10/09/2020 – Modelli normativi aperti, argomentazione giuridica e giudice amministrativo

Modelli normativi aperti, argomentazione giuridica e giudice amministrativo
di  Filippo Patroni Griffi – Presidente del Consiglio di Stato
 
1. L’esigenza di certezza e le ragioni della “complessità”
Natalino Irti, forse con qualche sofferenza ma con la consueta lucidità, osserva che, in una società giuridicamente pluralistica, il diritto si sveste di quel contenuto determinato e garante della certezza, per diventare “artificiale”, contingente e sempre possibile, flessibile; in una, potremmo dire, sempre meno “vero”[1]. Con la conseguenza che “l’ideale di certezza si è così infranto e il diritto si è trasformato da sistema gerarchico in sistema eterarchico, spontaneo, proveniente dal basso…Il diritto, terraferma salda ed indiscussa fonte di certezza, si frantuma assumendo la forma di un arcipelago, lasciando all’interprete, al giudice, al cittadino il gravoso compito di muoversi tra le isole che lo compongono”[2].
Uno dei principali dilemmi del giudicare consiste nel come contemperare l’esigenza di “certezza” delle fattispecie astratte (condizione a priori del diritto e di ogni sistema normativo) con l’irripetibile “singolarità” del fatto storico. E’ il principio di certezza –che muove dall’ottica di assicurare “l’uguaglianza nella diversità, la permanenza nella variazione”[3]– che si trasforma in un diritto, il diritto alla sicurezza giuridica.
Nella nostra Costituzione –e nell’impostazione dottrinaria tradizionale- la funzione di orientamento delle condotte e di calcolabilità delle rispettive conseguenze giuridiche è affidata al principio di legalità. Secondo la consolidata giurisprudenza della Consulta, l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce “elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto”[4]. In un modello costituzionale ispirato al principio di stretta legalità ‒ dove il magistrato è estraneo al circuito della formazione dell’indirizzo politico e dove la «soggezione del giudice soltanto alla legge» (articolo 101, secondo comma) si realizza ed è al contempo garantita attraverso l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario (articolo 104, primo comma) ‒ il giudice è e deve essere prevalentemente un tecnico della legge, in quanto nell’esercizio della giurisdizione la sovranità popolare si esprime attraverso la “mediazione” della legge in cui tipicamente quella sovranità si esplica.
Anche la Corte di giustizia ‒ attingendo alle tradizioni giuridiche degli Stati membri ‒ ha più volte ribadito che la certezza del diritto ha natura di principio generale dell’Unione Europea, come tale facente parte del diritto primario dell’Unione[5].
Ne discendono numerosi corollari che trovano applicazione nella giurisprudenza della Corte (certezza dei comportamenti e prevedibilità delle loro conseguenze, base legale degli atti normativi e amministrativi, divieto di retroattività, legittimo affidamento, e così via)[6] e una latitudine applicativa del principio di certezza molto estesa, concernendo sia gli atti amministrativi sia gli atti legislativi, e venendo il principio in rilievo sia come strumento interpretativo, sia come parametro di legittimità degli atti normativi e amministrativi dell’Unione. In tale contesto mi sembra soprattutto significativo lo spostamento d’accento subito dal concetto di legalità che, da principio di regolazione delle fonti, si è trasformato in principio di certezza oggettiva del diritto intesa come dei comportamenti di persone e imprese.
Sen non che, pur così solennemente declinato ai più elevati livelli normativi, il principio di certezza ‒ non solo si manifesta con diversi livelli di intensità nei diversi rami del diritto (massima nel diritto penale, attesa la severità delle conseguenze sanzionatorie possibili e il rango personalissimo dei beni su cui le stesse indicono; più articolata in altri rami del diritto, come in quello amministrativo), ma soprattutto ‒ non ha impedito al giudice di esercitare una crescente opera di intervento nella costruzione dell’ordinamento giuridico.
Per quanto sia ricorrente l’appello ad un maggiore rigore del legislatore nell’elaborazione della legge, invocando leggi più chiare e precise, oltre che assetti normativi meno esposti a continui e repentini cambiamenti, il ruolo creativo del giudice appare ai più come un dato oramai ineludibile, più da governare che da avversare, se non addirittura negare.
La tematica potrebbe essere riassunta –e tradizionalmente così è impostata nel dibattito dottrinario- nella seguente formula: interpretazione vs creazione. Ma non so fino a che punto tale impostazione sia corretta e, soprattutto, attuale. Di più: mi chiedo quanto tale impostazione non risenta di un approccio ideologico, e non meramente sistematico, che, in quanto tale, tende a prescindere dalla realtà, o forse dalla complessità del reale. Mentre –come ammoniva Pietro Barcellona- “la funzione di mediazione istituzionale…del diritto va impegnata nel recuperare e ripristinare il costitutivo legame sociale, il collegamento al tempo storico del suo divenire”[7]. Detto in altre parole, il diritto serve alla società e al governo della comunità, non ai giuristi.
Intendersi sui termini è sempre alla base di qualsiasi confronto dialettico. E “il significato delle parole”[8] aiuta non solo a comprendersi, il che è ovvio pur se non banale, ma anche a comprendere il testo nella sua “intimità”, cioè nel suo significato “vero” (ma non necessariamente unico), nonché nei suoi rapporti con il reale.
Se l’interpretazione è un’attività che dà un prodotto –per mettere insieme i due aspetti esaminati da Guastini[9]– il suo compito è strettamente legato all’applicazione del diritto, perché interpretare non serve, non è utile, se non ai fini dell’applicazione della regola di diritto al caso concreto o -il che, se non lo stesso, rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia- alla sussunzione del caso nella regola astratta. Il compito dell’interprete, in questa luce, è quello –come ci dice lo stesso Guastini- di ridurre l’indeterminatezza: l’indeterminatezza dell’ordinamento (stabilire quali norme appartengano a esso) e l’indeterminatezza della norma (stabilire quali “casi” rientrino nell’ambito di applicazione della norma”). Così facendo si interpreta (la regola data da altri) in senso stretto o (anche) si “crea” una regola per il caso concreto.
