Equo Compenso: quousque tandem, Anac?

Nel commentare la sentenza del Tar Lazio, Roma, Sezione V-ter, 30 aprile 2024, n. 8580, che conferma la piena applicazione della legge sull’equo compenso agli appalti pubblici, Gianluca Oreto, sul portale lavoripubblici.it, si chiede, in merito, “cosa ne penserà l’Anac”.

Utilizzando la usatissima perifrasi di Cicerone, invece, noi ci chiediamo quousque tandem abutere, Anac, patientia nostra?

Deflagra ormai in tutta la sua potenza e luminosità una situazione che non pare più possa essere tollerata oltre: la presenza di un’autorità di regolazione, che al tempo stesso vuol fingere da giudice e da legislatore.

Da un lato, l’Anac, sulla questione dell’equo compenso intende spingere il Legislatore a stabilire che esso non si applichi agli appalti. Fin qui, per quanto un’autorità indipendente farebbe bene a non promuovere iniziative che appartengono all’indirizzo politico, ci può anche stare. Ma, l’Anac, col recente comunicato in merito e soprattutto con l’intenzione di escludere l’applicazione dell’equo compenso attraverso il bando-tipo, intende proprio scavalcare la decisione del Parlamento, anticiparla e in qualche modo condizionarla, come fosse una “terza camera”.

Contestualmente, l’Anac è stata investita di fatto, ma ha accettato di buon grado, del ruolo di “giudice” amministrativo e insiste nell’adottare interpretazioni, per altro spesso oscillanti e poco solide, in supplenza, ma spessissimo in conflitto con i Tar.

Eppure, l’interpretazione ed applicazione delle leggi spetta alla magistratura, non ad un’autorità come l’Anac, specie dopo l’eliminazione del fallimentare esperimento della soft law, il cui inopportuno innesto temporaneo nell’ordinamento continua a produrre scompensi.

L’Anac troppe volte interpreta le norme non in relazione a quanto esse dispongono, ma in una prospettiva de jure condendo, che può essere interessante quando si fa dottrina, tuttavia comporta caos laddove il soggetto che ritiene di applicare le norme a casi concreti si attiene a valutazioni di prospettiva e non alle norme vigenti.

Non così il Tar Lazio, che argomenta piuttosto approfonditamente, a smentita delle due tesi portate avanti da chi ritiene che la legge 49/2023 non si applichi agli appalti.

In primo luogo, il Tar Lazio ragiona sull’eventuale contrasto con l’ordinamento europeo ed il principio di concorrenza (che, lo ripetiamo da molto tempo, stranamente viene esaltato solo in relazione al compenso dei professionisti, mentre pare, invece, cancellato in tutti gli altri casi in nome del “risultato”): “Con riferimento all’asserita incompatibilità della disciplina dell’equo compenso con il diritto eurounitario, in giurisprudenza si è già condivisibilmente affermato come la prima “non sia in grado di pregiudicare l’accesso, in condizioni di concorrenza normali ed efficaci, al mercato italiano da parte di operatori economici di altri Stati dell’Unione Europea […]. Si tratta […] di un rafforzamento delle tutele e dell’interesse alla partecipazione alle gare pubbliche, rispetto alle quali l’operatore economico, sia esso grande, piccolo, italiano o di provenienza UE, è consapevole del fatto che la competizione si sposterà eventualmente su profili accessori del corrispettivo globalmente inteso (ad esempio, […] sulle spese generali) e, ancor di più sul profilo qualitativo e tecnico dell’offerta formulata. […] il meccanismo derivante dall’applicazione della legge n. 49/2023 è tale da garantire sia dei margini di flessibilità e di competizione anche sotto il profilo economico, sia la valorizzazione del profilo qualitativo e del risultato, in piena coerenza con il dettato normativo nazionale e dell’Unione Europea” (Tar Veneto, sez. III, 3 aprile 2024, n. 632).

Neppure potrebbe giungersi a conclusioni diverse in forza del richiamo fatto dalla ricorrente alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e, in particolare, alla sentenza 4 luglio 2019, nella causa C-377/17 – pronuncia che non afferma, invero, la sussistenza di preclusioni assolute, riconoscendo, viceversa, in capo agli Stati Membri il potere di introdurre tariffe minime per le prestazioni professionali che siano non discriminatorie, necessarie e proporzionate alla realizzazione di un motivo imperativo di interesse generale ex art. 15, par. 3, della direttiva 2006/123/CE – o alla recente sentenza 25 gennaio 2024, nella causa C-438/22 (pag. 14 memoria di parte ricorrente depositata il 29 marzo 2024), che ha affermato l’obbligo di rifiutare l’applicazione di una normativa che fissi importi minimi degli onorari degli avvocati.

