08/10/2019 – Urbanistica. Ristrutturazione edilizia e risanamento conservativo

Urbanistica. Ristrutturazione edilizia e risanamento conservativo
Pubblicato: 07 Ottobre 2019
Gli interventi di “ristrutturazione edilizia”, la cui realizzazione senza il preventivo rilascio del permesso di costruire integra il reato di cui all’art. 44 del dPR n. 380 del 2001, comprendono l’esecuzione di lavori consistenti nel ripristino o nella sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, ovvero nella eliminazione, modificazione e inserimento di nuovi elementi ed impianti, e sono distinguibili dagli interventi di “risanamento conservativo”, in relazione ai quali non vi è la necessità del rilascio del permesso a costruire, i quali si caratterizzano per il mancato apporto di modifiche sostanziali all’assetto edilizio preesistente, alla luce di una valutazione compiuta tenendo conto della globalità dei lavori eseguiti e delle finalità con questi perseguite (fattispecie relativa ad opere realizzate in quattro appartamenti comportanti una sostanziale modifica dell’immobile, estendendone di fatto la cubatura utile a fini abitativi)

RITENUTO IN FATTO

La Corte di appello di Firenze ha, con sentenza del 25 maggio 2018, sostanzialmente confermato la precedente sentenza con la quale, in data 9 gennaio 2017, il Tribunale di Firenze aveva dichiarato la penale responsabilità di Vurro Maria Teresa, Durazzini Iacopo, Corina Leonardo e Corina Francesca in ordine al reato edilizio loro ascritto, modificata la originaria contestazione avente ad oggetto una lottizzazione abusiva in quella di mera realizzazione di interventi edilizi in zona vincolata in assenza del prescritto permesso a costruire, nonché di Corina Francesca in relazione alla ipotesi di falso ideologico, reato questo contestato solamente alla medesima, e li aveva, pertanto, condannati, alla pena di ritenuta di giustizia.

La Corte, nel riformare la sentenza impugnata, con la quale era stata anche disposta la assoluzione dei prevenuti in ordine al reato paesaggistico loro in origine contestato, si è limitata a disporre anche nei confronti del Durazzini la sospensione condizionale della pena che, invero, indicata nella motivazione della sentenza di primo grado, era stata invece non riportata nel dispositivo della detta decisione.

Come accennato, si tratta di un processo che vede imputati per un abuso edilizio i legali rappresentanti pro tempore della società proprietaria dell’immobile interessato dai lavori e committente dei medesimi, l’architetto progettista e direttore dei lavori eseguiti, nonché il legale rappresentante della ditta esecutrice di essi.

Come detto era stata originariamente contestata ai prevenuti una lottizzazione abusiva mentre  già all’esito del giudizio di primo grado è stato ritenuto sussistere intervento edilizio abusivo in zona vincolata in assenza di valido titolo abilitativo.

Sostanzialmente è stato contestato agli imputati di avere – attraverso la presentazione di una SCIA ritenuta contenente attestazioni false, tanto che relativo reato è stato attribuito a Corinna Francesca progettista delle opere e direttore dei lavori – realizzato su quattro  unità immobiliari lavori – meglio descritti nel capo di imputazione – che la Corte  territoriale ha ritenuto funzionali al raddoppio dei vani abitabili con aumento degli spazi utilizzabili e mutamento della destinazione d’uso del preesistente manufatto, penalmente rilevante in quanto ottenuta attraverso la realizzazione di solai volti a creare un sottotetto agibile in precedenza non esistente.

Avverso la predetta sentenza hanno interposto ricorso per cassazione i quattro imputati, deducendo, rispettivamente quanto segue.