Poiché sul tema si sono scritti fiumi di libri e sono state impegnate generazioni di giuristi, mi sottraggo al dibattito di quel livello e mi rifugio nel pragmatico modo di procedere del giudice; semmai esponendo questo, e i giudici, al giudizio dei giuristi.
 
2 . I fattori di criticità del processo ermeneutico
i) La cd. discrezionalità giudiziaria
Molto spesso la legge non contiene regole chiare e precise per cui si richiede al giudice di interpretarle, ricostruendone il significato: in tali casi, il giudice prende spesso le sue decisioni non in maniera meccanica, ma disponendo di estesi spazi di discrezionalità in applicazione dei comuni canoni dell’ermeneutica giuridica (da quello letterale, a quelli di tipo storico e sistematico, a quelli dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata). E si tratta di processi interpretativi che spesso tengono conto dell’evoluzione anche sociale che taluni degli istituti disciplinati dalla legge da interpretare hanno subìto nel tempo, di frequente anticipando un legislatore cui spesso mancano prontezza di adeguamento e coraggio.
Sulla interpretazione del diritto da parte del giudice e sui limiti alla sua discrezionalità molto si è scritto e il tema non può essere affrontato e professo. Le Scuole e gli orientamenti che si contrappongono sono noti: senza arrivare ai fautori del diritto libero, positivisti e storicisti rispettivamente ora pongono l’accento sulla necessaria derivazione legale della fattispecie, in cui il giudice deve “sussumere” il caso mediante l’uso del metodo sillogistico e una tecnica eminentemente ricognitiva; ora, per converso, evidenziano la fattualità del diritto, inteso come espressione del corpo sociale in movimento, criticano il riduzionismo positivista e assegnano al giudice una funzione, se non creativa, di individuazione di nuove situazioni tutelabili, pur sempre nell’ambito dell’ordinamento, ma con un accentuato ricorso a valori e princìpi, sì da meritarsi l’accusa di “pieno e radicale soggettivismo” e di “intuizionismo dei valori o di consimili misteriose entità”[10].
Il problema non riguarda ovviamente l’applicazione di norme puntuali e specifiche, i “casi facili” direbbe Aharon Barak[11]: per questi l’adozione del metodo sillogistico-deduttivo è ovvia e risolutiva. Il problema si pone rispetto ai casi “difficili” -tali resi anche dalla complessità di un quadro normativo spesso oscuro.
Ancor prima che la interpretazione del diritto, la cd. discrezionalità del giudice riguarda poi anche l’accertamento del fatto: “dal fatto al caso” è la formula che potrebbe sintetizzare il percorso di ricostruzione dei fatti posto a base del giudizio di diritto; e il percorso logico seguito dal giudice ha “andamento circolare”, giusta i canoni della filosofia ermeneutica (Heidegger e Gadamer), secondo cui si perviene a un’attività valutativa in forza di progressive approssimazioni e pre-comprensioni, sicché la “costituzione del caso giuridico” è “un andirivieni tra fatto e norma”[12].
ii) Le lacune
In altri e ancor più complessi casi, la legge non disciplina affatto il caso concreto o non lo fa con norme direttamente riferibili allo stesso. In questi casi, il giudice, non potendo mai decidere di non decidere, perché non può rifiutarsi di dare soluzione alla lite (cd. divieto di non liquet), dovrà applicare le regole dettate per casi simili o utilizzare i principi generali dell’ordinamento: si aprono le porte per quell’operazione analogica, nella quale ancor più ampia è la discrezionalità del giudice. Esattamente è stato rilevato[13] che il “metodo costruttivo” è collegato proprio al divieto di non liquet di origine napoleonica: tale divieto, per poter operare, presuppone o che l’ordinamento non abbia lacune oppure che il giudice sia autorizzato, anzi obbligato, a colmarle “anche creando nuove norme ad hoc” ossia “mediante una legislazione interstiziale” che si risolve in un vero e proprio diritto giurisprudenziale. Forse è apprezzabile la sincerità del codice civile svizzero che, a fronte di lacune, autorizza il giudice a risolverle usando “la regola che egli adotterebbe come legislatore”.
Con riferimento a tutte queste ipotesi in cui il giudice decide la lite senza trovare una soluzione certa ed univoca nella formulazione letterale della legge o, addirittura, senza che la legge dica alcunché, si è parlato di “supplenza giudiziaria”. Espressione utilizzata da taluni in polemica con i magistrati per sostenere che gli stessi invadono un campo riservato al Parlamento, da altri, invece, semplicemente per chiarire che i giudici, dovendo risolvere casi non puntualmente regolati dalla legge e non potendo sottrarsi al dovere di decidere, lo fanno utilizzando tutti gli strumenti che l’ordinamento giuridico offre, in particolare valorizzando i principi costituzionali e quelli generali.
Ma, come vedremo a proposito anche della giurisdizione amministrativa, il problema delle lacune assume diversa fisionomia se vista nell’ottica della individuazione delle situazione soggettive tutelate e nell’ipotesi, che in parte ricomprende la precedente, delle cd. lacune assiologiche[14].
E’questo forse uno degli aspetti più problematici dell’applicazione del diritto (qui parlare di interpretazione è davvero difficile). Penso ai settori della bioetica[15] e alle vicende recenti giudiziarie concernenti il caso Englaro, il cd. suicidio assistito e, ancora, le vicende attuative della legge sul cd. testamento biologico (DAT). In tutti questi casi il giudice (i vari giudici) sono stati chiamati a pronunciarsi nell’assenza di un quadro di riferimento legislativo, nel caso del suicidio assistito addirittura richiesto dalla Corte costituzionale al legislatore con un anno di “moratoria” della pronuncia, ma invano. Nel primo caso, il giudice ordinario prima, e poi il giudice amministrativo a fronte di disposizioni diramate dalla Regione Lombardia ritenute in contrasto con il giudicato ordinario, si sono dovuti pronunciare sulla richiesta di porre fine a un trattamento sanitario necessario per mantenere in vita una persona, facendo ricorso ai princìpi costituzionali del consenso ai trattamenti sanitari e della dignità della persona, in assenza di una legge capace di regolamentare la materia sulla base dell’assunzione della responsabilità di una scelta e di un bilanciamento tra i vari interessi coinvolti. Nel secondo caso, la Corte costituzionale si è trovata a dover disciplinare, sia pure nell’ottica di una sorta di esimente al reato previsto, le condizioni per ritenere non costituente reato, o non punibile si vedrà, il comportamento di chi “assecondi” una volontà validamente espressa di chi non voglia continuare un trattamento sanitario. Nell’ultimo caso, addirittura, un’associazione si è rivolta al Tar, con un’azione “correttiva” dell’inerzia del governo nell’emanazione del regolamento di attuazione della legge sul cd. fine-vita.
