08/10/2019 – La giustizia amministrativa tra presente e futuro

La giustizia amministrativa tra presente e futuro
(intervento al convegno “Stato a diritto amministrativo tra presente e futuro” – Parma 4 ottobre 2019)

Filippo Patroni Griffi – Presidente del Consiglio di Stato – Pubblicato il 7 ottobre 2019 

1. Premessa: Stato a diritto amministrativo e sistema delle tutele
Per inquadrare la nostra riflessione nel tema odierno, credo sia opportuna richiamare, mettendole l’una dietro l’altra, alcune nozioni che sono note a noi tutti.
Lo Stato di diritto nasce come evoluzione dello Stato autoritario, in qualche modo lo presuppone. Esso si caratterizza per la soggezione al diritto dei pubblici poteri, nel senso che il potere pone il diritto ma, nel momento in cui lo pone, riconosce la “superiorità” del diritto e vi si assoggetta. La sovranità di cui è espressione il potere di produzione del diritto ha come effetto un’attenuazione della sovranità medesima, che si concretizza nella soggezione del potere al diritto posto e, di conseguenza, al giudice che del rispetto di quel diritto è il garante: da cui ciò che è stata definita, in una visione aggiornata e per certi versi semplificata del principio di separazione dei poteri, la distinzione tra “istituzioni di governo e istituzioni di garanzia”[1]. Tale constatazione ha portato alcuni autori a sottolineare che il “diritto preso sul serio” implica la necessità che si riconosca il carattere normativo del diritto nei confronti di se medesimo e a considerare patologica, oltre una certa misura, la divaricazione “tra il diritto che è e quello che deve essere, tra il diritto come fatto…e il diritto come norma”[2]
Lo Stato di diritto non è concettualmente legato allo Stato a diritto amministrativo –intendendosi con questa espressione un sistema in cui le relazioni tra Stato e cittadino sono regolate da un diritto “speciale”- ma la riflessione sullo Stato di diritto è stata storicamente associata a quella dello Stato a diritto amministrativo, proprio perché, dal punto di vista storico, lo Stato di diritto è la evoluzione in senso liberale dello Stato assoluto, il quale, a sua volta, conosceva solo il rapporto di supremazia del pubblico sul privato, del sovrano sull’individuo, ed è proprio riconoscendo valenza giuridica a tale rapporto che un diritto “speciale” rispetto al diritto comune assume autonomia come diritto che si impone al potere e al cittadino, all’amministrazione e all’amministrato. Il merito storico del diritto amministrativo come dall’Ottocento in poi lo intendiamo è quello di aver accompagnato la trasformazione dello Stato assoluto in Stato di diritto e di aver trovato uno sbocco in senso liberale alle relazioni tra cittadino e potere, dopo la separazione tra le due grandi famiglie giuridiche europee.
Non è questo il luogo per prendere in considerazione e comparare il diverso sviluppo che assumono le relazioni tra cittadino e potere nel sistema anglosassone e segnatamente in Gran Bretagna[3]. Più consono alla nostra riflessione odierna è muovere dalla considerazione secondo cui “lo Stato e il diritto pubblico sono dominati dal conflitto Stato-cittadino, due poli irriducibili e in contrasto tra loro”[4], mentre l’odierna società si rispecchia in una più articolata dialettica tra autorità e libertà, in cui alla garanzia dei diritti contro lo Stato si accompagnano diritti a prestazioni amministrative e diritti di partecipazione “politica” a decisioni amministrative.
Quello che la dottrina richiamata ha definito un “paradigma bipolare” entra dunque in crisi per una serie di concause, tra le quali sono state individuate la funzione “redistributiva” della stessa attività provvedimentale, che spesso si inserisce in un rapporto tripolare e non semplicemente bipolare, il diffondersi di moduli consensuali nel diritto amministrativo e l’emergere della funzione di regolazione; alle quali (cause) può aggiungersi l’emersione di un modello “negoziato” dello stesso farsi in concreto dell’azione amministrativa, sfruttando le potenzialità insite nel modello procedimentale inteso come contenitore e luogo di composizione degli interessi, da una parte, e il ricorso del legislatore amministrativo a modelli normativi aperti che pongono in crisi il principio tradizionale di legalità sostanziale.
E’ questo il contesto dell’, definito come “lo spazio nel quale si svolgono l’attività pubblica e l’interscambio Stato-società” o altrimenti come “lo spazio sociale nel quale si svolgono dialogo e conflitti e che serve al trasferimento della domanda sociale al corpo politico”[5].
