Più test piscoattitudinali per tutti

 

“(a1) Ordinamento giudiziario: le modifiche più urgenti investono:
o la responsabilità civile (per colpa) dei magistrati;
o il divieto di nomina sulla stampa i magistrati comunque investiti di procedimenti giudiziari;
o la normativa per l’accesso in carriera (esami psicoattitudinali preliminari);
o la modifica delle norme in tema di facoltà libertà provvisoria in presenza dei reati di eversione – anche tentata – nei confronti dello Stato e della Costituzione, nonchè di violazione delle norme sull’ordine pubblico, di rapina a mano armata, di sequestro di persona e di violenza in generale

occorrerebbe chiedersi esattamente quali siano i risvolti dell’introduzione di questa previsione normativa, anche alla luce delle polemiche in corso.

Il procuratore di Napoli, Gratteri, ad esempio, per contestare la decisione che pare stia assumendo il Governo, più che entrare nel merito, punta all’estensione diel campo di applicazione dei test. Il PM ha affermato: “Se vogliamo farli, i test psicoattitudinali dovrebbero essere fatti sui magistrati ma anche per tutti i settori apicali della pubblica amministrazione, per chi ha responsabilità di governo e per chi si occupa della gestione della cosa pubblica. Dato che ci troviamo dovremmo fare anche narcotest e alcool test, poiché chi è sotto l’effetto di droghe e alcool può fare ragionamenti alterati e può essere sotto ricatto”.

E’ un ragionamento poco condivisibile. Nella sostanza, si contesta l’idea del test, ma ci si rifugia nel “mal comune, mezzo gaudio”, auspicando che essi siano erogati non solo nell’ambito dei concorsi per l’accesso alla magistratura, per qualsiasi altro reclutamento nei ruoli apicali.

In tal modo, si svia l’analisi degli effettivi problemi che pone un reclutamento basato sui test e per altro verso ci si affida ad elementi di approfondimento lacunosi ed erronei.

Infatti, a molti, non solo al PM, sfugge che le recenti riforme puntanto tutte proprio ad estendere quanto possibile l’elemento della valutazione, a parole più “attitudinale” che “pisco”, proprio per gli incarichi apicali nella PA. Basti pensare alle linee guida proposte di recente per il reclutamento della dirigenza pubblica.

Certo, non si tratta del test del Minnesota[1], ma gli intenti sembrano analoghi, se non totalmente sovrapponibili.

I veri problemi da affrontare, dunque, non sono se far fare i test “a tutti”, ma capire realmente dove si voglia arrivare.

Bisognerebbe porsi, allora, alcune domande. Per esempio:

  • quando fare i test? Una volta sola, al momento del reclutamento? E se nel percorso di vita e lavorativo emergano situazioni tali da modificare radicalmente gli esiti a suo tempo emersi al moment dei concorsi? E, se si scegliesse, di ripeterli nel tempo, ogni quanto andrebbero effettuati? E vi sarebbero test per evidenziare la necessità di fare i “richiami” prima del tempo?;
  • se i test sono finalizzati a rilevare l’equilibrio della persona, al di là dei test finalizzati ai concorsi e alla valutazione periodica, andrebbero erogati prima di emettere ogni sentenza o di adottare qualsiasi provvedimento?
  • come si sceglie il super esperto terzo e disinteressato, chiamato ad erogare e valutare i test?
  • come si garantisce che soggetti privi di qualsiasi idea di merito sullo svolgimento delle funzioni di un magistrato o di un dirigente apicale possa realmente elaborare test che “funzionino”?
  • chi può garantire che il super esperto di turno non sia personalmente aderente ad un certo orientamento politico e non si esprima, sulla valutazione, in applicazioni delle indicazioni di partito?

Il problema della terzietà e dell’equilibrio del valutatore sembra insormontabile. Infatti, appare logico chiedere che chi eroga test di questa natura, a sua volta dovrebbe sottoporsi ad anaologhi test, in un loop infinito.

Ma, altri problemi da analizzare attentamente si porrebbero. La diffusione dei test e l’oggettiva eventualità che essi “invecchino” e non siano più, ad un certo punto, rispondenti al profilo della persona, cangiante nel tempo inevitabilmente, potrebbe indurre i cittadioni a ricusare quel magistrato o quel dirigente apicale il cui test risulti obsoleto o a proporre ricorsi e gravami per ragioni di merito, connesse al “poco equilibrio” denotato dalla decisione, sulla base della valutazione di un “super sperto” di parte, pronto a valutare il profilo psicoattitudinale del magistrato e dell’apicale in base a quel che scrive o ad elementi nascenti dalla vita professionale e privata.

Pensiamo al caso della giudice che ha disapplicato, per prima (ma, poi, seguita da tantissimi altri magistrati) il “decreto Cutro”. Sono note le polemiche connesse alla circostanza che anni prima, l’interessata avesse partecipato ad una manifestazione pubblica ove si contestavano i provvedimenti normativi relativi all’immigrazione e già questo fu sufficiente per scatenare dibattiti infiniti sul conflitto di interessi, la mancanza di obiettività ed equilibrio. Proiettando tutto ciò in un regime normativo che preveda i test, la temperatura della polemica sarebbe salita alle stelle ed il reclutamento di “super esperti” pronti a trarre dalle vicende una profilazione di non adeguatezza non sarebbe serto mancato.

Allora, la domanda da porsi è: siamo veramente quel Paese che voglia mettersi sostanzialmente nelle mani dei “suoper esperti” della valutazione, di “santoni” chiamati a dire l’ultima parola sull’attitudine di chi sia chiamato a svolgere la funzione giurisdizionale e quella tecnico-amministrativa?

Perché è chiaro che con la diffusione trasversale di questi test, sarà il “super esperto” ad assumere davvero il ruolo di “santone”, voce ultima che decide chi possa accedere o restare nella PA e ad accendere o spegnere le micce delle polemiche su ogni decisione adottata da magistrati e dirigenti, ogni volta che non corrisponda al desiderio della singola forza di maggioranza di volta in volta al potere.

Non che anche la valutazione delle attitudini non sia importante. Ma, dovrebbe essere connessa a sistemi di valutazione della quantità e qualità del lavoro svolto. L’attuale eccessiva propensione alla valutazione di “comportamenti”, piuttosto che alla capacità effettiva di svolgere le funzioni ed i compiti, rischia sempre più di trasformare la valutazione in un sistema orwelliano, nel quale sono impressioni, amicizie, condivisioni o supposti pregiudizi, inimicizie e tendenze all’autonomia, a decidere chi possa lavorare nella PA. Mentre l’articolo 98, comma 1, della Costituzione (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”) resta a guardare.

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