispetto della legislazione statale e regionale di settore.

Ai fini della disciplina in questione, sono considerati servizi alla persona i seguenti servizi, come individuati dall’allegato XIV alla direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014: a) servizi sanitari, servizi sociali e servizi connessi; b) servizi di prestazioni sociali; c) altri servizi pubblici, sociali e personali, inclusi i servizi forniti da associazioni sindacali, da organizzazioni politiche, da associazioni giovanili e altri servizi di organizzazioni associative.

Il comma 3 precisa che l’affidamento deve garantire la qualità, la continuità, l’accessibilità, la disponibilità e la completezza dei servizi, tenendo conto delle esigenze specifiche delle diverse categorie di utenti, compresi i gruppi svantaggiati e promuovendo il coinvolgimento e la responsabilizzazione degli utenti.

Le finalità di cui agli artt. 62 (inerente alle aggregazioni e alla centralizzazione delle committenze) e 63 (relativo alla qualificazione delle stazioni appaltanti e delle centrali di committenza) sono perseguite anche tramite le forme di aggregazione previste dalla normativa di settore, con particolare riguardo ai distretti sociosanitari e a istituzioni analoghe.

Per quanto concerne le procedure di aggiudicazione l’art. 128 rimanda espressamente agli artt. 32 (sistemi dinamici di acquisizione), 33 (aste elettroniche) e 34 (cataloghi elettronici), all’art. 59 (accordi quadro) e agli artt. 71 (procedura aperta), 72 (procedura ristretta), 73 (procedura competitiva con negoziazione), 74 (dialogo competitivo), 75 (partenariato per l’innovazione) e, similmente all’art. 127, alla procedura negoziata senza pubblicazione di un bando di cui all’art. 76.

Il comma 7, poi, estende alla fattispecie in esame l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 79 (specifiche tecniche), 80 (etichettature), 84 (pubblicazione a livello europeo), 85 (pubblicazione a livello nazionale), 89 (inviti ai candidati), 94 (cause di esclusione automatica), 95 (cause di esclusione non automatica), 98 (illecito professionale grave), 99 (verifica del possesso dei requisiti), 100 (requisiti di ordine speciale), 101 (soccorso istruttorio) e 110 (offerte anormalmente basse), adottando il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo.

Il successivo comma 8, relativamente agli affidamenti di servizi alla persona inferiori alla soglia europea, non richiama, in prospettiva liberalizzante, la disciplina generale degli appalti sotto soglia, ma impone, attraverso il richiamo al comma 3, esclusivamente il rispetto dei principi (generali) di qualità, continuità, accessibilità, disponibilità e completezza, e gli obblighi di tenere conto delle esigenze specifiche delle diverse categorie di utenti, compresi i gruppi svantaggiati, e di promuovere il coinvolgimento e la responsabilizzazione degli utenti.

Si è inteso, con ciò, recepire le diffuse istanze degli operatori del settore, con particolare riferimento alla obiettiva criticità dell’attuazione, nei settori in questione, del principio di rotazione.

L’art. 129, infine, disciplina i cc.dd. contratti riservati, la cui durata massima non può superare i tre anni.

Le stazioni appaltanti, infatti, hanno facoltà di riservare ad alcuni enti il diritto di partecipare alle procedure per l’affidamento dei servizi sanitari, sociali e culturali individuati nell’allegato XIV alla direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014.

Deve, però, trattarsi di Enti (cc.dd. “riservatari”) aventi come obiettivo statutario il perseguimento di una missione di servizio pubblico, legata alla prestazione dei servizi di cui sopra e le strutture di gestione o proprietà dei suddetti enti devono essere basate su principi partecipativi o di azionariato dei dipendenti, ovvero richiedere la partecipazione attiva di dipendenti, utenti o soggetti interessati.

Inoltre, nel bando, nel quale le stazioni appaltanti stabiliscono la riserva di cui sopra, deve essere previsto un vincolo di reinvestimento dei profitti, per il conseguimento degli obiettivi statutari o, comunque, una distribuzione o redistribuzione fondata su considerazioni partecipative

Quanto precede fermo restando il disposto dell’art. 6.