In tale contesto, la logica e la pratica del judicial review, cioè del sindacato giurisdizionale sugli atti dei pubblici poteri, demandata nel nostro sistema al giudice amministrativo –sulla falsariga di ciò che avviene prevalentemente negli altri ordinamenti- si trasformano profondamente. Tale trasformazione su cui ora ci soffermeremo riguarda sia le tecniche di sindacato sia il ruolo del giudice e la sua collocazione nel sistema dei poteri. Un dato però sembra costituire il fil rouge che lega tali trasformazioni; un comune denominatore che fu alla base della stessa (re)introduzione nel 1889 della giurisdizione amministrativa nel nostro sistema a giurisdizione unica istituito nel 1865: il giudice amministrativo è un giudice che essenzialmente tutela diritti, non un giudice che garantisce il controllo sulla legalità amministrativa. Se quest’ultimo fu il fine dichiarato nel dibattito parlamentare che accompagnò la legge Crispi, la centralità della tutela dei diritti (all’epoca dei cd. diritti minori) è presente fin nei discorsi di Minghetti a Napoli e soprattutto di Spaventa a Bergamo; ma, soprattutto, questa concezione si consolida progressivamente nella giurisprudenza della Quarta Sezione (e prima della sua istituzione in quella consultiva sui ricorsi straordinari al re) fino all’attuale formulazione del testo costituzionale, ancor più nella lettura che ne darà la sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale[6]. Sicché appropriatamente si è parlato di recente di “tecniche di attuazione dei diritti nel processo amministrativo”[7].
La centralità della tutela nella storia della nostra giustizia amministrativa mi porta a ritenere utile ragionare ‒ nella prospettiva storica ‒ sulle “tecniche” di attuazione dei diritti e degli interessi nel processo amministrativo: non solo perché ciò consente di apprezzare concretamente (sul terreno della tutela), i caratteri evolutivi del sistema giuspubblicistico; ma soprattutto perché costituisce l’approccio metodologico più idoneo a “sterilizzare” le insidie di un dibattito da sempre carico di ambivalenze e preconcetti.
 
2. Per una “periodizzazione” del sistema delle tutele
Mi pare utile prendere le mosse dalla seguente periodizzazione.
a) Il modello primigenio della giustizia amministrativa e il suo accoglimento nella Costituzione repubblicana
Il modello di giustizia amministrativa del 1889 era pensato come sistema di azioni tipiche. Anche quando si condivideva la natura sostanziale dell’interesse portato dal cittadino istante, si reputava che il giudice conoscesse del rapporto tra amministrazione e cittadino solo attraverso lo “schermo” del problema di validità dell’atto amministrativo (la l. 31 marzo 1889, n. 5992 impiantò la giurisdizione del Consiglio di Stato secondo lo schema dell’impugnativa dell’atto amministrativo). La soluzione della crisi di cooperazione tra autorità e cittadino non approdava alla risoluzione in modo positivo e sostanziale del conflitto bensì si arrestava all’accertamento parentetico del profilo “estrinseco” dell’atto (emblematica la lettera dell’art. 45 t.u. Cons. St.), in altri termini a verificare la legittimità dell’assetto di interessi come definito nel provvedimento.
Il giudizio “proseguiva” dal procedimento: l’indagine probatoria sull’esercizio dei pubblici poteri era incentrata essenzialmente sulle modalità mediante le quali era stata compiuta l’istruttoria nel procedimento amministrativo; il principio dispositivo, in punto sia di oneri di allegazioni dei fatti sia di mezzi di prova, risultava fortemente attenuato dalle ricerche ufficiose del giudice, al punto da far ritenere che l’uno (l’onere probatorio) fosse di per sé assolto dall’altro (l’onere di allegazione).
Corollari di questo modello processuale erano anche: i) il divieto di motivazione postuma; ii) la non operatività del principio del dedotto e del deducibile; iii) la configurazione in chiave provvedimentale anche dei comportamenti; iv) l’inesauribilità del potere.
L’ordinamento processuale amministrativo si è poi progressivamente affrancato dal paradigma del mero accertamento giuridico di validità dell’atto in funzione caducatoria.