Due aspetti colpiscono di queste vicende: l’inerzia del legislatore, che concretizza una “lacuna assiologica” dell’ordinamento; soprattutto, la difficoltà di rimettere al giudice l’individuazione, nell’ordinamento, di una lacuna reale o di una voluta mancanza di disciplina di situazioni soggettive o di rapporto. E, nel secondo caso, la decisione in ordine alla legittimità di tale scelta o al dovere, come scelta costituzionalmente necessitata, del legislatore di procedere al riconoscimento della situazione soggettiva e alla conseguente regolamentazione del rapporto. Sono questi due temi centrali del rapporto tra giudice e legge.
iii) I modelli normativi
In molti casi, è la legge stessa che, utilizzando (talvolta volutamente) termini generici o espressioni con più possibili significati, rimette al giudice il compito di riempire di contenuto quei termini e quelle espressioni nella decisione del caso concreto.
I modelli normativi, nei quali il metodo sillogistico sussume i casi, possono essere chiusi e definiti; ma possono essere “aperti” e in essi trovano spazio le clausole generali, le quali “vengono concretizzate dalla giurisprudenza”[16]. Autori “classici” evidenziano, con riferimento alle clausole generali, come il ricorso a esse sia una componente irrinunciabile di alcune specie di norme e osservano che esse si traducono in una delega del legislatore al giudice “perché attinga a qualcosa di estraneo alla formula legislativa letta”[17]; e che esse si caratterizzano per “un’eccedenza di valori di contenuto assiologico rispetto ad altre disposizioni legislative del sistema”[18]. Appare difficile negare che sia rimesso al giudice un ampio margine di “discrezionalità” quando occorra, per decidere una controversia, fare ricorso a clausole generali o anche a concetti giuridici indeterminati, la cui distinzione non vede concordi gli Autori e non è facile nella pratica[19], ma che sono accomunati dallo spazio deliberativo lasciato al giudice. Si pensi al canone di proporzionalità o al bilanciamento di interessi soprattutto nel giudizio amministrativo, o alla buona fede o al legittimo affidamento nel diritto privato. Fermo restando che queste clausole costituiscono oramai patrimonio comune dei vari rami del diritto sì da poter essere considerate alla stregua di categorie di teoria generale[20].
Il metodo di decisione per clausole generali differisce dal ricorso ai princìpi generali. I modelli normativi aperti richiedono, al di là della integrazione contenutistica propria delle clausole generali, il ricorso a strumenti e tecniche interpretative capaci di ridurre l’indeterminatezza dell’ordinamento o della norma, nel senso dianzi precisato, ma i princìpi –diversi dai “valori”- sono pur sempre “norme tra norme”[21] e, al più, rispetto alle norma, si collocano in posizione poziore nell’ambito di una “gerarchia assiologica”[22], con la conseguenza che, nel caso di più significati possibili di una norma, si sceglie il significato maggiormente coerente con il pertinente principio generale.
E un approccio simile in sede ermeneutica rivestono tecniche quali la interpretazione costituzionalmente conforme o la interpretazione orientata al diritto europeo o ancora la tecnica del bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale ma anche in quella amministrativa quale espressione della terza e ultima fase del principio di proporzionalità nell’accezione e nella pratica tedesche. Infine, nel campo processuale, si pensi alla trasformazione della tutela d’urgenza, evolutasi a partire dagli anni 70 del secolo scorso da un’accezione meramente strumentale a un’attuazione sostanzialmente anticipatoria e dominata dal carattere dell’atipicità nei suoi contenuti.
iv) Le fonti sovranazionali e la tutela multilivello.
Nell’ordinamento sovranazionale, la convergenza tra i sistemi giuridici avviene ad opera soprattutto delle Corti: giudici nazionali e Corti sovranazionali. Lo “spazio” giuridico europeo si è fatto “ordine” giuridico attraverso il ruolo dei giudici.
Il contributo “costituzionale” dei giudici alla costruzione dell’ordinamento sovranazionale si individua soprattutto nella tessitura di uno ius commune attuata attraverso un fitto reticolo di principi generali che non si sovrappongono bensì si affiancano ai diritti nazionali, secondo una logica di integrazione ed assimilazione. Se la definizione del principio di diritto è riservato dai trattati alla Corte di Giustizia, sono i giudici nazionali che, oltre a promuovere l’intervento della Corte, devono poi farsi carico delle modalità e delle condizioni di applicazione di quel principio, immettendolo nell’ordinamento di appartenenza. Questa combinazione tra innovazione e tradizione, diritto comune e diritto locale, incarna al meglio i principi del pluralismo e della diversità, preservando gli ordinamenti degli Stati membri e la loro autonoma legittimazione.
Oltre i principi generali ‒ che sono divenuti elemento costante dell’apparato motivazionale nella giurisprudenza del giudice amministrativo ‒ un secondo veicolo di integrazione in via giudiziaria è rappresentato dalla tutela dei diritti fondamentali. In tale ambito, la cooperazione tra Corte europea dei diritti dell’uomo, Corte di Giustizia e Corti nazionali si è realizzata “in una logica interattiva e non gerarchica”, fatta di apporti reciproci. La vicenda dei diritti fondamentali evidenzia come ‒ una volta intrapreso liberamente il processo d’integrazione ‒ gli ordinamenti nazionali non possono, neppure al più elevato livello normativo, pretendere di “continuare a definirsi in modo autoreferenziale, come sistemi a sé stanti, se non in nome di una sorta di nazionalismo costituzionale che contraddirebbe non solo gli obblighi internazionali, ma gli stessi principî costituzionali che esplicitamente legittimano l’apertura dello Stato al processo d’integrazione” (A. Tizzano).
