06/02/2019 – La normativa nazionale in materia di centrali di committenza degli enti locali al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea

La normativa nazionale in materia di centrali di committenza degli enti locali al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea

di FRANCESCO DEODATO

   

 

NOTA A CONSIGLIO DI STATO – SESTA QUINTA

ORDINANZA 3 gennaio 2019 n. 68

A cura di Francesco Deodato

La normativa nazionale in materia di centrali di committenza degli enti locali al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

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  1. Abstract

L’adozione delle direttive europee del 2014 in tema di contratti pubblici ha confermato l’interesse ed il favor del legislatore sovranazionale per la centralizzazione della committenza. A ben vedere, se con le direttive del 2004 (il cui contenuto è stato recepito con il d.lgs. n. 163/2006) era stato introdotto, sulla scorta delle positive esperienze di alcuni Stati, questo metodo di approvvigionamento di beni e servizi per le amministrazioni, le direttive del 2014 hanno imposto una disciplina più articolata in materia di centrali di committenza. La tecnica di gestione delle commesse pubbliche in esame era ed è finalizzata all’aumento della concorrenza e dovrebbe, peraltro, condurre alla professionalizzazione della committenza (cfr. considerando n. 69 direttiva 2014/24/UE).

Per tale ragione, una disciplina nazionale che limitasse, sotto il profilo qualitativo o quantitativo, la possibilità di sfruttamento dell’azione pro-concorrenziale generata dalle centrali di committenza si porrebbe in contrasto con la disciplina europea. Da questo assunto muove il Consiglio di Stato, nell’ordinanza in commento, per motivare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, avente ad oggetto la normativa di cui all’art. 33 comma 3 bis del d.lgs. n. 163/2006 in materia di centrali di committenza degli enti locali di ridotte dimensioni. La pronuncia della Corte sovranazionale, seppur indirizzata ad una normativa ormai superata dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, rappresenterà l’occasione per verificare se sussistono le condizioni, anche nel regime normativo vigente, per diversificare le forme di centralizzazione della committenza in ragione delle dimensioni dell’amministrazione che vi si rivolge.  

  1. Il Fatto, il giudizio di primo grado ed i motivi di appello

La vicenda sottoposta all’esame del Consiglio di Stato concerne un provvedimento con il quale l’ANAC ha inibito lo svolgimento di attività di intermediazione negli acquisti e dichiarato sostanzialmente illegittime le procedure indette dalla società consortile Alfa, in qualità di centrale di committenza di enti locali.

Al fine di comprendere i passaggi motivazionali espressi nel provvedimento censurato dinanzi al Giudice Amministrativo, è necessario premettere che l’assetto proprietario della società consortile Alfa è così composto:

  • il 24% delle quote sociali sono possedute dal Consorzio Beta, costituito, a sua volta, da imprese private e che, con il tempo, ha raccolto adesioni da parte di Comuni di Regioni diverse;
  • il 25% delle quote sociali sono possedute dall’associazione non riconosciuta Gamma, costituita da enti operanti sui territori di differenti Regioni;
  • il 51% delle quote sociali, infine, sono possedute dal Comune Delta.

Secondo il provvedimento contestato, vi sarebbero delle incompatibilità tra il sistema delineato dal legislatore con il d.lgs. n. 163 del 2006 (ratione temporis applicabile) e quello realizzato dalla società consortile Alfa.

Per un verso, infatti, l’ANAC evidenzia che gli enti locali coinvolti non avrebbero aderito alla società consortile Alfa, ma all’associazione Gamma e, solo in seguito, avrebbero affidato ad Alfa le funzioni di acquisto senza, peraltro, incontrare alcuna limitazione territoriale. Da ciò sarebbe conseguita l’elusione del disposto di cui all’art. 33 comma 3 bis del d.lgs. n. 163 del 2006 che impone, ai fini della centralizzazione della committenza da parte dei Comuni, l’affidamento delle relative funzioni a forme associative tra gli stessi (unione di Comuni o consorzi di Comuni sorti a seguito di accordi di cui all’art. 30 del TUEL), ad enti pubblici o, al più, ad enti privati in house con attività limitata al territorio dei Comuni fondatori.