Ai sensi dell’art. 129, infine, è esclusa la riserva a favore di enti che, nei tre anni precedenti all’affidamento, siano stati già aggiudicatari di un appalto o di una concessione per i servizi in oggetto.

 

  1. Secondo Welfare e servizi pubblici nella prospettiva eurounitaria

Per comprendere quali sono le prestazioni e i servizi che rientrano nella sfera del Primo Welfare e quali, invece, possono essere ricondotti nell’ambito del Secondo Welfare, occorre, preliminarmente, considerare il dibattito sviluppatosi a livello europeo in tema di servizi di interesse generale. Il dibattito, in particolare, ha avuto origine dal permanere di restrizioni normative e procedure amministrative poco chiare a livello statale, che, di fatto, rendevano difficoltoso espandere le attività di erogazione di servizi oltre i confini nazionali, così venendo impedita la possibilità di avvantaggiarsi del mercato unico europeo.

I servizi d’interesse generale si suddividono in tre categorie: economici, non economici e sociali.

servizi d’interesse economico generale, che sono servizi di base forniti dietro pagamento, come i servizi postali, sono soggetti alle norme europee in materia di concorrenza e mercato interno. Tuttavia, sono possibili deroghe, qualora sia necessario per garantire l’accesso dei cittadini ai servizi di base.

servizi non economici, quali la polizia, la giustizia e i regimi previdenziali previsti dalla legge, non sono soggetti a una normativa europea specifica, né alle norme sul mercato interno e la concorrenza.

servizi sociali d’interesse generale sono quelli che rispondono alle esigenze dei cittadini vulnerabili e si fondano sui principi di solidarietà e accesso paritario. Possono essere di natura sia economica che non economica. Ne sono esempi i sistemi previdenziali e i servizi per l’occupazione e l’edilizia sociale.

La “Guida relativa all’applicazione ai servizi di interesse economico generale, e in particolare ai servizi sociali di interesse generale, delle norme dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato, di appalti pubblici e di mercato interno”, elaborata dalla Commissione UE nel 2013, fornisce chiarimenti di carattere tecnico, sulla base di sintesi concise e talvolta semplificate della normativa e della giurisprudenza in materia di aiuti di Stato, di appalti pubblici e di mercato interno e, per quanto riguarda gli aiuti di Stato, delle decisioni della Commissione relative ai servizi di interesse economico generale (SIEG) e, in particolare, ai servizi sociali di interesse generale (SSIG).

Molti interrogativi sull’applicazione della normativa UE – segnatamente per quanto riguarda la

normativa in materia di aiuti di Stato, di appalti pubblici e di mercato interno – ai servizi di interesse generale e, in particolare, ai servizi sociali di interesse generale (SSIG) sono stati rivolti alla Commissione da parte non solo delle autorità pubbliche degli Stati membri, ma anche dei cittadini, delle organizzazioni della società civile e delle altre parti interessate: le domande riguardano l’impatto di tali norme sulle modalità in cui i servizi in questione possono essere organizzati e finanziati dalle autorità pubbliche degli Stati membri, sulla modalità di selezione dei fornitori dei servizi, nel caso in cui la fornitura sia esternalizzata, e, più in generale, sul quadro normativo relativo a, tra l’altro, i tipi di fornitori, l’accesso ai servizi e la qualità di questi.

Innanzitutto, le norme dell’UE relative agli appalti pubblici non obbligano le autorità pubbliche ad esternalizzare un SSIG. Esse possono decidere di fornire in proprio il servizio, direttamente o nel quadro di una relazione interna (in-house), ma possono anche decidere di fornire il servizio in collaborazione con altre autorità pubbliche: le norme relative agli appalti pubblici e alle concessioni si applicano soltanto se un’autorità pubblica decide di affidare la prestazione di un servizio a un terzo a titolo oneroso.

Se in tale contesto l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore decide di indire un appalto pubblico di servizi o un contratto di servizi, l’appalto rientra nel campo di applicazione della direttiva 2004/18/CE, solo se si raggiungono le soglie pertinenti di applicazione. Gli appalti di servizi sociali e sanitari non sono, tuttavia, soggetti a tutte le disposizioni della direttiva 2004/18/CE e della direttiva 2004/17/CE11, ma solo ai principi fondamentali del diritto dell’Unione europea, come l’obbligo di trattare gli operatori economici in modo non discriminatorio e il principio della trasparenza.