La ricorrente Maria Teresa Vurro, cioè la legale rappresentante della società proprietaria dell’immobile al momento in cui fu presentata la SCIA, ha dedotto:

con il primo motivo di ricorso, la violazione di legge stante l’insussistenza degli elementi costitutivi della contravvenzione contestata e l’erronea applicazione delle norme applicate; si assume che la Corte territoriale non avrebbe considerato in primo luogo il fatto che la stessa dirigente del servizio di edilizia privata del Comune di Firenze aveva riferito che la SCIA presentata sarebbe stata del tutto legittima e che le difformità accertate erano state poi risolte attraverso l’adeguamento operato in ossequio ad un’ordinanza di conformazione emessa dall’amministrazione comunale;  si sarebbe, dunque, trattato di interventi non penalmente rilevanti, sanati con la variante finale; si aggiunge anche che la Corte territoriale avrebbe fatto erronea applicazione di alcune disposizioni del testo unico edilizia e segnatamente, dell’articolo 23-ter del dPR n. 380 del 2001, in tema di destinazione d’uso, per le ragioni dettagliatamente indicate in ricorso cui si rinvia;

con il secondo motivo di ricorso è stata dedotto il vizio di motivazione avendo la Corte territoriale erroneamente valutato la documentazione acquisita per ciò che concerne la realizzazione dei solai;

con il terzo motivo di ricorso viene posta in discussione l’attribuzione della responsabilità all’imputata osservandosi come all’atto di esecuzione delle opere la stessa non era più legale rappresentante della società e quindi non avrebbe posto in essere una condotta illecita;

il quarto motivo di ricorso riguarda il vizio di motivazione in punto di riconoscimento del diritto del risarcimento del danno in favore delle parti civili, facendosi rilevare che la sentenza impugnata si baserebbe esclusivamente sulle valutazioni tecniche di un ingegnere che non avrebbe assunto nel processo la veste di consulente tecnico bensì di testimone dell’accusa avendo redatto un elaborato su un incarico degli altri condomini costituitisi parte civile; si aggiunge che l’intervento edilizio per come realizzato non sarebbe in astratto idoneo a ledere alcun interesse dei condomini trattandosi della realizzazione di una soffitta conforme al titolo e alle norme di settore;

con il quinto motivo di ricorso si censura il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in favore della ricorrente; si osserva che la motivazione addotta, mancanza di comportamento collaborativo ed effettivamente riparatorio, non tiene conto della circostanza che, non essendo la ricorrente più legale rappresentante della società proprietaria dell’immobile non aveva alcuna veste per realizzare condotte riparatorie.

Con il suo ricorso Jacopo Durazzini ha, a sua volta, lamentato:

il primo,  il secondo ed il terzo motivo di ricorso sono di contenuto identico al primo, secondo e quarto motivo di ricorso dell’imputata Vurro,  mentre il quarto motivo di ricorso attiene al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con contenuto simile ma non perfettamente coincidente alla precedente impugnazione, in quanto si osserva che l’imputato si è conformato ai rilievi elevati in sede di sopralluogo.

Francesca Corina ha svolto cinque motivi di impugnazione, aventi il seguente contenuto:

con il primo motivo di ricorso è stata dedotta la violazione di legge per inosservanza degli articoli 521 e 522 cod. proc. pen. sotto il profilo della mancanza di correlazione tra imputazione e sentenza, osservandosi che l’originaria imputazione era stata configurata con riferimento al reato di lottizzazione abusiva poi escluso all’esito del giudizio di primo grado; si è osservato che tutta l’istruttoria dibattimentale si era basata su tale ipotesi accusatoria sicché la difesa sarebbe stata nell’impossibilità  di svolgere tutti gli argomenti a proprio favore il riferimento alla diversa ipotesi di reato ritenuta in sentenza;

il secondo e il terzo motivo di ricorso sono sostanzialmente sovrapponibili ai  motivi primo e secondo dei ricorsi Vurro e Durazzini  concernenti la classificazione delle opere e la loro liceità;

il quarto motivo di ricorso attiene al falso contestato e si evidenzia la genericità dell’imputazione relativa nonché la assenza, fra gli elementi acquisiti che vengono nel dettaglio illustrati, di significativi dati volti a dimostrare la sussistenza del reato ipotizzato;

il quinto motivo di ricorso riguarda il vizio di motivazione in relazione alla riconosciuta titolarità al risarcimento del danno delle parti civili costituite sulla base della insussistenza di elementi volti a dimostrare l’effettiva esistenza di un danno.