Il primo passo, stante l’insufficienza di una tutela siffatta in relazione soprattutto agli emergenti interessi pretensivi, è stato quello di superare i “limiti” dell’annullamento postulando, accanto all’effetto demolitorio della sentenza, anche quello conformativo e ripristinatorio. Il giudice, si è affermato, quando accerta l’invalidità dell’atto e le ragioni che la provocano, stabilisce quale è il corretto modo di esercizio del potere e fissa la regola alla quale l’amministrazione si deve attenere nella sua attività futura. Quanto più la sentenza è in grado di “convertire” l’insieme delle circostanze relative all’esercizio concreto di un dato potere in un vincolo per l’autorità, tanto più l’azione amministrativa successiva alla sentenza rappresenta non la manifestazione di un potere “proprio” quanto la mera attuazione del dictum giudiziale.
Se non che, anche quando il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento (di per sé variabile in relazione al tipo di vizio riscontrato ed al tratto di potere dedotto in giudizio) consentiva una ampia definizione della fattispecie sostanziale (giungendo, talvolta, finanche a prefigurarne l’assetto finale), esso mai poteva tradursi in un espresso dispositivo di condanna, e ciò pur ammettendosi l’insorgere di un obbligo pubblicistico in capo alla p.a. di ripristinare lo status quo ante e di conformarsi alle regole di azione statuite. La “regola implicita, elastica, incompleta” della pronuncia sarebbe potuta divenire titolo esecutivo (ovvero, statuizione concreta dei tempi e modi per adempiere all’obbligo) soltanto “progressivamente” nella successiva sede del giudizio di ottemperanza. Era di comune esperienza quanto l’applicazione di tale regola portasse con sé il grave inconveniente di dilatare sensibilmente i tempi di definizione giudiziale della vicenda: difatti, ammessa la possibilità per l’amministrazione di reiterare più volte una stessa pronuncia muovendosi negli interstizi lasciati liberi dalla sentenza, la legittima aspirazione del cittadino, a vedere compiutamente definite tutte le chance di soddisfazione del suo interesse finale, doveva scontare l’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatta.
b) Le prima stagione delle riforme (dal 1990 e fino al codice)
Nel rinnovato contesto costituzionale incentrato sulla equiordinazione delle tutele, il comune obiettivo delle successive tendenze legislative e giurisprudenziali è stato quello di far convergere nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita: una concentrazione reale della tutela. Si giocava, in altri termini, sull’ambito oggettivo del giudicato per rafforzarne la forza e la portata precettiva.
Prima dell’entrata in vigore del codice del processo, vanno citati almeno i seguenti sviluppi.
– Sul piano sostanziale: la progressiva conformazione del potere pubblico non più in termini di agire unilaterale e isolato, quanto di relazione giuridica informata ai principi di partecipazione trasparente e aperta (in ipotesi) finanche alla negoziazione degli interessi coinvolti, ha agevolato di riflesso il raggiungimento di un maggior equilibrio anche processuale quanto a parità della posizione delle parti e di accesso alla prova; l’art. 10-bis della legge sul procedimento, nel caso di procedimenti ad istanza di parte, imponendo alla p.a. di preavvisare il privato di tutti i possibili motivi di reiezione dell’istanza, ha consentito al processo di giovarsi della estensione del contraddittorio procedimentale a tutti i profili della disciplina del rapporto; vanno pure citati la nuova idea di legalità di risultato e l’attenuazione dei profili di autoritatività del potere correlata all’influenza in senso paritario sul diritto amministrativo del diritto comunitario;
– Sul piano processuale: la combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti avverso l’atto di riesercizio del potere ha consentito di focalizzare l’accertamento, per successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere; è divenuta pacifica la possibilità per il giudice di spingersi “oltre” la rappresentazione dei fatti forniti dal procedimento (soprattutto a seguito dell’introduzione dello strumento della C.T.U.), nella convinzione che quella degli apprezzamenti tecnici non sia un’area istituzionalmente “riservata” alla pubblica amministrazione, giacché ciò che è precluso al giudice amministrativo è soltanto il giudizio di valore e di scelta che “specializza” la funzione amministrativa; la problematica e discussa (e discutibile) attenuazione degli effetti dei vizi formali sulla legittimità del provvedimento mira alla definizione della vicenda sostanziale al pari della possibilità per il giudice amministrativo di accertare la fondatezza dell’istanza del privato nell’ambito del giudizio sul silenzio; l’introduzione del rimedio risarcitorio ha veicolato il processo verso il giudizio di spettanza, dove le risultanze del processo sono commisurate alla consistenza dell’interesse materiale.
c) Il codice del processo amministrativo
Ma, senza dubbio, spetta al codice del processo amministrativo il merito di avere abbandonato definitivamente ogni residuo della concezione oggettiva del giudizio amministrativo di annullamento come strumento di controllo dell’azione amministrativa, e di aver consolidato lo spostamento dell’oggetto del giudizio amministrativo dall’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, al rapporto regolato dal medesimo, al fine di scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata, sempre che non vi si frapponga l’ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività discrezionali riservate alla pubblica amministrazione (così l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 23 marzo 2011 n. 3).