Per altro verso, l’ANAC ha escluso la natura di organismo di diritto pubblico in capo alla società consortile Alfa, in quanto non istituita “per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale”, ma solo quelle degli enti locali aderenti. Oltre a ciò, viene affermata l’insussistenza della esternalizzazione diretta delle funzioni, imprescindibile ai fini della configurazione di un organismo di diritto pubblico, a causa della propedeutica adesione all’associazione Gamma da parte degli enti interessati.

In adesione alla tesi dell’amministrazione resistente, il TAR per il Lazio, investito della questione, ha respinto il ricorso proposto dalla società consortile Alfa, con sentenza n. 2339 del 2016.

Secondo il Giudice Amministrativo di primo grado la società consortile non potrebbe essere qualificata in termini di organismo di diritto pubblico in quanto difetta del requisito dell’influenza pubblica dominante[1]: da ciò, pertanto, deriverebbe l’impossibilità di considerare Alfa una centrale di committenza[2].

A ciò viene aggiunto che il modello realizzato dalla società in funzione di centralizzazione degli acquisti, esulerebbe dai paradigmi previsti tassativamente dal legislatore nell’art. 33 comma 3 bisd.lgs. n. 163 del 2006[3]: al riguardo, infatti, non soltanto è presente un soggetto privato (Gamma) nella compagine consortile, ma l’accordo consortile coinvolge solo indirettamente gli enti comunali, i quali sono obbligati ad aderire preventivamente all’associazione.

Il TAR, infine, evidenzia che la società consortile abbia illegittimamente esteso la propria attività oltre i confini territoriali degli enti partecipanti, così come imposti dal legislatore nel citato art. 33 comma 3 bis.

Avverso la sentenza del giudice di primo grado, la Alfa propone appello, affidandolo a cinque motivi. Tuttavia, ai fini della decisione, il Consiglio di Stato ritiene dirimenti soltanto gli ultimi due motivi di gravame che ineriscono, in particolare, alla errata interpretazione dell’art. 33 comma 3 bis del d.lgs. n. 163 del 2006.

Secondo la tesi esposta dalla impresa appellante, la norma richiamata non limita al modello previsto dall’art. 30 TUEL la forma dell’accordo consortile tra i Comuni, diretto allo svolgimento dell’attività di centralizzazione di committenza. In virtù della generale capacità di diritto privato riconosciuta agli enti pubblici, infatti, questi potrebbero validamente concludere anche contratti di diritto privato diretti alla realizzazione di un consorzio, in vista dell’esecuzione della centralizzazione degli acquisti.   

Inoltre, dal testo dell’art. 33 non emergerebbe alcun limite territoriale di operatività per le centrali di committenza cui fanno ricorso i Comuni.

  1. Le motivazioni della decisione del Consiglio di Stato. I dubbi di compatibilità euro-unitaria della normativa nazionale

Il Consiglio di Stato all’esito dell’analisi della vicenda contenziosa, ritiene sussistenti alcuni dubbi di compatibilità euro-unitaria della normativa interna con i principi desumibili dalle norme e dalla giurisprudenza sovranazionale, rimettendo la questione dinanzi alla Corte di Giustizia.

A tal riguardo, viene effettuata preliminarmente una ricognizione della normativa nazionale applicabile ratione temporis alla fattispecie e concernente la centralizzazione della committenza.

Il d.lgs. n. 163 del 2016 qualificava le centrali di committenza come le amministrazioni aggiudicatrici dirette ad acquistare forniture o servizi destinati ad altre amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, o ad aggiudicare appalti pubblici o concludere accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori[4].

A sua volta, il comma 25 dell’art. 3 del d.lgs. n. 163 del 2006 individuava, tra i possibili soggetti, qualificabili come amministrazioni aggiudicatrici, “le amministrazioni dello Stato; gli enti pubblici territoriali; gli altri enti pubblici non economici; gli organismi di diritto pubblico; le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti”.

A questo sistema di centralizzazione delle committenze, qualificabile come “generale”, veniva affiancato un “microsistema” riferibile ai Comuni di ridotte dimensioni.

Per essi, l’art. 33 comma 3 bis (nella versione successiva alle modifiche introdotte con il d.l. n. 66 del 2014[5]) prevedeva “I Comuni non capoluogo di provincia procedono all’acquisizione di lavori, beni e servizi nell’ambito delle unioni dei comuni di cui all’articolo 32 del decreto legislativo 15 agosto 2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56. In alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore di riferimento”.