In definitiva, la tutela multilivello consegna all’interprete il compito arduo di definire i contenuti della singola regola di giudizio, il contesto delle fonti rilevanti, il loro differente grado di prescrittività, la possibile conciliazione, o, altrimenti, l’ordine di prevalenza[23]. Rimanere ancorati a una stretta correlazione tra potere (sovrano) e (fonte di produzione del) diritto, nei termini schmittiani, significa non tener conto di una realtà in cui i livelli di produzione giuridica si moltiplicano ma, soprattutto, in cui i fenomeni accadono a prescindere dalla loro regolazione (si pensi alla circolazione delle cose e delle merci, o allo stesso fenomeno migratorio; per non parlare delle comunicazioni elettroniche o del trasferimento dati su scala mondiale).
 
3. La “legalità” amministrativa agli occhi del giudice dell’amministrazione
Vanno poi prese in considerazione le peculiarità proprie del diritto amministrativo.
I modelli normativi “aperti” sono assolutamente prevalenti in tale settore dell’ordinamento. Forse nella maggior parte dei casi è improprio anche parlare di modelli normativi, se per normativi si intende “posti per legge”.
Tale assetto è dovuto in primo luogo a una ragione storica[24]. Le vicende legate alla formazione della giustizia amministrativa –giurisdizione unica nel 1865 e poi ritorno a un sistema duale nel 1889 per colmare le lacune di un sistema che non riconosceva tutela alle situazioni soggettive diverse dal diritto soggettivo- hanno determinato una “inversione logica” nel sistema di tutele avverso il potere pubblico: prima è nata la tutela davanti al giudice e poi la situazione soggettiva tutelata. E’ questo il carattere saliente, sul versante storico, dell’interesse legittimo, di cui ha risentito inevitabilmente la struttura della figura. E ancora negli anni 70, Mario Nigro parla di un processo di progressiva emersione dall’indistinto giuridico, ad opera della giurisprudenza, di interessi giuridicamente tutelati e di posizioni legittimanti. In questo processo c’è poco spazio per metodo sillogistico e fattispecie. Molto spazio per quello che Grossi definirebbe un giudice non creatore, ma “inventore” –nel senso etimologico- del diritto.
Si pone quindi in maniera centrale, nel diritto amministrativo (ma anche in altri rami del diritto: si pensi all’illecito civile), il problema della individuazione delle situazioni soggettive tutelate.
Un secondo profilo di analisi riguarda la tecnica di sindacato del giudice amministrativo. Il giudice amministrativo si è, sin dalle origini, trovato a dover coniugare principio di legalità e sindacato effettivo del potere. Il principio di legalità, soprattutto sub specie di tipicità dei provvedimenti, richiede che l’atto corrisponda al paradigma normativo. Ma il paradigma normativo raramente è predeterminato in ogni suo aspetto; e, soprattutto, il potere amministrativo è espressione di una vicenda diacronica, non una posizione statica. Limitare il sindacato alla mera violazione della legge attraverso una verifica della sua corretta applicazione vuol dire vanificare la tutela. Questa considerazione è all’origine dell’eccesso di potere, sia sotto il profilo dello sviamento dalla causa tipica, sia soprattutto attraverso la tecnica del sindacato per figure sintomatiche. Le figure sintomatiche di eccesso di potere – travisamento di fatto, illogicità manifesta, difetto di istruttoria, discriminazione tra situazioni identiche, mancato bilanciamento di interessi, fino alle sue declinazioni più moderne della ragionevolezza, proporzionalità e correttezza- sono clausole generali, alcune delle quali corrispondenti a princìpi generali positivamente posti, che costituiscono da sempre l’ordinaria tecnica di sindacato sul potere pubblico. Questo dato –comune a tutte le Corti amministrative di derivazione dal modello francese- costituisce invero il punto di comunanza tra giudici amministrativi continentali e giudici di common law (i quali ultimi di queste clausole fanno costante uso) e si pongono nella scia di una tradizione risalente al diritto romano classico e al diritto comune. In questo i giudici amministrativi italiani ragionano più come un giudice inglese che come un giudice civile italiano[25].
In definitiva, si può dire, con le imprecisioni che le generalizzazioni comportano[26], che la storia del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo siano la metafora, sul piano delle tutele, rispettivamente del metodo sillogistico e di una tecnica per clausole generali. Sempre storicamente, è stato notato[27] che, in antitesi con i fenomeni cd. di burocratizzazione del giudice “bocca della legge”, i sistemi a diritto e a giurisdizione amministrativa conoscono e praticano metodi giurisprudenziali più indipendenti dalla norma, come avvenuto, per esempio, in Italia anche durante la dittatura fascista con riferimento all’applicazione delle leggi razziali.
In definitiva, il principale fattore di impulso del diritto pretorio del giudice amministrativo va collegato al conclamato indebolimento strutturale della legge quale strumento di coordinamento e indirizzo degli apparati amministrativi funzionalmente diversificati e multiformi. L’evoluzione della tecnica, le politiche di liberalizzazione, le nuove istituzioni di regolazione, la perdita di centralità dello Stato rispetto alle istituzioni europee, hanno mutato in profondità la relazione tra autorità, società e diritto pubblico. Lo stesso principio di legalità appare oramai distante dall’archetipo secondo cui ogni manifestazione dei pubblici poteri deve trovare la sua base e il suo limite (formale e sostanziale) nella legge dello Stato. In importanti settori della vita economica e sociale, l’ordinamento predilige forme fluide di “indirizzamento” alla realizzazione di valori e principi, e non comandi rigidamente positivizzati.
Il percorso lineare , che era alla base del principio di legalità del secolo scorso, si è da tempo, irreversibilmente ramificato in molteplici direzioni. L’interesse pubblico non è più “singolare” e predeterminato dalla legge, ma è ormai il frutto del complesso contemperamento tra interessi pubblici “plurali”, spesso contrapposti, a loro volta “bilanciati” con gli interessi dei privati. La norma quasi mai connette direttamente un’azione amministrativa a uno specifico interesse pubblico; anzi, spesso non indica neppure una gerarchia tra gli interessi pubblici, che restano equiordinati: piuttosto, ne disegna le modalità di “assemblaggio”.  Il “luogo del confronto”, in cui i diversi interessi pubblici in gioco si compongono, anche con quelli privati, è sempre più il procedimento amministrativo, ambito in cui si realizza l’unità di tempo, spazio e azione del rapporto tra privato e pubblico potere, e in cui l’interesse pubblico in concreto perseguito “si fa” nella dinamica del confronto[28].