I principali dispositivi tecnici della nuova giustizia amministrativa possono essere così compendiati.
i) Il codice prefigura un sistema aperto di tutele e non di azioni tipiche. ‒ Il rimedio è conformato non sul tipo di situazione soggettiva ma sul tipo di bisogno di garanzia che l’interesse protetto reclama, il cui grado e intensità è spesso definito ex post dal giudice e non ex ante. È questo il corollario di un dato sostanziale: diversamente dal diritto civile, il diritto amministrativo sostanziale non seleziona gli interessi, ma demanda all’azione amministrativa, sia pure sottoponendola ad una serie di condizioni, l’individuazione e la scelta dell’interesse che deve prevalere nel caso concreto. E lo stesso avviene sul piano processuale, in relazione al quale potrebbe dirsi, in ultima analisi, che l’interesse si giuridicizza attraverso la tutela; prima viene l’interesse e conseguentemente la sua tutela. Alla formula per la quale la cognizione non poteva esaurire tutti i profili del potere amministrativo (stante la salvezza degli ulteriori atti dell’autorità amministrativa: artt. 45 R.D. 1054/1924 e 26 L. 1043/1971), il codice ha sostituito il ben diverso divieto di pronunciare su poteri amministrativi non ancora esercitati (art. 34, comma 2), volto soltanto ad impedire la tutela anticipata dell’interesse legittimo.
ii) Concentrazione.‒ Per quanto permanga la centralità della struttura impugnatoria, il c.p.a. valorizza al massimo grado le potenzialità cognitive dell’azione di annullamento attraverso istituti che consentono di concentrare nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita.
iii) Rapporti tra cognizione ed esecuzione. ‒ La nuova “visione” del processo sta, anche, nell’aver radicato tra le attribuzioni del giudice della cognizione il potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell’ottemperanza, di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta (art. 34 comma 1 lettera e). La previsione, con tutta evidenza, consente di esplicitare “a priori”, ovvero nel dispositivo della sentenza, gli effetti conformativi e ripristinatori da cui discende la regola del rapporto, e non più “a posteriori”, in sede di scrutinio della condotta tenuta dall’amministrazione dopo la sentenza di annullamento; ne consegue la possibilità di concentrare in un solo episodio giurisdizionale tutta quella attività di cognizione che prima doveva necessariamente essere completata in sede di ottemperanza. Le misure attuative, talvolta, saranno limitate alla sola definizione dei modi di riesercizio del potere; altre volte, invece, quando l’accoglimento della questione di legittimità non lasci residuare margine alcuno per soluzioni alternative, potranno spingersi a statuire in via satisfattiva sulla spettanza del provvedimento richiesto; all’occorrenza, con la nomina del commissario, le misure potranno anche essere esecutive e sostitutive.
iv) Istruttoria.‒ Il codice del processo amministrativo, al fine di dare continuità ad un modello processuale ispirato all’agilità delle forme piuttosto che al modello civilistico di giudizio a cognizione piena contraddistinto dalla predeterminazione legale di forme, termini e poteri delle parti, non ha introdotto un’autonoma fase di istruzione della causa, mantenendo fermo il principio di concentrazione dei poteri istruttori e decisori. Tuttavia, per quanto permanga un ampio potere di intervento del giudice sul materiale di fatto introdotto dalle parti nel processo, non sembra che la formula del metodo acquisitivo nella formazione del materiale probatorio continui a connotare, negli stessi termini, il processo amministrativo.
 
3. Il sistema delle tutele: prospettive
 
Dai su indicati elementi di trasformazione prendiamo le mosse per delineare le prospettive del sistema delle tutele.