Secondo il Collegio giudicante, pertanto, nell’assetto delineato dall’abrogato Codice, i due sistemi di centralizzazione delle committenze sono (erano) strutturalmente molto diversi. Tuttavia, tale differenza non risulterebbe coerente né ispirata ai principi di matrice europea.

In primo luogo, è stata rilevata la differenza quantitativa in termini di modelli utilizzabili dai Comuni più piccoli. Questi ultimi, a differenza delle altre amministrazioni aggiudicatrici, avrebbero la possibilità di ricorrere a soli due modelli organizzativi e cioè, l’unione di Comuni ex art. 32 d.lgs. n. 267 del 2000[6] o un apposito accordo consortile tra i medesimi enti.

La differenza, peraltro, sarebbe evidente anche sotto un profilo qualitativo, in quanto il modello consortile avrebbe potuto realizzarsi soltanto con unioni di Comuni o consorzi “tra i comuni medesimi”. In altri termini, nel modello organizzativo imposto dal legislatore per i Comuni di ridotte dimensioni, non ci sarebbe alcun margine per la partecipazione di soggetti privati, a differenza di quanto consentito per le restanti amministrazioni aggiudicatrici.

Infine, secondo i Giudici di Palazzo Spada, il tenore letterale della disposizione in esame limiterebbe ingiustificatamente l’ambito territoriale di operatività delle centrali di committenza poiché circoscriverebbe l’azione delle stesse al territorio dei Comuni compresi nell’unione dei Comuni o costituenti il consorzio.

I dubbi di compatibilità della normativa nazionale appena esposta con l’ordinamento euro-unitario sorgono in virtù dell’apparente contrasto tra le limitazioni imposte dalla prima alla centralizzazione della committenza di livello comunale e il favor per l’aggregazione della domanda desumibile dal secondo.

In particolare, già nella direttiva 2004/18/CE era rilevato che le tecniche di centralizzazione della committenza consentono “un aumento della concorrenza e dell’efficacia della commessa pubblica[7]. Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha evidenziato che l’ordinamento europeo non tollera limitazioni soggettive in materia di centralizzazione della committenza, che siano idonee a ledere i principi di parità di trattamento tra operatori economici prestatori di servizi[8].

In effetti, se, da un lato, la nozione desumibile dall’ordinamento europeo di “impresa” coincide con “qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle modalità di finanziamento[9], e, dall’altro lato, l’“attività economica” è “qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato[10], può dedursi che una centrale di committenza è, per il diritto europeo, un’impresa che offre il servizio dell’acquisto di beni e servizi a favore delle amministrazioni aggiudicatrici.

A ciò viene aggiunto che il TFUE, all’art. 57, vieta ogni tipo di restrizione alla libera prestazione di servizi all’interno dell’UE poiché l’ordinamento europeo è ontologicamente diretto ad agevolare e tutelare la concorrenza[11].

  1. Le conclusioni del Consiglio di Stato e la questione pregiudiziale rivolta alla CGUE

Secondo il Consiglio di Stato, il contrasto con i principi euro-unitari si sostanzierebbe nella impossibilità per i Comuni di fare ricorso alle centrali di committenza, senza limitazioni nelle forme di cooperazione adoperabili. Peraltro, le opzioni che la normativa interna offre ai Comuni di piccole dimensioni, non ammettono in alcun modo il coinvolgimento di soggetti privati, in violazione con i principi di massima concorrenza e libera circolazione dei servizi, come coniugati dalla giurisprudenza sovranazionale sopra citata. Infine, le centrali di committenza create tramite consorzi o unioni di Comuni non avrebbero un’efficacia paragonabile a quelle “ordinarie”, stante il ristretto ambito territoriale entro il quale sarebbero costrette ad operare, ledendo, di fatto, il principio di libera circolazione dei servizi.

