08/09/2017 – Il “velo integrale” fra diritti di libertà religiosa e valori costituzionali.

Il “velo integrale” fra diritti di libertà religiosa e valori costituzionali.

 

Capita di incontrare, ormai con una certa frequenza, nelle strade delle nostre città, donne che si coprono il volto in adesione a precetti religiosi e a particolari codici culturali. Quella che in passato poteva apparire come una sporadica, e proprio per questo innocua ed esotica modalità di abbigliarsi, sta assumendo gradualmente rilevanza e perciò non può non dar luogo a considerazioni che sarebbe superficiale e, in ultima analisi, pericoloso eludere.

Sulla questione è intervenuta di recente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Affaire Belcacemi et Oussar c. Belgique. Requete n°37798/13) ed ha affermato che per una donna indossare in pubblico il velo integrale non è necessariamente espressione di subalternità e può benissimo essere l’esercizio di un diritto di scelta a rappresentare la propria dignità attraverso quel tipo di abbigliamento. Tuttavia quanto più una società è multiculturale ed inclusiva, più in essa coesistono costumi e forme e convincimenti religiosi e più le persone devono essere attente ad esibire, nei luoghi pubblici, forme di abbigliamento quando sono particolarmente ostentative. E’ chiaro infatti che anche i livelli simbolici espressi dell’abbigliamento sono il prodotto di compromesso fra le libertà individuali e le regole di interazione sociale. Le persone che portano indumenti che nascondono il viso, secondo la Corte, trasmettono agli altri il segnale che non vogliono partecipare attivamente al consorzio sociale laddove invece uno dei valori che costituiscono la base del funzionamento della società democratica è che sia possibile uno scambio attivo fra le persone, intese come individui soggetti di diritto.

E’ dunque interessante, analizzare come il tema, e le conclusioni cui è giunta la Corte Europea, trovino declinazione nell’ordinamento della nostra Repubblica.   

E’ bene prima di tutto ricordare che i diritti fondamentali di libertà come sanciti dalla nostra Carta costituzionale non sono affermazioni assolute e astratte, per quanto alcuni fondamentalissimi diritti della persona abbiano invece proprio tale connotazione, si pensi in proposito al diritto al nome o alla integrità psicofisica.

I diritti come quello di manifestare liberamente il proprio pensiero, di professare liberamente la propria religione o manifestare le proprie idee politiche senza discriminazioni e in pari dignità con le altre, per essere praticati nella loro pienezza, e quindi anche compresi nei loro limiti, devono essere contestualizzati nel sistema complessivo di altri diritti (e doveri) altrettanto fondamentali. Devono quindi essere apprezzati all’interno di a un complesso giuridico armonico a sua volta espressione di un sistema di valori, evolutisi nel nella storia, che hanno generato l’enunciazione proprio di quei diritti. Si tratta di valori dinamici, culturali ed etici, destinati ad affinarsi col trascorrere del tempo e ad ampliare quindi anche gli spazi interpretativi offerti dalla loro originaria formulazione giuridica.

Ecco perché i princìpi secondo cui tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge, (art. 8 Cost.), secondo cui tutti i cittadini hanno pari dignità, sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di religione e di opinioni politiche (art.3 Cost.), secondo cui tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto (art. 19 Cost.) ed infine, secondo cui tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art. 21 Cost.), devono essere coniugati e bilanciati con altrettanti fondamentali diritti e princìpi.

Nel nostro ordinamento la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo è praticata e riconosciuta dalla Repubblica certamente rispetto alla persona ma anche, e allo stesso modo, nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità richiedendo l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art.2 Cost.). Non solo: è anche compito assunto dalla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. (art. 3 Cost.). E va ricordato, per inciso, che sono proprio questi ultimi princìpi a caratterizzare in modo peculiare la nostra Carta fondamentale facendone un modello avanzato e moderno di Costituzione del secondo dopoguerra, mentre i diritti attinenti principalmente alla sfera della persona sono riconducibili alla preesistente tradizione delle libertà civili originata dalla rivoluzione francese e dalla cultura liberale.

Torniamo dunque ad un passaggio cruciale che attiene alla socialità dell’individuo e consiste nel principio secondo cui è nelle formazioni sociali a cui tutti, donne e uomini hanno parimenti diritto e dovere di essere partecipi senza limitazioni, che si volge la personalità cioè quella condizione che è natura ed essenza umana nonché compiuta realizzazione dell’identità della persona sotto ogni profilo oltre a quello giuridico. La socialità in cui si realizza la personalità è anche la condizione imprescindibile per l’adempimento dei doveri, si badi bene: inderogabili, di solidarietà politica economica e sociale.