In primo luogo, la prospettiva di contesto. Si delinea un assetto, avviato dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale (n. 191 del 2006, n. 140 del 2007), in cui la giurisdizione amministrativa, configurata come giurisdizione ordinaria sugli interessi legittimi, si qualifica come giurisdizione sui pubblici poteri, o giurisdizione dell’illegittimo esercizio del potere pubblico, che consente di pervenire all’idea di una giurisdizione “piena” ‒ nel senso che il giudice ha il potere di riformare in qualsiasi punto, in fatto come in diritto, la decisione impugnata resa dall’autorità amministrativa ‒ senza passare (necessariamente) per una giurisdizione esclusiva. Si vuole intendere che la giurisdizione del giudice amministrativo assicura una tutela piena, per cognizione e strumenti di tutela, in tutte quelle ipotesi in cui sia in gioco la contestazione della legittimità dell’agire pubblico; in tutte quelle ipotesi –direbbe la Corte- in cui l’amministrazione agisca, anche indirettamente, come autorità e quindi la posizione del privato sia qualificabile come interesse legittimo.
Se non che, il codice del processo amministrativo, sotto molto aspetti, non tratteggia un modello compiuto, lasciando al giudice (ed alla comunità scientifica) il compito di ridurre la distanza che spesso si annida tra l’efficacia delle regole e l’effettività delle tutele.
Segnalo alcuni temi che emergono dalla esperienza giurisprudenziale più recente.
a) Inesauribilità del potere e riduzione della discrezionalità
Il dibattito sulle forme di tutela azionabili nel caso in cui l’amministrazione reiteri con uguale risultato negativo gli esiti di una selezione tecnica già annullati dal giudice amministrativo è risalente.
In tempi recenti sono state formulate ‒ in giurisprudenza come in dottrina ‒ svariate proposte “operative” ispirate ai principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo. Al fine di riconoscere al giudicato amministrativo l’effetto di cristallizzare situazioni giuridiche resistenti alla riedizione del potere amministrativo:
– una tesi “radicale” suggerisce di rafforzare la capacità stabilizzante del giudicato amministrativo, ritenendo che esso copra non solo il dedotto ma anche il deducibile, con la conseguenza che, nel caso di giudicato di annullamento su vizi sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali nuovi vizi, integra una violazione del giudicato ogniqualvolta i nuovi vizi derivino da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come necessitanti di una nuova valutazione;
– una tesi “mediana” sostiene invece che, dopo la formazione del giudicato, la pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale possa sì individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla pretesa del ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola.
La sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 15 gennaio 2013 fa ancora salva la sfera di autonomia e di responsabilità dell’amministrazione nella riedizione del potere, demandando al giudizio di cognizione il sindacato sul nuovo atto sotto profili non esaminati nel giudicato da eseguire. Anche la successiva sentenza dell’Adunanza plenaria n. 11 del 9 giugno 2016, ma con riferimento a una sopravvenienza normativa cui equiparata una sentenza della Corte di giustizia UE, sembra ribadire che «[l]a dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni “integrative”, ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale».
Recentemente il Consiglio di Stato (con la sentenza n. 1321 del 2019) è tornata ancora una volta sulla questione se, dopo l’accertamento giurisdizionale della illegittimità di un diniego su di una istanza, l’amministrazione possa negare nuovamente al ricorrente il bene della vita a cui il ricorrente aspira in base ad accertamenti o valutazioni che sarebbero potuti essere già compiuti nell’originario procedimento amministrativo, cioè se ne consegua il vincolo conformativo di accordare la richiesta del cittadino.
Pur nel rispetto delle citate statuizioni dell’Adunanza plenaria, il Collegio ha ricercato un punto più avanzato di equilibrio, ritenendo che non sia accettabile che la crisi di cooperazione tra amministrazione e cittadino possa risolversi in una defatigante alternanza tra procedimento e processo, senza che sia possibile addivenire ad una definizione positiva del conflitto, con grave dispendio di risorse pubbliche e private.
Si è osservato che:
  1. è vero che l’art. 31, comma 3, del c.p.a., consente la definizione dell’intero rapporto sostanziale soltanto quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di discrezionalità;
  2. è altresì vero che l’art. 34, comma 2, del c.p.a. ‒ alla cui stregua il giudice non può pronunciarsi che «con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati» (art. 34, comma 2) ‒ non consente domande di tutela preventiva dell’interesse legittimo, dirette cioè ad orientare l’azione futura dell’amministrazione, prima che questa abbia ancora provveduto.
Pur tuttavia, si è detto, gli auto-vincoli discendenti dal dipanarsi dell’azione amministrativa e i meccanismi giudiziari, sollecitando l’amministrazione resistente a compiere ogni valutazione rimanente sulla materia controversa, consentono di focalizzare l’accertamento, attraverso successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere (si pensi alla combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti avverso l’atto di riesercizio del potere), concentrando in un solo episodio giurisdizionale tutta quella attività di cognizione che prima doveva necessariamente essere completata in sede di ottemperanza.