Gli appalti di servizi pubblici e gli appalti di servizi inferiori alle soglie di applicazione delle direttive “appalti pubblici” e le concessioni di servizi (a prescindere dall’importo) non rientrano nel campo di applicazione di dette direttive e sono soggetti unicamente ai principi fondamentali del TFUE (come non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza), a condizione che gli appalti presentino un interesse transfrontaliero certo. In assenza di un interesse transfrontaliero certo, gli appalti di servizi esulano anche dal campo di applicazione delle disposizioni del TFUE.

Con riferimento alla nozione di servizio d’interesse generale (SIG), il protocollo n. 26 del TFUE dedicato, non ne definisce il concetto: tuttavia, la Commissione ha chiarito che si tratta di servizi che le autorità pubbliche degli Stati membri a livello nazionale, regionale o locale considerano di interesse generale e, pertanto, sono oggetto di specifici obblighi di servizio pubblico (OSP). Il termine riguarda sia le attività economiche, che i servizi non economici. Questi ultimi non sono soggetti a una normativa UE specifica, né alle norme del Trattato in materia di mercato interno e concorrenza: tuttavia, alcuni aspetti dell’organizzazione di questi servizi possono essere oggetto di altre norme generali del Trattato, quali il principio di non discriminazione.

Il concetto di servizio d’interesse economico generale (SIEG) è utilizzato negli articoli 14 e 106, paragrafo 2, del TFUE e nel protocollo n. 26 allegato al TFUE: tuttavia, non viene definito né nel TFUE, né nel diritto derivato.

Nel documento in esame, la Commissione ha spiegato che i SIEG sono attività economiche i cui risultati contribuiscono all’interesse pubblico generale, che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento statale (o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di qualità, sicurezza, accessibilità economica, parità di trattamento o accesso universale): in particolare, al fornitore incombe un OSP sulla base di un incarico e di un criterio di interesse generale che assicura che il servizio sia fornito a condizioni che gli consentano di assolvere i propri compiti.

Il concetto, inoltre, può essere applicato a diverse situazioni e condizioni, che variano secondo gli Stati membri, e il diritto dell’UE non crea alcun obbligo di designare formalmente un compito o un servizio di interesse economico generale, fatta eccezione per i casi in cui tale obbligo è previsto dalla legislazione dell’Unione (ad esempio, nei casi dei servizi universali dei settori delle poste e delle telecomunicazioni). Se il contenuto di un SIEG, vale a dire gli obblighi di servizio pubblico, è chiaramente identificato, non è necessario che il servizio in questione sia denominato “SIEG”. Lo stesso vale per la nozione di servizi sociali d’interesse generale (SSIG) di carattere economico.

Passando al concetto di servizio sociale d’interesse generale (SSIG), esso non è definito nel TFUE, né nel diritto derivato.

La comunicazione della Commissione “Attuazione del programma comunitario di Lisbona: i servizi sociali d’interesse generale nell’Unione europea”, del 2006, ha individuato, oltre ai servizi sanitari propriamente detti, due gruppi principali di SSIG: a) i regimi obbligatori previsti dalla legge e i regimi complementari di protezione sociale, con vari tipi di organizzazioni (mutue o regimi professionali), che coprono i rischi fondamentali dell’esistenza, quali quelli connessi alla salute, alla vecchiaia, agli infortuni sul lavoro, alla disoccupazione, al pensionamento e alla disabilità; b) gli altri servizi essenziali prestati direttamente al cittadino.

Questi servizi, che svolgono un ruolo preventivo e di coesione sociale, forniscono un aiuto personalizzato, per facilitare l’inclusione nella società e garantire il godimento dei diritti fondamentali. In primo luogo, essi offrono assistenza ai cittadini che si trovano in condizioni di difficoltà personali o in momenti di crisi di varia natura (come, ad esempio, indebitamento, disoccupazione, tossicodipendenza, disgregazione del nucleo familiare).