Da ultimo, va rimarcato come gli sviluppi ultimi del diritto processuale amministrativo siano coerenti con il quadro sostanziale appena tratteggiato. Il nuovo codice prefigura infatti un sistema aperto di tutele e non di azioni tipiche (art. 34). Il rimedio è conformato non sul tipo di situazione soggettiva ma sul tipo di bisogno di tutela che l’interesse protetto reclama, il cui grado e intensità sono spesso definiti ex post dal giudice e non ex ante. È questo il corollario del predetto dato sostanziale: diversamente dal diritto civile, il diritto amministrativo sostanziale non seleziona gli interessi, ma demanda all’azione amministrativa, sia pure sottoponendola ad una serie di condizioni, e in ultima analisi al giudice, l’individuazione e la scelta dell’interesse che deve prevalere nel caso concreto.
 
4. Il c.d. diritto giurisprudenziale e la “torsione” dell’ordinamento
La “crisi della legge”, la complessità della scelta politica, il sempre più frequente ricorso a modelli normativi aperti hanno posto le Corti al centro del processo di costituzionalizzazione, trasferendo la competenza a decidere su questioni fondamentali dalla sede politica a quella giurisdizionale. Da qui la progressiva collocazione della giurisprudenza nell’ambito della “fabbrica delle leggi”. Le sentenze diventano anch’esse oggetto di interpretazione.
Questo “diritto giurisprudenziale” concorre inevitabilmente a “formare” diritto nel momento stesso in cui viene concretamente applicato (per quanto lo stesso vado inquadrato in un sistema di princìpi e valori positivi, in modo da non trascendere nell’occasionalismo giudiziario).
Di questa “torsione” dell’ordinamento si danno letture ambivalenti, basate su giudizi di “valore” se non ideologici, che ci siamo ripromessi di non affrontare.
 Mi limito a fare due osservazioni, tra loro contrapposte, senza poterle svolgere.
i) Il rapporto tra meccanismi decisionali e istituzioni rappresentative del consenso è un tema centrale nella storia delle democrazie. Il coinvolgimento delle istituzioni giudiziarie nel circuito delle decisioni pubbliche può rivelarsi uno strumento di bilanciamento all’interno di una matura “democrazia amministrativa”, al fine di mantenere alcuni meccanismi istituzionali al di fuori dell’espressione ciclica e mutevole del corpo elettorale e della ricerca del consenso.
ii) La giurisdizione può rispondere all’emersione di nuovi bisogni e correlate istanze di tutela; può supplire a carenze del legislatore che non riesce a trovare il punto di mediazione politica in materie sensibili o che rincorre il mito populista in settori in cui la pancia del popolo prevale sulla testa. Ma tutto ciò può avvenire per un tempo limitato. Nella fisiologia del sistema la produzione del diritto spetta al legislatore.
 
5. I rischi connessi all’accresciuta discrezionalità del giudice ed i possibili “antidoti”.
I rischi connessi all’accresciuta discrezionalità del giudice sono evidenti.
Occorrono quindi meccanismi di riequilibrio. Mi limito a indicarne due, tra loro strettamente correlati.
i) Un primo “antidoto” è legato alla formazione culturale del giudice[29].
È necessario che si diffonda e si rafforzi una cultura della giurisdizione che includa rigore metodologico e costante attenzione nell’applicare la disciplina positiva alla concretezza dei casi: “cioè, saggezza pratica e buon senso – la wisdom anglosassone – nell’esercizio dell’ars interpretandi[30].
La “buona pratica del giudice” impone un’ampia motivazione delle ragioni del dissenso e consiglia cautela nel discostarsi dai precedenti, specie se conformi, salvo rimettere a una sede decisoria a ciò deputata l’eventuale overruling. Una nota pronuncia della Cassazione[31] richiede la sussistenza di “buone ragioni” per mutare un indirizzo giurisprudenziale acquisito, e di “ottime ragioni” per giustificare l’overruling nel settore processuale, che incide sull’affidamento dei cittadini in ordine alla portata delle “regole del gioco”. E in un’altra sentenza[32], la stessa Corte, pur convenendo sull’inesistenza della regola dello stare decisis nel nostro ordinamento, parla di una direttiva immanente per cui non ci si può discostare da un orientamento della Corte senza forti e apprezzabili ragioni giustificatrici (significativa anche la sentenza n.124 del 2015).
ii) Un secondo “antidoto” è di carattere processuale e concerne il rafforzamento della funzione nomofilattica delle giurisdizioni superiori.
L’obiettivo è conciliare la portata “creativa e diffusa” del diritto giurisprudenziale con le esigenze di uniformità e prevedibilità della decisione, neutralizzando il rischio di una deriva della giurisdizione verso l’instabilità perenne del diritto “liquido”[33].
In tale prospettiva, vanno salutate con favore le oramai non più recenti riforme che hanno rafforzato la funzione nomofilattica disponendo che, una Sezione semplice della Corte di cassazione o del Consiglio di Stato, qualora intenda discostarsi, nel decidere una causa, da una precedente decisione delle Sezioni unite o dell’Adunanza plenaria, deve rimettere la questione alla stessa sede.
Non si tratta di irretire il diritto nel conservatorismo, non corrispondente peraltro al vero, delle Corti superiori, ma di trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di certezza e prevedibilità correlate al principio di legalità e i rischi connessi al carattere diffuso del potere giudiziario e alla descritta ampiezza degli spazi discrezionali riconosciuti al giudice, salvaguardando l’evoluzione dell’interpretazione giurisprudenziale.
In tale prospettiva ‒ è stato osservato ‒ “la nomofilachia moderna non può essere che “orizzontale”, “circolare” e “cetuale”. Essa trova il naturale punto di sintesi, per la giurisdizione ordinaria, nella Corte di cassazione, ma è promossa dai giudici di merito, i primi a confrontarsi con la fluidità sociale; e torna ai giudici di merito, che misurano gli effetti pratici della giurisprudenza di legittimità. Non le magistrature soltanto, bensì tutto il “ceto dei giuristi” fa nomofilachia. Fondamentale è il ruolo critico della dottrina, alla quale compete l’analisi delle soluzioni e l’elaborazione delle alternative”[34].