Va, infatti, considerato che nel caso oggetto di quest’ultima pronuncia gli importi erano stati determinati dal Consiglio superiore dell’Ordine forense della Bulgaria“in assenza di qualsiasi controllo da parte delle autorità pubbliche e di disposizioni idonee a garantire che esso si comporti quale emanazione della pubblica autorità”: la Corte ha cioè ritenuto come tale organismo agisse alla stregua di “un’associazione di imprese, ai sensi dell’articolo 101 TFUE” (§ 44, sent. cit.), nel perseguimento di un proprio interesse specifico e settoriale (realizzando un’ipotesi di “determinazione orizzontale di tariffe minime imposte, vietata dall’art. 101, paragrafo 1, TFUE”), in un contesto, quindi, del tutto diverso da quello oggetto del presente giudizio, in cui rilevano norme di carattere generale (la l. n. 49/2023 e gli inerenti decreti ministeriali) adottate da autorità pubbliche e, per questo, non sussumibili nell’ambito (soggettivo e oggettivo) di applicazione dell’art. 101 TFUE (rivolto a vietare “tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno”)”.

In quanto alla seconda argomentazione, quella secondo la quale la legge 49/2023 non ha derogato in modo espresso al codice, sicchè prevarrebbe questo, il Tar Lazio si limita, come il famoso bambino della fiaba sul re nudo, ad affermare quanto è ovvio:

  1. l’articolo 8, comma 2 del d.lgs 3672023 dispone che “Le prestazioni d’opera intellettuale non possono essere rese dai professionisti gratuitamente, salvo che in casi eccezionali e previa adeguata motivazione. Salvo i predetti casi eccezionali, la pubblica amministrazione garantisce comunque l’applicazione del principio dell’equo compenso”;
  2. l’articolo 2, comma 3, della legge 49/2023: “Le disposizioni della presente legge si applicano altresì alle prestazioni rese dai professionisti in favore della pubblica amministrazione e delle società disciplinate dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175”.

Di fronte all’evidenza di queste disposizioni, appare in tutta la sua chiarezza come ogni interpretazione volta a dimostrare che l’equo compenso non risulti applicabile agli appalti sia frutto di sofismi retorici e di diritto creativo, un diritto che si vorrebbe fosse, ma non è.

Anche i richiami all’articolo 227 del codice dei contratti valgono poco, pochissimo. La norma dispone: “Ogni intervento normativo incidente sulle disposizioni del codice e dei suoi allegati, o sulle materie dagli stessi disciplinate, è attuato mediante esplicita modifica, integrazione, deroga o sospensione delle specifiche disposizioni in essi contenute”.

Per un verso, tale norma non è di ostacolo alcuno all’applicazione dell’equo compenso, perchè è lo stesso codice dei contratti all’articolo 8, comma 2, a disporre che esso vada applicato: pertanto, una norma successiva dovrebbe derogare il codice espressamente, stabilendo che, al contrario, l’equo compenso non operi per gli appalti pubblici. Invece, l’articolo 2, comma 3, della legge 49/2023 si aggancia in perfetta coerenza con la norma del codice, affermando, anzi ri-affermando che l’equo compenso si applichi anche ai contratti tra PA e professionisti.

In ogni caso, nel nostro ordinamento non possono considerarsi costituzionalmente legittime disposizioni di leggi ordinarie finalizzate a rafforzare le proprie statuizioni, imponendo a successive norme contenuti vincolanti ai fini di eventuali deroghe o modifiche. Se ciò fosse ammissibile, il legislatore ordinario creerebbe una sorta di gerarchia tra leggi ordinarie; ma, la fonte di disciplina delle leggi è solo la Costituzione. Sicchè, in presenza di una norma come l’articolo 227 del d.lgs 36/2023, il legislatore ordinario non perde affatto la possibilità di modificare il codice anche senza norme esplicite, poichè continua ad applicarsi sempre il principio di successione delle leggi nel tempo, grazie al quale ogni successiva maggioranza esplica la piena libertà di attuare il proprio indirizzo politico.

In conclusione, allora, se qualcuno intende non applicare l’equo compenso agli appalti pubblici, e questo qualcuno non può che essere il Legislatore, è pienamente libero di procedere. Ma, non attraverso scorciatoie o gli artifici di autorità, bensì assumendosi la responsabilità politica di modificare l’attuale assetto normativo. Con una legge.

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