In secondo luogo, essi comprendono attività miranti a garantire che gli interessati possano essere completamente reinseriti nella società (riqualificazione e formazione linguistica per gli immigrati) e, in particolare, nel mercato del lavoro (formazione e reinserimento professionale).

Questi servizi completano e sostengono il ruolo delle famiglie, nelle cure destinate, in particolare, ai giovanissimi e agli anziani.

In terzo luogo, rientrano nell’ambito di questi servizi le attività che favoriscono l’integrazione delle persone, con esigenze a lungo termine, a motivo di una disabilità o di un problema sanitario.

In quarto luogo, sono compresi anche gli alloggi popolari, che permettono alle persone socialmente svantaggiate o meno avvantaggiate di ottenere un alloggio.

Alcuni servizi possono ovviamente comprendere tutte e quattro le dimensioni.

Nella comunicazione della Commissione “I servizi di interesse generale, compresi i servizi sociali di interesse generale: un nuovo impegno europeo”, del 2011, sono posti in evidenza gli obiettivi e i principi organizzativi che caratterizzano i SSIG: questi ultimi, in particolare, possono avere un carattere economico o non economico, a seconda dell’attività svolta. I SSIG di carattere economico sono SIEG.

La Commissione, inoltre, nella comunicazione, specifica che le autorità pubbliche degli Stati membri, a livello nazionale, regionale o locale, a seconda della ripartizione delle competenze prevista dal diritto nazionale, dispongono di un ampio margine di manovra riguardo alla definizione di quelli che considerano servizi d’interesse economico generale: gli unici limiti sono imposti dal diritto dell’Unione europea.

Viene specificato, ancora, che l’ambito e l’organizzazione dei SIEG variano notevolmente fra gli Stati membri, a seconda della storia e della cultura dell’intervento pubblico: quindi, esiste una grande varietà di SIEG e le differenze riguardano anche le esigenze e le preferenze degli utenti, che dipendono dalla situazione geografica, sociale e culturale di ciascun Paese.

Dunque, la Commissione afferma che spetta alle autorità pubbliche, a livello nazionale, regionale e locale, decidere in merito al carattere e alla portata di un servizio d’interesse generale.

Conformemente al principio di sussidiarietà e di proporzionalità, infatti, l’Unione europea interviene entro i limiti delle competenze ad essa conferite dal TFUE e soltanto nella misura necessaria: la sua azione rispetta la diversità di situazioni esistenti negli Stati membri e i ruoli affidati alle autorità nazionali, regionali e locali, per assicurare il benessere dei cittadini e promuovere la coesione sociale, garantendo le scelte democratiche, per quanto concerne il livello della qualità dei servizi.

La legislazione dell’Unione impone limiti al margine di manovra degli Stati membri nella definizione dei SIEG, soltanto nei settori che sono stati armonizzati a livello dell’Unione, nei quali si è tenuto conto degli obiettivi d’interesse generale: per questi settori, gli Stati membri non possono legiferare in contrasto con le norme che governano tale armonizzazione.

In materia di Secondo Welfare, nel panorama eurounitario, rileva, poi, la Strategia Europa 2020, che ha come obiettivo principale quello di consentire all’UE di raggiungere una crescita attraverso lo sviluppo delle conoscenze e dell’innovazione, basata su un’economia più verde, più efficiente nella gestione delle risorse e più competitiva e volta a promuovere l’occupazione e la coesione sociale e territoriale.

In particolare, la Strategia Europa 2020 ha delineato un’articolazione su cinque direttrici che riguardano i sistemi di welfare europei, da realizzare, appunto, entro il 2020, in materia di occupazione, ricerca e sviluppo (R&S), cambiamenti climatici e energia, istruzione e lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Ad oggi, questi obiettivi sono stati convertiti in obiettivi nazionali, affinché ciascuno Stato membro possa contribuire al fine comune.

Quindi, in base alla Strategia 2020, i sistemi di protezione sociale devono prestare attenzione e dare risposte ai nuovi rischi e bisogni sociali; inoltre, occorre aumentare l’erogazione di servizi limitando i trasferimenti. Ancora, è prioritario stimolare lo sviluppo di capitale umano. Infine, è necessario ricorrere a soluzioni innovative sotto il profilo sociale ed è auspicabile ragionare in termini di ciclo di vita per garantire misure di welfare in tutte le fasi e rispetto ai bisogni che in ciascuna possono emergere.