Del resto –come mi è parso di poter affermare- si consideri che il giudice, per l’utente finale del servizio giustizia, è l’organo giurisdizionale, non la persona fisica, sicché quel che per noi magistrati è garanzia di indipendenza funzionale e di autonomia di giudizio, per il fruitore del sistema giustizia è, a fronte di pronunce divergenti in fattispecie identiche, “una sorta di sdoppiamento della personalità, cioè un caso di schizofrenia clinica”[35].
L’esercizio e la distribuzione della funzione nomofilattica fra organismi diversi ha mostrato negli ultimi anni crescenti profili di criticità[36]. L’esistenza di spazi di frizione tra Corti europee e Corti interne, e tra le stesse Corti interne, non deve stupire, in quanto, nell’ottica di un ordinamento integrato, e quindi soprattutto di quello dell’Unione, è inevitabile che le Corti a presidio di quell’ordinamento tendano ad assumere su di sé una funzione nomofilattica che è difficile raccordare con le attribuzioni svolte in funzione nomofilattica dalle Corti superiori nazionali.
Preoccupa invece dovere constatare che il compito assegnato alla Corte di Giustizia di assicurare l’uniforme interpretazione e applicazione del diritto europeo si atteggia spesso “sia come strumento di ricomposizione dei diversi ordinamenti nazionali, sia come commodus discessus per il giudice nazionale che voglia rimettere in discussione il principio di diritto enunciato dal giudice superiore”[37].
Sotto questo profilo, si può osservare una connotazione peculiare del rinvio pregiudiziale da parte del giudice amministrativo alla CGUE. Le ordinanze di rinvio pregiudiziale del giudice amministrativo sempre più spesso sono caratterizzate dal fatto di sostanziarsi nella richiesta alla CGUE di interpretare la conformità alla normativa europea di una interpretazione giurisprudenziale resa dal giudice nazionale con funzione di nomofilachia.
Segnatamente:
a) In alcuni casi il rinvio pregiudiziale si è prestato ad essere utilizzato da parte delle sezioni semplici per sottrarsi al doveroso, ex art. 99, comma 3, c.p.a., assoggettamento al principio di diritto affermato dalla Plenaria[38];
b) In un caso l’uso del rinvio pregiudiziale da parte del giudice amministrativo è stato utilizzato addirittura come strumento per invocare un sindacato sulla compatibilità con la normativa europea della interpretazione della normativa nazionale data dalla giurisprudenza costituzionale[39];
c) In un ulteriore gruppo di casi, il giudice nazionale rinvia alla CGUE questioni in ordine alla compatibilità rispetto alla normativa europea della normativa nazionale come interpretata dalla giurisprudenza nazionale consolidata sebbene non vincolante per il giudice amministrativo remittente (di prima istanza)[40].
 
5. Conclusioni: l’argomentare (corretto) del giudice come strumento di responsabilità?
Siamo troppo abituati alle radicalizzazioni. Il che aiuta a fare chiarezza e a individuare i termini delle questioni. Ma, ottenuto questo vantaggio, la radicalizzazione delle posizioni impedisce il confronto. Un corretto confronto richiede, a monte, una corretta analisi della situazione di fatto e delle sue cause, a valle una lucida sintesi delle visioni diverse delle tematiche.
Se applichiamo questo “metodo” al nostro tema, ci rendiamo conto che, quando ci accostiamo al ruolo pratico del giudice nell’ordinamento, possiamo imbatterci in realtà che non ci piacciono, in distorsioni di sistema, in orientamenti dottrinari e giurisprudenziali non condivisi e forse non condivisibili, in una complessità che diviene sempre più difficile governare.
Verrebbe in mente il monito di Croce, in un saggio che poi ritroviamo in Etica e politica, in cui, nel criticare coloro che si lamentano del malfunzionamento delle amministrazioni e invocano continuamente una buona amministrazione la quale, come idea astratta, non può trovare riscontro nella realtà, esorta tuttavia ad avere un atteggiamento “fermo e combattente”, pur nel disincanto direi, nel perseguire un assetto il più vicino possibile all’ideale.
È impossibile tornare a ciò che peraltro mai è stato: il giudice “bocca” di un legislatore capace di regolare da solo tutto. Occorre allora lavorare certo su più fronti: migliore qualità della legge, formazione del giudice, self-restraint di questi nell’applicazione della legge, prevedibilità della giurisprudenza.
Occorre però, e concludo, lavorare su un aspetto centrale della giurisdizione: la responsabilità della decisione. Con la sentenza il giudice decide una lite “responsabilmente” cioè “dando conto” della propria decisione attraverso la “motivazione”. Questa –come ben sottolinea Guastini[41] – non consiste nella esposizione dei “motivi”, che richiamano qualcosa di psicologico, bensì di “ragioni”, che sono “argomenti, ossia enunciati, che fanno parte di un ragionamento…e che giustificano una decisione”.
L’argomentazione giuridica diviene dunque centrale nell’età dell’incertezza, per parafrasare un titolo già richiamato[42].
L’argomentare serve a ridurre la distanza tra norma e sua interpretazione; serve a legittimare la decisione e lo stesso giudice che l’ha adottata; serve a rendere (più) determinato il modello normativo aperto; serve a fronteggiare l’incertezza attraverso il dubbio che non arresta il processo ma sfocia nella sentenza (Ricorderete Kafka nel Processo, quando il sacerdote dice allo sventurato protagonista: “La sentenza non viene a un tratto; è il processo che si trasforma a poco a poco in sentenza”).
In una, l’argomentazione serve a riferire al giudice e al processo interpretativo e applicativo il duplice fondamento di validità del diritto moderno secondo Habermas: “un fondamento poggiante sia sul principio di statuizione sia sul principio di giustificazione”[43].