Infine con il ricorso di Leonardo Corina è stato dedotto:

i motivi di ricorso sono di fatto sovrapponibili a quelli oggetto del precedente ricorso ad eccezione, ovviamente, del motivo di impugnazione attinente al falso che è stato contestato soltanto l’imputata Francesca Corina.

CONSIDERATO IN DIRITTO

I ricorsi sono inammissibili.

Sulla base del contenuto delle contestazioni mosse dai diversi ricorrenti alla sentenza impugnata, appare logicamente prioritario esaminare in primo luogo la doglianza formulata dai ricorrenti Corina Francesca e Corina Leonardo inerente alla nullità della sentenza impugnata a causa della violazione del combinato disposto degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.

La censura è manifestamente infondata.

Va intanto osservato che la questione, già oggetto di motivo di appello, era stata definita con la sentenza di secondo grado nel senso della infondatezza della doglianza; giudizio che anche in questa sede di legittimità non può che essere confermato.

Come, infatti, la Corte fiorentina aveva rilevato, nel caso in esame non solo la indicazione delle disposizioni in ipotesi violate non è stata oggetto di modificazione alcuna ma, e questo è ciò che più conta, non ha subito alcuna variazione la contestazione della condotta attribuita ai ricorrenti, la cui compiuta descrizione, contenuta nella rubrica elevata nei loro confronti, ha indubbiamente consentito ai medesimi di difendersi pienamente nel giudizio rispetto al fatto loro attribuito.

Più nel dettaglio si osserva che in relazione alla possibile violazione del combinato disposto degli artt. 521 e 522 cod. pen. deve ribadirsi che il “valore” giuridico che la, eventualmente derivante, nullità della sentenza, in caso di effettiva violazione delle disposizioni citate, è destinato ad essere tutelato è costituito dalla concreta impossibilità per l’imputato di svolgere, nella pienezza dei poteri, la sua difesa in giudizio rispetto al fatto la cui commissione gli è stata attribuita; è, pertanto, di tutta evidenza che, ove il fatto sia stato compiutamente descritto nel capo di imputazione e lo stesso non è modificato in sede decisoria, non è ravvisabile il vizio dedotto dalla difesa dei due ricorrenti Corina.

E’, infatti, in relazione ad esso, al di là della qualificazione normativa che di esso è stata data, che l’imputato deve e può articolare la sua linea difensiva.

Come, infatti, in diverse occasioni questa Corte ha sostenuto, ai fini della valutazione in ordine alla correlazione fra accusa e sentenza di condanna, ciò che rileva è la compiuta descrizione del fatto e non l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati (per tutte: Corte di cassazione, Sezione V penale, 5 marzo 2015, n. 9706).

Nel caso di specie siffatta correlazione naturalistica fra il fatto contestato e quello per cui è intervenuta la sentenza di condanna è stata perfettamente conservata, ed infatti ciò non è neppure contestato dalla ricorrente, sicché la diversa qualificazione giuridica attribuita ad esso non ha dato luogo ad alcun vizio, anche in considerazione del fatto che detta diversa qualificazione ha comunque riguardato il medesimo ambito precettivo già in precedenza interessato dal fatto contestato in sede di rinvio a giudizio.

Passando, a questo punto, alle censure formulate da tutti i ricorrente relativamente alla effettiva integrazione del reato accertato, ritiene il Collegio che le doglianze, nelle diverse guise in cui le stesse sono state dedotte dai distinti ricorrenti, non abbia pregio alcuno.