In conclusione –secondo la citata sentenza- la consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contradittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati.
b) Discrezionalità tecnica e sindacato sulle sanzioni amministrative
L’esigenza di assicurare un controllo di full jurisdiction sulle sanzioni irrogate dall’Autorità antitrust ha spinto i giudici a connotare il processo amministrativo in termini di gravame «appellatorio» piuttosto che «cassatorio» di legittimità.
L’approdo finale della giurisprudenza – superate alcune incomprensioni lessicali legate all’inziale distinzione tra sindacato “debole” e “forte” – è stato quello di ammettere una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione: l’unico limite in cui si sostanzia l’intangibilità della valutazione amministrativa complessa è quello per cui, quando ad un certo problema tecnico ed opinabile (in particolare, la fase di c.d. “contestualizzazione” dei parametri giuridici indeterminati ed il loro raffronto con i fatti accertati) l’Autorità ha dato una determinata risposta, il giudice (sia pure all’esito di un controllo “intrinseco”, che si avvale cioè delle medesime conoscenze tecniche appartenenti alla scienza specialistica applicata dall’Amministrazione) non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Autorità, dovendosi piuttosto limitare a verificare se siffatta risposta rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili, ragionevoli e proporzionate, che possono essere date a quel problema alla luce della tecnica, delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto.
Questa tipologia di sindacato – che può definirsi “non sostitutivo” – ha indubbiamente avuto il merito di allontanare definitivamente il processo amministrativo dal paradigma del contenzioso amministrativo, improntato non al metodo istruttorio di fondare il proprio accertamento sul raffronto tra la realtà e la rappresentazione che di essa fa l’amministrazione, bensì muovendosi all’interno della rappresentazione della realtà descritta nel provvedimento.
Un recente indirizzo del Consiglio di Stato (caso Avastin) ha riconsiderato il quadro così tratteggiato, anche alla luce di un recente intervento normativo[8], che, nel recepire la direttiva 2014/104/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 novembre 2014 relativamente ai rapporti tra accertamento dell’illecito e risarcimento del danno, ha ridisegnato l’assetto del public and private enforcement, ha stabilito che la violazione del diritto antitrust constatata da una decisione definitiva di un’autorità nazionale garante della concorrenza, rimasta inoppugnata o confermata dal giudice amministrativo, è  incontestabile nel giudizio per il risarcimento del danno proposta dinanzi al giudice civile.
In tale contesto. il descritto sindacato “non sostitutivo” di ragionevolezza e proporzionalità sull’illecito antitrust è sembrato non coerente con la fisionomia che il processo amministrativo ha nel frattempo assunto informandosi all’anzidetto principio di effettività.
La sentenza ha distinto il sindacato sulla regolazione da quello relativo alle sanzioni.
Il controllo giurisdizionale “non sostitutivo” può soddisfare l’interesse dedotto in giudizio quando il legislatore, non essendo in grado di governare tutte le possibili reciproche interazioni tra i soggetti interessati e di graduare il valore reciproco dei vari interessi in conflitto, si limita a predisporre soltanto i congegni per il loro confronto dialettico, senza prefigurare un esito giuridicamente predeterminato, che viene demandato a una autorità di regolazione. In queste ipotesi, la sentenza (il più delle volte) non si pone quale fonte diretta del «rapporto amministrativo» in sostituzione dell’atto amministrativo, semplicemente perché non può contenere l’accertamento sostanziale dei presupposti per ottenere il risultato della vita. In tali casi, l’attività integrativa del precetto corrisponde ad un tecnica di governo attraverso la quale viene rimesso ai pubblici poteri di delineare in itinere l’interesse pubblico concreto che l’atto mira a soddisfare. Per questi motivi, al giudice amministrativo resta precluso il giudizio di valore politico consistente nella conveniente ed opportuna scelta allocativa, distributiva e gestionale delle risorse pubbliche. L’intangibilità del nucleo “intimo” della decisione discrezionale consegue alla stessa mancanza di un parametro giuridico di valutazione, essendosi al cospetto di attività, sì giuridicamente rilevante, ma non disciplinata da norme di diritto oggettivo.
