08/10/2019 – Dichiarata l’illegittimità della norma del codice degli appalti nella parte in cui limita la possibilità di subappaltare alla quota massima del 30% dell’importo contrattuale

Dichiarata l’illegittimità della norma del codice degli appalti nella parte in cui limita la possibilità di subappaltare alla quota massima del 30% dell’importo contrattuale
di Paolo Carbone – Avvocato
A pochi giorni dalla pronuncia in tema di concessioni di opere pubbliche (vd sentenza Corte Giustizia, Sez. V, 18 settembre 2019, n. C-526/17), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea “torna” ad occuparsi della normativa italiana in materia di appalti.
Il caso trae origine da una gara avviata nel 2016 con la quale Autostrade per l’Italia ha indetto una procedura ristretta per l’affidamento di lavori di ampiamento della quinta corsia dell’autostrada A8 tra la barriera di Milano Nord e Lainate (MI), per un importo a base di gara di € 85.211.216,84.
Alla gara veniva invitata un’impresa che, successivamente, era esclusa per avere superato il limite del 30% previsto, in materia di subappalto, all’art 105D.Lgs. n. 50/2016 (codice appalti).
L’impresa proponeva ricorso di fronte al TAR Lombardia che, a sua volta, sollevava la questione pregiudiziale di compatibilità tra la suddetta norma nazionale e gli artt. 4956 del TFUE nonché l’art. 71 della direttiva n. 2014/24/UE.
In particolare, il Giudice di rinvio, in primo luogo ha richiamato la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale il legislatore nazionale può legittimamente porre, in materia di subappalto, limiti di maggior rigore rispetto a quelli previsti dalle pertinenti disposizioni del diritto dell’Unione, laddove essi siano giustificati, da un lato, alla luce dei principi di sostenibilità sociale e, dall’altro, in considerazione dei valori declinati dall’art. 36 del TFUE, tra cui compaiono l’ordine e la sicurezza pubblici.
Tuttavia, prosegue il Giudice nazionale, posto che la direttiva n. 2014/24 non prevede limiti quantitativi al subappalto, la previsione normativa italiana del limite del 30% può rendere più difficoltoso l’accesso delle imprese, in particolar modo di quelle di piccole e medie dimensioni, agli appalti pubblici, così ostacolando l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. Oltre che sull’aspetto quantitativo, viene posto il dubbio sulla legittimità di tale limite, fissato in maniera astratta in una determinata percentuale del contratto, a prescindere dalla possibilità di verificare la capacità e l’idoneità di eventuali subappaltatori.
Di conseguenza, il giudice del rinvio si domanda se la normativa nazionale di cui al procedimento principale non risulti incompatibile con i principi comunitari.
In primo luogo, il Giudice eurounitario nel richiamare l’art. 71 della direttiva n. 2014/24/UE che disciplina il subappalto, ritiene che tale strumento, contribuisce al perseguimento del principio della maggiore concorrenza possibile, in quanto favorisce l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici,. In tal senso, viene poi richiamata una precedente sentenza, relativa all’interpretazione della precedente direttiva di settore, la direttiva n. 2004/18/UE, laddove è stato stabilito che una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori che impone limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori, è incompatibile con tale direttiva, applicabile ratione temporis alla controversia che aveva dato luogo a tale sentenza (Corte di Giustizia UE, 14 luglio 2016, Wroclaw – Miasto na prawach powiatu, C-406/14, EU:C:2016:562).
La difesa dello Stato italiano ha per contro ravvisato che la limitazione del ricorso al subappalto nella normativa nazionale è giustificata alla luce delle particolari condizioni esistenti in Italia, dove tale istituto ha sempre costituito uno strumento di infiltrazione mafiosa nelle commesse pubbliche.
Le argomentazioni sostenute dallo Stato italiano vanno considerate alla luce dell’art. 71 della direttiva n. 2014/24 secondo la quale gli Stati membri rimangono liberi di prevedere, nel proprio diritto interno, disposizioni più rigorose rispetto a quelle previste dalla disciplina comunitaria, a condizione che esse siano compatibili con i principi del diritto dell’Unione. D’altra parte, il considerando 100 di tale direttiva precisa che è opportuno evitare l’aggiudicazione di appalti pubblici, in particolare, ad operatori economici che hanno partecipato a un’organizzazione criminale.
Sempre nel quadro di tale impostazione, vengono poi richiamate alcune sentenze con cui la Corte di Giustizia ha affermato che “che il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici“. (v., in tal senso, sentenza del 22 ottobre 2015, Impresa Edilux e SICEF, C-425/14, EU:C:2015:721, punti 27 e 28).
Si pone dunque, nel quadro del bilanciamento di principi contrapposti, il quesito principale ovvero se la restrizione al subappalto sia da considerare, in modo esclusivo, uno strumento idoneo a contrastare infiltrazioni mafiose nel mercato degli appalti pubblici.
Ebbene a questo quesito, la Corte risponde negativamente per le ragioni che si vanno di seguito ad esplicitare.
In primo luogo, ricorda ancora una volta la Corte, come “durante tutta la procedura, le amministrazioni aggiudicatrici devono rispettare i principi di aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 18 della direttiva n. 2014/24, tra i quali figurano, in particolare, i principi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità“.
Pertanto, tenuto conto che la normativa nazionale italiana vieta in modo generale ed astratto il ricorso al subappalto oltre la percentuale prefissata, significa che tale divieto si applica indipendentemente e indiscriminatamente dal settore economico, dalla durata dei lavori e dall’identità dei subappaltatori, senza che “un siffatto divieto generale lasci alcuno spazio a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore“.
Tale restrizione parrebbe dunque in contrasto con il principio di proporzionalità.
In virtù della limitazione della quota subappaltabile, peraltro, l’appaltatore deve necessariamente accollarsi una parte rilevante di lavori, forniture e servizi interessati, pena l’esclusione dalla procedura di gara, anche nel caso in cui la stazione appaltante sia in grado di verificare l’identità dei subappaltatori interessati e ove ritenga “in seguito a verifica, che siffatto divieto non sia necessario al fine di contrastare la criminalità organizzata nell’ambito dell’appalto in questione“.
In definitiva, sottolinea la Corte, esaminando le argomentazioni principali della difesa erariale italiana, la finalità del legislatore nazionale, ovvero quella di tutelare ordine pubblico e sicurezza, impedendo infiltrazioni mafiose nel mercato degli appalti, potrebbe essere perseguita adottando misure meno restrittive. Del resto, “il diritto italiano già prevede numerose attività interdittive espressamente finalizzate ad impedire l’accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel paese“. In tal senso, dunque, è evidente il riferimento non solo alle disposizioni del codice degli appalti, ma anche a diverse normative di settore (artt. 8795D.Lgs. n. 159/2011, codice antimafia).
Ritiene poi non condivisibile l’osservazione fornita dallo Stato italiano secondo cui i controlli di verifica che l’amministrazione aggiudicatrice deve osservare in forza del diritto nazionale sarebbero inefficaci, tenuto conto che, secondo la Corte, ciò dipende dalle modalità di tali controlli e tale elemento “nulla toglie al carattere restrittivo della misura nazionale di cui al procedimento principale“.
In considerazione di tali elementi, è evidente come il criterio restrittivo previsto dall’art. 105D.Lgs n. 50/2016, sia contrario ai principi fondamentali del Trattato dell’Unione Europea, vale a dire parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza.
Pertanto, nel rispondere alla questione pregiudiziale la Corte dichiara che la direttiva n. 2014/24 dev’essere interpretata nel senso che essa risulta in conflitto con la normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.

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