Su questi presupposti possiamo chiederci qual è e dove possa collocarsi il punto di equilibrio fra il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi sfera privata o pubblica, e altri diritti in specie quelli collocati fra i fondamentali in quanto attinenti al riconoscimento della persona umana e del suo sviluppo che abbiamo appena ricordati. E per essere più precisi se vi sia, e in tal caso quale sia, il limite posto da quei principi inderogabili, alla manifestazione di una professione di fede religiosa, quando ciò si traduca in forme confliggenti con tali principi. Ma soprattutto quando ricorra e in cosa si concretizzi il conflitto.

Veniamo dunque al caso specifico di quell’abbigliamento femminile indossato per asserita libera scelta motivata da convinzioni religiose e consistente nell’occultamento del volto.

Questo specifico tipo di abbigliamento sia per il suo significato simbolico che per la forma concreta che assume si contrappone in modo inconciliabile ai principi e valori che il nostro ordinamento costituzionale ha posto alla base della realizzazione della persona.

La scelta di nascondere il viso, per quanto dettata da una convinzione religiosa e in quanto tale certamente meritevole di tutela, confligge col superiore principio, e quindi rispetto ad esso deve recedere, secondo cui nelle formazioni sociali si svolge e realizza la personalità umana.

Nella nostra società democratica l’individualità della persona soggetto di diritto non può essere concepita senza che di essa si possa percepire il volto, che ne costituisce un elemento fondamentale. La circolazione nella sfera pubblica, che riguarda la collettività, di persone nelle quali il fondamentale elemento dell’individualità della persona, cioè il volto, non appare, rende impossibile lo stabilimento di quei rapporti umani indispensabili alla vita in società, e ciò non costituisce una mera opzione ma realizza una condizione imprescindibile di realizzazione della personalità, cosa che, come abbiamo visto, il nostro ordinamento colloca fra i propri princìpi fondamentali. Va poi da sé che la negazione della individualità della persona nella sfera pubblica rappresenta il distillato di una condizione che necessariamente si estende ad ogni altra formazione, caratterizzata da socialità, proprio dove invece la personalità dovrebbe svolgersi.

L’occultamento del viso nei luoghi pubblici non costituisce dunque, solamente, ostentazione di una simbologia in sé apparentemente neutra e comunque ascrivibile alla sola sfera della soggettività, ma esprime una negazione del sé agli altri ancor più grave in quanto tale negazione ha una precisa identificazione differenziante fra persone su una base di genere.

Poco rileva poi, ai nostri fini, se ciò sia il prodotto di una esterna coartazione o della spontanea adesione ad un dettato religioso o culturale anche se, oggettivamente, l’indossare un indumento che occulti interamente, o quasi interamente, il volto, costituisce precetto rivolto al genere femminile e quindi priva esclusivamente la donna di un elemento fondamentale indispensabile alle sue relazioni sociali.

Se dunque il pluralismo e la democrazia implicano la libertà di manifestare le proprie convinzioni, segnatamente attraverso l’esibizione di simboli religiosi, la Repubblica deve sorvegliare le condizioni all’interno delle quali questi simboli sono portati e le conseguenze che il portarli può avere.

La copertura del viso, pur giustificata da motivazioni religiose che sono state, fra l’altro, ritenute sufficienti nella nostra giurisprudenza ad evitarne la censura sotto i profili specifici della sicurezza e dell’ordine pubblico (cfr.Consiglio di Stato, Sezione VI, Sentenza n. 3076 del 19 giugno 2008), confligge invece irriducibilmente coi principi e i valori che abbiamo ricordato e che sono posti alla base della nostra Costituzione e del nostro vivere civile.

L’ostensione del viso nei luoghi pubblici costituendo infatti una condizione fondamentale legata all’essenza e alla realizzazione della personalità risponde a un bisogno imperativo nella nostra società democratica e ciò costituisce ampio e giustificato fondamento, non solo del diritto, ma del dovere della Repubblica di vietare, in tali luoghi, l’uso di indumenti che per ragioni culturali, religiose e rituali occultino il volto.

Daniele Perotti.

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