In definitiva, nell’ottica eurounitaria complessivamente considerata, lo Stato deve offrire un servizio il più possibile adeguato al bisogno, riducendo gli spazi per interventi standardizzati e impersonali e, soprattutto, deve occuparsi di promuovere stili di vita positivi, sostenere la formazione di capitale umano e sociale, coinvolgere e valorizzare le organizzazioni della società civile, del Terzo Settore, del volontariato e della filantropia.

 

  1. Il Sesto Rapporto sul Secondo Welfare

Ogni due anni, viene elaborato da parte di “Percorsi di Secondo Welfare” – un Laboratorio di ricerca e informazione che dal 2011 amplia e diffonde il dibattito sui cambiamenti in atto nel welfare italiano – un rapporto che analizza lo stato di salute del sistema sociale italiano e mette in luce esperienze e dinamiche di Secondo Welfare.

Nel novembre del 2023, è uscito il Sesto Rapporto, di cui si dà conto, schematicamente, nel prosieguo.

La prima parte del Sesto Rapporto descrive l’attuale contesto di crisi multiple, offrendo una panoramica della nascita e della diffusione della coprogettazione e della coprogrammazione in Italia, alla luce dei principali sviluppi normativi in materia. Oltre ad una approfondita analisi della letteratura, questa sezione contiene i risultati di una ricerca condotta nel corso della prima parte del 2023, coinvolgendo esperti e professionisti.

Le pratiche collaborative sono state approfondite con metodi qualitativi quali interviste, focus group e analisi del contenuto.

Con l’analisi empirica, sono stati individuati diversi elementi che riguardano coprogettazione e coprogrammazione: gli aspetti definitori e le visioni, i punti di forza e di debolezza, i fattori facilitanti e ostacolanti, le sfide e le opportunità che le pratiche collaborative portano con sé.

Nella seconda parte del Sesto Rapporto, vengono analizzate alcune esperienze concrete di coprogettazione e coprogrammazione.

In particolare, gli approfondimenti sono dedicati alla relazione tra welfare aziendale e coprogettazione, al ruolo delle Reti Territoriali di Conciliazione, che in Lombardia da anni promuovono iniziative e percorsi volti a favorire la conciliazione vita-lavoro grazie ad alleanze multiattore, al programma Equilibri della Fondazione Compagnia di San Paolo, lanciato in Piemonte per sostenere l’occupazione femminile e contrastare la povertà educativa, al ruolo delle Fondazioni di comunità nel facilitare le pratiche collaborative, a Cambia Terra, progetto promosso da ActionAid Italia nell’area dell’Arco Ionico per tutelare i diritti delle donne impiegate in agricoltura, attraverso azioni di empowerment e coprogettazione di servizi.

La terza e ultima parte del Rapporto propone raccomandazioni, direttrici di miglioramento e prospettive utili a rendere le pratiche collaborative una leva di cambiamento del welfare locale nella prospettiva dell’inclusione e della sostenibilità.

Per consolidare il ricorso alla coprogrammazione e alla coprogettazione e rafforzare l’efficacia e la legittimazione di questi istituti, il Rapporto indica come sia necessario favorire un cambiamento culturale che apra maggiormente alla collaborazione gli enti pubblici e del Terzo Settore, anche attraverso la definizione di modelli di governance collaborativa e con il supporto di figure professionali che favoriscano facilitazione e coordinamento. È inoltre necessario predisporre processi di confronto che riconoscano la multidimensionalità dei fenomeni e, di conseguenza, la cross-settorialità degli interventi, lavorando sulla visione politica e strategica e sviluppando competenze tecniche e attuative aggiornate.

Infine, secondo il Rapporto, i processi di coprogettazione e coprogrammazione, per essere sempre più solidi e condivisi, dovranno perseguire lo scopo non solo di proteggere dai rischi, ma anche di ampliare le opportunità per cittadine e cittadini, con una particolare attenzione ai più fragili, dando loro voce e potere, attraverso la partecipazione ai processi decisionali e attuativi.

 

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