Date queste premesse, il Consiglio di Stato chiede alla Corte di Giustizia dell’UE di pronunciarsi sulle seguenti questioni pregiudiziali:

se osta al diritto comunitario, una norma nazionale, come l’art. 33, comma 3-bis, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 che limita l’autonomia dei comuni nell’affidamento ad una centrale di committenza a due soli modelli organizzativi quali l’unione dei comuni se già esistente ovvero il consorzio tra comuni da costituire”.

e, in ogni caso “se osta al diritto comunitario, e, in particolare, ai principi di libera circolazione dei servizi e di massima apertura della concorrenza nell’ambito degli appalti pubblici di servizi, una norma nazionale come l’art. 33, comma 3bis, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 che, letto in combinato disposto con l’art. 3, comma 25, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in relazione al modello organizzativo dei consorzi di comuni, esclude la possibilità di costituire figure di diritto privato quali, ad es, il consorzio di diritto comune con la partecipazione anche di soggetti privati

e, infine, “se osta al diritto comunitario e, in particolare, ai principi di libera circolazione dei servizi e di massima apertura della concorrenza nell’ambito degli appalti pubblici di servizi, una norma nazionale, come l’art. 33, comma 3bis, che, ove interpretato nel senso di consentire ai consorzi di comuni che siano centrali di committenza di operare in un territorio corrispondente a quello dei comuni aderenti unitariamente considerato, e, dunque, al massimo, all’ambito provinciale, limita l’ambito di operatività delle predette centrali di committenza”.

 

 

 

[1] Secondo il TAR l’influenza pubblica dominante non sussiste né sotto il profilo delle modalità di finanziamento – in quanto gli oneri relativi alle commesse pubbliche sono posti a carico delle imprese aggiudicatarie – né sotto il profilo del controllo sulla gestione – poiché i numerosi piccoli Comuni aderenti al sistema configurato dalla società consortile non avrebbero alcun effettivo potere incidente sulla vita associativa -.

[2] In effetti, nel d.lgs. n. 163/2006 la centrale di committenza era specificamente definita come “un’amministrazione aggiudicatrice che: acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, 

o – aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori” (art. 3 comma 34). A sua volta, tra le amministrazioni aggiudicatrici erano annoverati anche gli organismi di diritto pubblico (art. 3 comma 26). L’impossibilità di considerare Alfa un organismo di diritto pubblico ha escluso, conseguentemente, anche che la medesima società potesse rientrare nel novero delle centrali di committenza.   

[3] Ai fini della vicenda qui di interesse, viene in rilievo l’art. 33 comma 3 bis nella versione introdotta dal d.l. n. 201 del 2011, secondo il quale “I Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano obbligatoriamente ad un’unica centrale di committenza l’acquisizione di lavori, servizi e forniture nell’ambito delle unioni dei comuni, di cui all’articolo 32 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n.  267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici”.

Tale disposizione è stata successivamente modificata ad opera del d.l. n. 66 del 2014 secondo cui “I Comuni non capoluogo  di provincia procedono all’acquisizione di lavori, beni e servizi nell’ambito delle unioni dei comuni di cui all’articolo 32 del decreto legislativo 15 agosto 2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56. In alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A.o da altro soggetto aggregatore di riferimento”.

[4] Cfr. art. 3 comma 34 d.lgs. n. 163 del 2006, sub nota 2.

[5] Per la versione precedente le modifiche, cfr sub nota 3.

[6] Art. 32 d.lgs. n. 267 del 2000 “L’unione di comuni è l’ente locale costituito da due o più comuni, di norma contermini, finalizzato all’esercizio associato di funzioni e servizi”.

[7] Cfr. considerando n. 15.

[8] Cfr CGUE sentenza 20 ottobre 2005, in C-246/03 Commissione delle Comunità europee c. Repubblica Francese.

[9] Cfr. CGUE, sentenza 12 dicembre 2013 nella causa C-372-12 Ministero dello sviluppo economico sull’attività delle SOA; sentenza 6 settembre 2011 nella causa C-108/10 Scattolon, e sin da Corte di Giustizia delle Comunità europee, 23 aprile 1991, nella causa C-41/90 Klaus Hofner e Elsen.

[10] Cfr. CGCE, sentenza 25 ottobre 2001, nella causa C-475/99 Ambulanz Glöckner.

[11] Cfr. CGUE, sentenza 28 gennaio 2016, nella causa C-50/14 Consorzio artigiano servizi taxi ed autonoleggio (CASTA); 11 dicembre 2014, nella causa C-113/13 Asl n. 5 “Spezzino”.

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