 
 
 Filippo Patroni Griffi
Presidente del Consiglio di Stato
Pubblicato il 9 settembre 2020
 
 
 
 
 
 

[1] N.Irti, Diritto senza verità, Roma-Bari 2011
[2] A.Abignente, L’argomentazione giuridica nell’età dell’incertezza, Napoli 2017, 88
[3] F.Lopez de Onate, La certezza del diritto, Milano 1968, 38
[4] ex plurimis, Corte costituzionale n. 349 del 1985, n. 822 del 1988, n. 155 del 1990, n. 39 del 1993
[5] (ex plurimis, sentenza 11 luglio 1990, causa C-323/88)
[6] La certezza del diritto impone innanzi tutto che le norme di legge siano chiare e precise, in modo che i cittadini che ne sono destinatari siano in grado di accertare inequivocabilmente quali siano i diritti e gli obblighi loro attribuiti ed agiscano di conseguenza (sentenza 3 giugno 2008, causa C-308/06; 9 luglio 1981, causa 169/80; 13 febbraio 1996, causa C-143/93; 21 giugno 2007, causa C-158/06; 10 settembre 2009, causa C-201/08). Tale esigenza si rende ancor più pressante quando le disposizioni normative «poss(o)no avere conseguenze sfavorevoli per gli individui e le imprese» (sentenza 5 luglio 2012, causa C-318/10, Société d’investissement pour l’agriculture tropicale SA c. État belge).
Il principio di certezza del diritto risulta connesso, in chiave rafforzativa e integrativa: – al principio di legalità, secondo cui atti normativi che spiegano i propri effetti all’interno dell’Unione Europea devono essere assunti sulla base di precise previsioni normative (sentenza 22 marzo 1961, causa 49/59); – al divieto di retroattività delle norme, diretto a garantire che individui e imprese possano prevedere in anticipo le conseguenze legali delle proprie azioni, salvo qualora, in via eccezionale, lo esiga lo scopo da raggiungere e sia debitamente rispettato il legittimo affidamento degli interessati (sentenze 24 settembre 2002, cause riunite C-74/00 P e C-75/00; 22 dicembre 2010, causa C-120/08; 15 luglio 1993, causa C-34/92; 24 settembre 2002, cause riunite C-74 e 75/00; 26 aprile 2004, causa C-376/02); – al principio di legittimo affidamento, secondo cui coloro i quali agiscono in buona fede, nel rispetto della legge vigente, non dovrebbero rimanere disattesi nelle loro aspettative (8 aprile 1988, causa 120/86).
 
[7] P.Barcellona, Diritto senza società. Dal disincanto all’indifferenza, Bari 2003, 29, nella corretta lettura che ne dà A.Abignente, op.cit.,16
[8] Il riferimento è ovviamente a J.Boyd White, Quando le parole perdono il loro significato, 1983 ma trad.it. Milano 2010
[9] R.Guastini, Prima lezione sull’interpretazione, Modena 2019 7s.
[10] N. Irti, I “cancelli delle parole”, in N. Irti, Un diritto incalcolabile, Torino 2016, 57 ss., spec. 68 e 83.
[11] A. Barak, La discrezionalità del giudice, trad.it. Milano 1995
[12] J. Hruschka, La costituzione del caso giuridico, trad.it. Bologna 2009, spec. 26
[13] R.Guastini, op.cit., 59
[14] R.Guastini, op.cit., 41s.
[15] Cfr. A. Patroni Griffi, Le regole della bioetica tra legislatore e giudici, Napoli 2016
[16] S. Patti, cit., 166
[17] P. Rescigno, Le clausole generali; dalle codificazioni moderne alla prassi giurisprudenziale, in La genesi della sentenza, cit., 135 ss.
[18] F. Roselli, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli 1983, 8
[19] Per alcuni spunti e riferimenti, vd. S. Patti, Princìpi, clausole generali e norme specifiche nell’applicazione giurisprudenziale, in La genesi della sentenza, cit., 171 ss.
[20] Sottolinea la comunanza della problematica, anche con riferimento al diritto penale, da ultimo R.Garofoli, Il giudice tra creatività interpretativa ed esigenze di legalità e prevedibilità, www.giustizia-amministrativa.it
[21] N.Irti, I cancelli delle parole, ora in Un diritto incalcolabile, Torino 2016 57ss., definisce i princìpi “norme di grado superiore” e chiarisce che, poiché i testi normativi presentano spesso un certo grado di indeterminatezza, “da essi è ricavabile una pluralità di norme. Il giudice sceglie, non oltre, ma tra i significati ricavabili dal testo”
[22] R. Guastini, op.cit., 41ss.
[23] V. Manes, cit.; M. Vietti, A proposito del volume di V. Manes, in www.penalecontemporaneo.it
[24] Per una sintetica ricostruzione storica, anche per le citazioni, si rinvia a F.Patroni Griffi, Una giustizia (amministrativa) in perenne trasformazione: profili storici e prospettive, in Riv.trim.dir.proc.civ. 2016, n. 1, 115
[25] E’ significativo per contro rilevare che il giudice amministrativo tedesco ragiona in modo parzialmente diverso; in quel sistema vi è a monte una differenza strutturale: il diritto soggettivo pubblico opera come limite esterno al potere, sicché ogni interferenza tra le due situazioni non è prevista e il giudice dovrà limitarsi a verificare se il confine tra esse, stabilito per legge, sia stato violato; nel nostro ordinamento, invece, vi è una conformazione del potere dal suo interno, ad opera della legge e del giudice, nel suo concreto dispiegarsi a fronte di situazioni soggettive del privato.      Naturalmente la cosa non è così semplice in concreto e anche nell’ordinamento tedesco si pone il problema della discrezionalità amministrativa, ma l’assetto del sistema è quello che si è brevemente delineato e conseguentemente il giudice sarà più fedele a una interpretazione della norma in chiave sillogistico-deduttiva.