Ben diverso è il caso in cui l’ordinamento generale pone esso stesso una regola sostantiva che determina a priori ed in astratto ciò che spetta ad ognuno dei soggetti coinvolti, ai cui interessi viene dunque assicurata, entro questi limiti, soddisfazione. In tali casi, nulla si oppone a che sia il giudice a “definire” la fattispecie sostanziale.
Nel caso delle sanzioni antitrust, gli elementi descrittivi del divieto di intesa anticompetitiva, anche quelli valutativi e complessi, sono presi in considerazione dalla norma attributiva del potere, nella dimensione oggettiva di “fatto storico” accertabile in via diretta dal giudice, e non di fatto “mediato” dall’apprezzamento dell’Autorità. Per questi motivi, il giudice non deve limitarsi a verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili che possono essere date a quel problema alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto, bensì deve procedere ad una compiuta e diretta disamina della fattispecie. Lo dimostra il fatto che, nelle azioni risarcitorie c.d. stand alone (ossia non precedute da una decisione dell’Autorità), il giudice civile – sia pure ai fini risarcitori – è chiamato a verificare direttamente ed in prima persona i presupposti dell’illecito, senza che occorra alcuna intermediazione di potere pubblico.
Al sindacato (non sostitutivo) di “attendibilità” va dunque sostituito un sindacato pieno di “maggiore attendibilità”[9].
c) Giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza: l’eccesso di potere giurisdizionale
L’ultimo punto di “trasformazione” del processo, con ricadute peraltro significative sul profilo “istituzionale” delle tutele e sul sindacato della Corte di cassazione ex articolo 111 della Costituzione è quello del rapporto tra cognizione e ottemperanza.
Nel nuovo assetto delineato dal codice del processo, l’area della cognizione e quella dell’ottemperanza vanno “confondendosi”; nel senso che l’orientamento legislativo e la pratica giurisprudenziale tendono ad anticipare per quanto possibile al giudicato di cognizione valutazioni e gli stessi strumenti di esecuzione (penso alla nomina del commissario) propri del giudizio di ottemperanza, il quale sempre più assume i contorni del giudizio di “esecuzione”, concernente cioè le modalità esecutive del giudicato (da cui la cd. ottemperanza di chiarimenti). Non credo che ciò ponga fine alla logica del giudicato a formazione progressiva che è legata piuttosto al carattere inevitabilmente dinamico del potere e quindi della vicenda amministrativa, ed è di rilevante pratica utilità ai fini dell’effettività della tutela e del governo delle sopravvenienze.
Piuttosto è evidente che va in crisi il tradizionale rapporto tra cognizione e ottemperanza e quindi, di riflesso, non può rimanersi ancorati alle categorie tradizionali, tra giudizio di legittimità (quello di cognizione) e giurisdizione di merito (quello di ottemperanza). In realtà, a ben guardare, il giudizio di ottemperanza è ricondotto alla “giurisdizione di merito” direi quoad effectum, nel senso che al giudice dell’ottemperanza sono riconosciuti poteri, cognitori e attuativi, che si sono sempre ritenuti estranei alla tradizionale configurazione impugnatoria della giurisdizione di legittimità. Un po’ come è stato ricondotto alla giurisdizione di merito il giudizio cautelare. Ma la logica dei giudizi cautelare e di ottemperanza è completamente diversa da quella, oggi del tutto residuale, della giurisdizione di merito; ed è informata a criteri di effettività della tutela generale. Se questo è vero, probabilmente la Corte di cassazione dovrà rivedere il tradizionale orientamento che applica meccanicamente il controllo sulla giurisdizione ex art. 111 alle sentenze di cognizione del Consiglio di Stato nei rapporti col merito amministrativo. Detta in maniera diretta: appartengono davvero al merito amministrativo le statuizioni rese dal Consiglio di Stato in sede di cognizione che riguardano la riedizione del potere, l’esecuzione della sentenza, le istruzioni al commissario? E vi apparterrebbero solo perché quelle sentenze sono rese in sede di cognizione, e quindi sarebbero per ciò solo statuizioni che eccedono la giurisdizione (di legittimità), mentre non lo sarebbero se fossero rese in sede di ottemperanza. Merito amministrativo e ottemperanza (o cautela) non sono (più) la stessa cosa.