Deve, infatti, osservarsi che agli imputati è stato contestato di avere, in sostanza, eseguito delle opere edili, che avrebbero necessitato del preventivo rilascio del permesso a costruire, in assenza del predetto titolo abilitativo; tali opere sono sostanzialmente consistite, attraverso la realizzazione – non prevista o comunque diversamente prevista nel progetto presentato al Comune di Firenze in occasione del deposito della Segnalazione Certificata di Inizio Attività n. 5830 del 2012 – di taluni manufatti finalizzati a rendere praticabile per l’uso residenziale gli ambienti dell’edificio originariamente adibiti a sottotetto non praticabile, nella derivante modificazione strutturale e di destinazione, dovuta all’ampliamento della zona abitabile, di quattro appartamenti ubicati all’interno di un immobile sito in Firenze.

Diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, si tratta di interventi, qualificabili come “ristrutturazione edilizia”, per i quali, anche a prescindere dal fatto che le opere realizzate fossero con coincidenti con quelle segnalate, non sarebbe stata sufficiente la presentazione della sola SCIA.

Come, infatti, è stato rilevato dalla Corte di legittimità, gli interventi di “ristrutturazione edilizia”, la cui realizzazione senza il preventivo rilascio del permesso di costruire integra il reato di cui all’art. 44 del dPR n. 380 del 2001, comprendono l’esecuzione di lavori consistenti nel ripristino o nella sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, ovvero nella eliminazione, modificazione e inserimento di nuovi elementi ed impianti, e sono distinguibili dagli interventi di “risanamento conservativo”, in relazione ai quali non vi è la necessità del rilascio del permesso a costruire, i quali si caratterizzano per il mancato apporto di modifiche sostanziali all’assetto edilizio preesistente, alla luce di una valutazione compiuta tenendo conto della globalità dei lavori eseguiti e delle finalità con questi perseguite (Corte di cassazione, Sezione III penale, 26 novembre 2014, n. 49221).

Nel caso in esame le opere realizzate nei quattro appartamenti per cui è processo, avendo comportato una sostanziale modifica dell’immobile, estendendone di fatto la cubatura utile a fini abitativi, hanno indubbiamente travalicato i confini del mero risanamento conservativo, tracimando nell’ambito della ristrutturazione edilizia.

Si rileva, peraltro, come la presente fattispecie si distingua, per quanto emerge dagli atti, da altro caso, in parte indubbiamente analogo, trattato di recente da questa Corte ed in relazione al quale è stata ritenuta non sussistere la violazione dell’art. 44, lettera c), del dPR n. 380 del 2001, sebbene i relativi lavori edili avessero comportato un aumento delle unità immobiliari fruibili e delle loro superfici utili.

In tale occasione, infatti, vi era stato il recupero a fini abitativi di spazi già utilizzabili, sebbene ad uso soffitte, pertanto con solai già praticabili, sicché la Corte aveva ben rilevato che la previsione di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), del dPR n. 380 del 2001 – che, nella formulazione modificata dall’art. 17, comma 1, lett. d), del decreto legge n. 133 del 2014, convertito con modificazioni con n. 164 del 2014, non include più, tra gli interventi di ristrutturazione edilizia subordinati a permesso di costruire, quelli che comportano un aumento di unità immobiliari o di superfici utili – incide sulla struttura essenziale del reato di cui all’art. 44 del medesimo dPR e, quindi, sulla fattispecie tipica, costituendo una norma extrapenale integrativa del precetto penale, suscettibile, in quanto più favorevole, di applicazione retroattiva, ai sensi dell’art. 2, comma quarto, cod. pen., escludendo, pertanto, la rilevanza penale del fatto allora addebitato (cfr. Corte di cassazione, Sezione III penale, 4 aprile 2019, n. 14725).

Nella occasione la Corte ha, infatti, richiamato i concetti di ristrutturazione edilizia, cosiddetta “pesante”, comportante la realizzazione di un organismo edilizio in tutto od in parte diverso dal precedente ovvero caratterizzato da modifiche della volumetria complessiva o dei prospetti, la cui realizzazione necessita tuttora del preventivo rilascio del permesso a costruire, e di ristrutturazione edilizia, cosiddetta “leggera”,  non avente le indicate caratteristiche, in relazione alla quale, anche laddove sia stata data alle opere edificande la errata definizione di mero risanamento conservativo, non vi è la necessità del permesso a costruire, essendo sufficiente la semplice SCIA.