[26] Come si è detto prima, anche nel diritto civile ci sono settori in cui il ricorso al metodo sillogistico può rivelarsi inappagante
[27] A. Barone, La vocazione “unitaria” delle giurisdizioni, in I princìpi vincolanti…, cit., 1 ss
[28] Secondo un’autorevole tesi (Scoca, Attività amministrativa, in Enc. Dir., Agg. VI, 75 ss.), il principio di legalità starebbe lentamente lasciando il posto ad un più duttile principio di necessaria predeterminazione normativa dell’attività amministrativa, alla cui stregua l’adozione di misure concrete deve essere preceduta dalla formulazione di criteri generali ed astratti. Così riconfigurato, il principio di legalità non troverebbe più fondamento nell’esigenza democratica di assoggettare l’amministrazione pubblica all’indirizzo politico delle assemblee politiche rappresentative, bensì avrebbe esclusivamente la funzione di garantire l’imparzialità dell’azione concreta delle amministrazioni pubbliche, sottoponendola a regole generali ed astratte preventivamente stabilite ed universalmente conoscibili.
 
[29] Svolge questo aspetto R.Garofoli, op.cit.
[30] G. Canzio, Crisi della nomofilachia e prospettive di riforma della Cassazione, cit.
[31] SS.UU 6 novembre 2014 n. 23675
[32] Ci si riferisce alla sentenza n. 13620 del 2012
[33] In tema, N. Irti, Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in A. Carleo, cit., 23.
[34] G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in www.penalecontemporaneo.it
[35] F. Patroni Griffi, Introduzione alle giornate di studio su “Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica”, in www.federalismi.it
[36] A. Pajno, Nomofilachia e giustizia amministrativa, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2, 2015, 345.
[37] D. Simeoli, “Vincolo” del precedente e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE: brevi note, in Forum dei Quaderni Costituzionali, luglio 2016.
[38] A tale riguardo, di estremo interesse sono le recenti questioni relative ai rapporti tra i meccanismi processuali volti a garantire l’autorità delle giurisdizioni superiori nazionali di stabilire precedenti vincolanti e l’istituto del rinvio pregiudiziale. La Corte di Giustizia, con la sentenza 5 aprile 2016, C-689/13, ha infatti sensibilmente ridimensionato l’effetto di vincolo della pronuncia della corte suprema nazionale allorquando si prospetti una violazione del diritto europeo, posto che la sezione semplice è stata assolta dall’obbligo di adeguarvisi, potendo investire della relativa questione direttamente la Corte di Giustizia. È stato affermato che negare alla sezione di un organo giurisdizionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso di diritto interno la possibilità di interpellare la Corte per la sola ragione che soltanto l’adunanza plenaria di tale giurisdizione sarebbe tenuta a farlo, sarebbe contrario alla giurisprudenza costante della Corte, che ha sempre riconosciuto ai giudici nazionali la facoltà di avvalersi ovvero (se di ultima istanza) la necessità di conformarsi all’obbligo di adire la Corte, qualora essi ritengano che una causa dinanzi ad essi pendente faccia sorgere questioni che richiedono un’interpretazione o un esame della validità delle disposizioni del diritto dell’Unione essenziali ai fini della soluzione della lite di cui sono investiti, senza che alcuna norma di diritto nazionale possa porre alcun impedimento
Vedi anche Corte di giustizia 20 ottobre 2011, in C-396/09; sentenza 5 ottobre 2010, causa C-173/09, Elchinov: in cui pure si è affermato il principio per cui il giudice investito della controversia deve essere sempre in grado, in un determinato momento, di interpellare direttamente la Corte in via pregiudiziale. Nel medesimo contesto problematico si collocano anche le seguenti vicende: –  con le ordinanze 17 gennaio 2017, nn. 167 e 168, la VI sezione del Consiglio di Stato rinvia alla Cgue la questione di compatibilità con l’ordinamento eurounitario della interpretazione e qualificazione, data dall’Adunanza plenaria, della condotta di un operatore come pratica commerciale aggressiva, che ha per conseguenza l’esclusiva competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato ad intervenire anche a fronte di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea; – con l’ordinanza 22 marzo 2017, n. 1297, la IV sezione del Consiglio di Stato, ha rinviato alla Corte di giustizia la questione se sia conforme al diritto dell’Unione europea l’interpretazione del diritto interno che escluda la revisione dei prezzi nei contratti, nella specie appalti di servizi di pulizia, legati da un nesso di strumentalità rispetto a un’attività rientrante nei settori speciali; tale esclusione, prevista per gli appalti dei settori speciali dalla normativa nazionale al tempo in vigore, era desunta in via interpretativa dalla giurisprudenza dell’Adunanza plenaria anche per gli appalti di servizi che, pur non rientrando nei settori speciali, sono a questi legati da un nesso di strumentalità.
[39] Con l’ordinanza 29 marzo 2017, n. 263, il Tar Liguria ha chiesto alla CGUE se la normativa europea, relativa all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, osti all’interpretazione data dalla giurisprudenza costituzionale, seguita da giurisprudenza amministrativa successiva, della normativa nazionale nel senso di riconoscere la legittimazione ad impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura, in quanto dalla disciplina della gara derivi un’altissima probabilità di non conseguire l’aggiudicazione).
[40] Con l’ordinanza 25 luglio 2017, n. 525, il Tar Basilicata rinvia alla Corte di giustizia la questione della compatibilità rispetto ai principi di tutela del legittimo affidamento, parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, della rigorosa interpretazione giurisprudenziale della normativa nazionale più recente sui contratti pubblici, secondo cui, nelle offerte economiche di una procedura di affidamento di appalti pubblici, si configura un ineludibile obbligo legale di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale, a pena di esclusione della ditta offerente senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo non sia stato specificato nel modulo predisposto dalla stazione appaltante per la presentazione delle offerte e a prescindere dalla circostanza che dal punto di vista sostanziale l’offerta rispetti effettivamente i costi minimi di sicurezza aziendale. Alla questione è stata data risposta dalla Corte di giustizia con sentenza……., che ha ritenuto sostanzialmente compatibile la disciplina nazionale con il diritto dell’Unione, conformemente all’impostazione data al tema nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato…..A seguito della pronuncia della Corte di giustizia, e su richiesta della stessa Corte, l’Adunanza plenaria, con ordinanza…., ha ritenuto non più rilevante nel giudizio a quo la questione pregiudiziale già rimessa.
[41] R.Guastini, op.cit, 27, che richiama opportunamente A.Ross, On Law and Justice, London 1958
[42] A.Abignente, op.cit.
[43] J.Habermas, Morale, Diritto, Politica, trad.it. Torino 1992, 75
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