 
4. Conclusioni
Per usare una formula sintetica, la mia impressione è che quella della giustizia amministrativa sia una storia di continuità in perenne trasformazione. In realtà il giudice dell’amministrazione è sopravvissuto a mutamenti storici radicali, non solo in Italia, proprio per questa sua capacità di adattarsi alle esigenze di tutela, mutevoli sul piano ideologico e sul versante storico. Se proprio si vuole cogliere un elemento di continuità nella storia nostra e in quella degli altri ordinamenti dell’Europa, pur diversificati tra loro, è proprio questo: la costante attenzione a coniugare la tutela dei diritti e la garanzia del bene collettivo nell’esercizio del potere pubblico, quest’ultima contro l’arroganza del potere ma anche contro l’invasività degli interessi di parte.
Stare al passo coi tempi, a mio avviso, significa saper adattare le categorie concettuali alle esigenze della realtà, evitare –per dirla con Borges- di aver letto tanti libri ma non saper nulla della realtà.
Il diritto regola la realtà, in questo ha una sua ragion d’essere. Categorie concettuali consolidate, che hanno fatto in positivo la storia del diritto amministrativo, vanno forse ripensate. Forse questo ripensamento dovrebbe riguardare –e ciò sta accadendo già- categorie anche di teoria generale, quali le figure del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo. La loro centralità nel sistema delle tutele sembrerebbe ovvia. Ma la configurazione concettuale che ne ha dato la scienza giuridica è probabilmente inadatta ai tempi, e ancor più è inadatta la loro trasposizione sul piano processuale come criterio di riparto. Una lettura evolutiva della disposizione costituzionale, ad opera soprattutto della Corte, ne ha delineato una nuova fisionomia, che si è riflessa sul giudice dell’amministrazione, sempre più giudice delle vicende e delle relazioni “autoritative” tra cittadino e potere. Restano criticità: forse la più sensibile è quella del risarcimento del danno, trattata spesso inappropriatamente alla stregua di “materia”, concepita dal giudice civile come un diritto soggettivo autonomo e dal giudice amministrativo in un’ottica essenzialmente rimediale e succedanea alla non satisfattività in concreto dello strumento lato sensu ripristinatorio, un qualcosa che nella pratica somiglia a un indennizzo non dichiarato.
La scienza giuridica ha il compito questa volta di guidare la giurisprudenza. I giudici devono guardare al sistema processuale nell’ottica delle tutele, anzi che del riparto. I giudici amministrativi devono continuare a porsi come garanti del cittadino e della legittimità del potere; perché tutto questo credo sia ineludibilmente nella logica dello Stato a diritto amministrativo, o di ciò che esso rappresenta per noi oggi.
 
Filippo Patroni Griffi
Presidente del Consiglio di Stato
Pubblicato il 7 ottobre 2019
 
 

[1] L.Ferrajoli, Sul futuro dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, in Jura gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, 2005
[2] L.Ferrajoli, ibidem
[3] Su cui resta illuminante la raccolta di scritti Cittadino e potere in Inghilterra, Milano 1990
[4] S.Cassese, La crisi dello Stato, Bari 2002, 75
[5] S.Cassese, cit., 80 s.
[6] Per lo svolgimento analitico di tali considerazioni riassuntive si rinvia, anche per i richiami alla letteratura pertinente, a F. Patroni Griffi, Una giustizia amministrativa in (perenne) trasformazione, in Riv.dir.proc.civ……. Più di recente, F.Merusi, Incontri pericolosi…Crispi e la nascita della IV Sezione del Consiglio di Stato, in Dir.processuale amm. 2019, 13 ss.
[7] M. Mazzamuto, Le tecniche di attuazione dei diritti nel processo amministrativo, in Giustamm 2017 e ora in Processo e tecniche di attuazione dei diritti, a cura di G.Grisi, Napoli 2019, 283 ss. L’Autore osserva (p.284) come “l’ordito giuspubblicistico…abbia realizzato uno straordinario sistema di tutela di gran lunga più garantista di quanto il cittadino potrebbe mai ottenere con il regime civilistico” e richiama Gaston Jèze che, già nel 1929, vedeva nella giustizia amministrativa “l’arma più efficace, più economica e più pratica per difendere le libertà individuali” (Les libertés individuelles, in Annuaire de l’Institut international de droit public, 1929, 180
[8] VI Sezione, sentenza n. 4990 del 2019
[9] Anche i giudici dell’Unione europea hanno precisato che, nel controllo giurisdizionale sulle sanzioni antitrust, nessun ostacolo alla pienezza del sindacato può discendere dal «potere discrezionale di cui dispone la Commissione, in forza del ruolo assegnatole, in materia di politica della concorrenza, dai Trattati UE e FUE […]» (Corte di Giustizia, 11 settembre 2014, in causa C-382/12, punto 156)
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