Nel caso in esame, in cui non vi è stata la semplice riconversione ad uso abitativo di spazi destinati a soffitte, ma la destinazione ex novo di locali assolutamente impraticabili (come evidenziato dal fatto, segnalato nella sentenza impugnata, che gli stessi non presentavano quale loro base un solaio ma una semplice e fragile canniccio intonacato) ad un uso del tutto autonomo rispetto a quello preesistente.

Tali opere, avendo comportato, almeno in parte, una sostanziale modificazione funzionale dell’immobile interessato, devono essere fatte rientrare nell’ambito della ristrutturazione edilizia “pesante”, come tale necessitante, per la sua esecuzione, dell’apposito permesso a costruire.

Sulla base degli elementi indicati, le censure riferite alla mancata integrazione del reato edilizio contestato devono ritenersi manifestamente infondate.

Il terzo motivo di impugnazione presentato dalla ricorrente Vurro è chiaramente infondato; con esso si lamenta il fatto che la Corte di appello non avrebbe considerato il fatto che, al momento in cui fu eseguito il sopralluogo a seguito del quale fu contestato il reato edilizio, la Vurro non era più la legale rappresentante della Ispan Srl, società proprietaria degli appartamenti interessati dai lavori.

La ricorrente, infatti, omette di considerare che correttamente la sua responsabilità è stata ancorata alla circostanza che la stessa è non solo il soggetto che ha presentato, unitamente al direttore dei lavori, la SCIA con la quale sono stati segnalati lavori in termini diversi rispetto a quelli che sono stati effettivamente eseguiti, ma è anche il soggetto che ha commissionato l’esecuzione di quelli effettivamente realizzati.

Ella deve, per tale motivo rispondere pienamente dell’illecito edilizio compiuto, non essendo stati evidenziati, nelle opportune sedi di merito, elementi che possano far pensare all’intervento di iniziative, autonome rispetto ad un precedente programma, assunte dopo la cessazione dal parte della Vurro della carica ricoperta.  

Il successivo motivo, comune anche al ricorso del Durazzini, concerne la sussistenza di un danno civile, derivante dalla condotta posta in essere dalla imputata, oltre che dagli altri correi; l’esistenza di detto danno è stata rilevata sulla base dei rilievi operati, secondo quanto riportato in sentenza, da tale ing. Pasquinelli, si tratta di un professionista incaricato dagli altri condomini dell’edificio di eseguire dei controlli sulla sua stabilità, teste addotto dalla accusa.

La circostanza che questi non fosse un consulente di ufficio ma, appunto, un teste a carico, non appare di per sé tale da giustificare la illegittimità della decisione assunta dalla Corte di ritenere sussistente un danno, salva la sua successiva quantificazione, essendo del tutto plausibile che l’aggravio dei carichi verticali determinatosi per effetto della realizzazione dei nuovi locali nel sottotetto dell’edificio e la loro adibizione all’uso residenziale abbia comportato dei problemi nell’equilibrio statico complessivo dell’edificio.

Riguardo all’ultimo motivo di impugnazione presentato dalla Vurro, riferito alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in favore della attuale ricorrente, si tratta di motivo inammissibile, sol che si consideri che costei non ha indicato, né ha affermato di avere in precedenza inutilmente indicato, quali sarebbero potute essere le ragioni che avrebbero giustificato il riconoscimento di tale beneficio nei suoi confronti e che in sede di merito non le sono state riconosciute.

Relativamente alla posizione del ricorrente Durazzini, rimane da esaminare, essendo stati valutati gli altri motivi di impugnazione congiuntamente con le analoghe doglianze formulate dalla Vurro, solamente il quarto motivo di impugnazione, con il quale anche l’attuale ricorrente, sia pure sotto altro profilo, si duole del fatto che non siano state riconosciute neppure in suo favore, come d’altra parte in favore di nessuno degli altri imputati, le circostanze attenuanti generiche.

Sostiene, infatti, il ricorrente che, diversamente da quanto riportato nella sentenza impugnata, non risponde al vero l’affermazione, che avrebbe giustificato la esclusione delle attenuanti generiche,  che egli non abbia tenuto alcun comportamento collaborativo, essendosi, invece, egli adoperato, onde conformarsi alla ordinanza del 30 dicembre 2014, nel senso di rimuovere le difformità riscontrate fra la SCIA ed i lavori realizzati.

Ma anche in questo caso la Corte territoriale, che ha ben valutato il dato in esame, ha osservato, con valutazione che afferendo al merito della vicenda non è censurabile di fronte a questa Corte di legittimità laddove non manifestamente illogica o in contrasto con disposizioni di legge, che siffatto comportamento non costituisce indice di un’effettiva collaborazione, tale da giustificare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, perché si tratta di una condotta non spontanea ma determinata da un precedente provvedimento della Pa la cui ottemperanza era condicio sine qua non per la prosecuzione delle opere.

Con riferimento alle doglianze contenute nei ricorsi dei due imputati Corina, si rileva che quelle riferibili a Corina Leonardo, siccome riassunte nella parte narrativa della presente sentenze, sono già state tutte esaurite in occasione o dell’esame prioritario della censura avente ad oggetto la corrispondenza fra la contestazione e la sentenza ovvero in occasione delle analoghe doglianze formulate dagli altri ricorrenti, sicché non può che ribadirsi per esse la valutazione di inammissibilità già espressa in ordine a tali motivi di impugnazione.

Per ciò che attiene alla posizione di Corina Francesca, vale lo stesso discorso testé fatto per l’altro ricorrente, ove si eccettui il tema declinato con il motivo quarto, formulato da questa sola ricorrente in quanto riferito al reato di falso, contestato esclusivamente a costei.

In ordine ad esso, rileva la Corte che anche siffatta lagnanza è inammissibile.

Inammissibile è, infatti, la doglianza avente ad oggetto la pretesa vaghezza del capo di imputazione; in esso è, infatti, ben chiarito che il reato di falso ascritto alla imputata consiste nell’avere costei, in qualità di direttore dei lavori per cui è processo, attestato negli elaborati tecnici allegati alla SCIA presentata nell’agosto del 2012 e nelle successive varianti uno stato dei luoghi diverso da quello che, invece, rispondeva al vero.

La contestazione risulta essere chiara e precisa, e perfettamente idonea ad illustrare alla destinataria di essa il fatto per il quale ella è chiamata a rispondere in giudizio, sicché la censura afferente alla sua ritenuta vaghezza non ha ragion d’essere.

Relativamente al contenuto materiale del falso ideologico ascritto alla predetta imputata, esso è ben definito nella sentenza impugnata, laddove si chiarisce che la Corina ha falsamente rappresentato lo stato di fatto dell’immobile, dandone una descrizione, non rispondente al vero, tale da poter apparentemente consentire la qualificazione dei lavori indicati nella SCIA come riferibile ad un semplice risanamento conservativo, laddove gli stessi – avendo comportato, quanto meno, la realizzazione di un solaio praticabile ove vi era, invece, una struttura non idonea al calpestio e non suscettibile di sopportare un carico antropico, nonché la installazione, nello spazio in tal modo destinato ex novo ad ospitare la stabile presenza abitativa, dei necessari servizi infrastrutturali – avevano integrato indubbiamente un intervento di ristrutturazione edilizia che, per la sua pesante incidenza sull’utilizzo dell’immobile, era suscettibile di essere legittimato solo a seguito di rilascio di apposito permesso a costruire.

Conclusivamente, i ricorsi sono, pertanto, tutti quanti inammissibili ed i ricorrenti, visto l’art. 616 cod. proc. pen., vanno condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.         

PQM

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.

          Così deciso in Roma, il 14 maggio 2019

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