29/01/2019 – Proroga del contratto di dottorato: il dipendente comunale non ha diritto all’aspettativa

Proroga del contratto di dottorato: il dipendente comunale non ha diritto all’aspettativa

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 432, del 10 gennaio 2018, nell’accogliere il ricorso del Comune ha affermato che il dipendente pubblico nell’ipotesi in cui utilizza il congedo straordinario per borsa di studio universitaria gode dei benefici previsti dalla legge nel periodo di durata regolare del corso: tale beneficio, tuttavia , non vale per la proroga anche se stabilita dall’ateneo.

Il contenzioso

La Corte di Appello aveva parzialmente riformato la sentenza del Tribunale che aveva annullato la sanzione disciplinare inflitta dal Comune, rigettando per il resto il ricorso. In accoglimento dell’appello principale la Corte territoriale ha ritenuto fondate tutte le domande proposte nei confronti dell’amministrazione municipale e ha condannato il Comune:

– a riconoscere i benefici previsti dall’art. 2L. n. 476 del 1984, anche in relazione all’anno di proroga del dottorato di ricerca;

– al pagamento delle retribuzioni non corrisposte da settembre 2009 a gennaio 2010;

– al riconoscimento a fini economici, giuridici e previdenziali dell’intero anno 2009;

– alla restituzione degli importi che il Comune aveva decurtato dal trattamento stipendiale, sul presupposto che non fossero dovute le retribuzioni corrisposte da gennaio ad agosto 2009.

Il giudice della Corte territoriale ha evidenziato che il dipendente comunale ammesso a frequentare un dottorato di ricerca, per il quale non era prevista borsa di studio, aveva chiesto all’ente datore di lavoro l’aspettativa retribuita ai sensi dell’art. 2L. n. 476 del 1984; la domanda era stata accolta ed era stato precisato che l’aspettativa doveva ritenersi riferita a “tutto il periodo del dottorato”.

La Corte territoriale ha evidenziato che la disciplina normativa prevede la conservazione del trattamento economico, previdenziale e di quiescenza per l’intero periodo di durata del corso, che nella specie doveva essere ritenuto quadriennale e non triennale, in quanto, da un lato, la possibilità della proroga era contemplata fin dall’origine dal regolamento dell’ateneo, dall’altro l’aspettativa era stata riconosciuta fino al conseguimento del dottorato. Pertanto doveva ritenersi illegittima la condotta dell’amministrazione comunale la quale aveva escluso che per l’anno di proroga potessero essere riconosciuti i benefici previsti dalla legge ed aveva anche sanzionato il dipendente, ritenendo ingiustificata l’assenza protrattasi dal 1° gennaio, al 7 giugno 2009.

Avverso la sentenza sfavorevole il Comune è ricorso in Cassazione.

Le motivazioni del ricorso dell’ente locale

L’ente locale ha predisposto una serie articolata di motivazioni nel ricorso in Cassazione; con riferimento alla parte che interessa il presente commento il Comune contesta la violazione e falsa applicazione di alcune norme di legge (art. 2L. n. 476 del 1984, come integrato dall’art. 52L. n. 448 del 2001, dell’art. 6, comma 7, L. n. 398 del 1989, dell’art. 12 del CCNL 14 settembre 2000 per i dipendenti del comparto regioni e autonomie locali). Ricostruito il quadro normativo e richiamata la circolare n. 15 del 2011, MIUR, il Comune sostiene, in sintesi, che la possibilità di concedere un anno di proroga non modifica la durata del corso di dottorato, che resta quella prevista dal regolamento di Ateneo, sicché il dipendente può legittimamente chiedere l’aspettativa retribuita solo per il periodo ordinario, al pari del borsista che può godere della proroga, ma non ha titolo a pretendere anche l’erogazione della borsa di studio. Correttamente, pertanto, decorso il triennio, si è ritenuto applicabile il diverso istituto dell’aspettativa non retribuita per motivi di studio, disciplinata dall’art. 11, del CCNL 14 settembre 2000, posto che la legge non consentiva la protrazione del beneficio e l’originaria autorizzazione si riferiva anch’essa alla sola durata legale del corso e non alla proroga che, a quella data, non era stata concessa né era stata manifestata in alcun modo dal dipendente la volontà di utilizzarla.

L’analisi della Cassazione

I giudici di legittimità hanno escluso che il dipendente pubblico, ammesso a un corso di dottorato senza borsa di studio, possa pretendere, ex art. 2L. n. 476 del 1984, come modificato dall’art. 1 comma 57, L. n. 448 del 2001, di conservare il trattamento economico, previdenziale e di quiescenza anche per il periodo di proroga del dottorato ed ha evidenziato che “l’applicazione del canone esegetico del tenore testuale della disposizione (art. 12 preleggi c.c.) consente di ritenere spettante il trattamento economico solo “per il periodo di durata del corso”.

La Corte di Cassazione ha aggiunto che “la chiara intenzione perseguita dal legislatore è quella del bilanciamento tra diritto di studio del dipendente e interesse dell’Amministrazione (che eroga la retribuzione pur non fruendo della prestazione lavorativa) che trova un corretto contemperamento nella prevista prevedibilità (in base ai diversi ordinamenti universitari) della durata dell’assenza del dipendente stesso, a prescindere dalla ricorrenza di sue specifiche esigenze personali” (cfr. Cass. civ. 3 maggio 2017, n. 10695).

La Corte di Cassazione, in riferimento a tale orientamento giurisprudenziale, intende dare continuità, perché la diversa soluzione prospettata dalla Corte territoriale muove da una ricostruzione e da un’esegesi non corretta del quadro normativo.

L’art. 2 , L. n. 476 del 1984, nel testo originario, si limitava a prevedere che “Il pubblico dipendente ammesso ai corsi di dottorato di ricerca è collocato a domanda in congedo straordinario per motivi di studio senza assegni per il periodo di durata del corso ed usufruisce della borsa di studio ove ricorrano le condizioni richieste.

Il periodo di congedo straordinario è utile ai fini della progressione di carriera, del trattamento di quiescenza e di previdenza.”.

La norma è stata modificata dall’art. 52, comma 57, L. n. 448 del 2001 che ha inserito, nel comma 1 del citato art. 2, due nuovi periodi, prevedendo che “In caso di ammissione a corsi di dottorato di ricerca senza borsa di studio, o di rinuncia a questa, l’interessato in aspettativa conserva il trattamento economico, previdenziale e di quiescenza in godimento da parte dell’amministrazione pubblica presso la quale è instaurato il rapporto di lavoro. Qualora, dopo il conseguimento del dottorato di ricerca, il rapporto di lavoro con l’amministrazione pubblica cessi per volontà del dipendente nei due anni successivi, è dovuta la ripetizione degli importi corrisposti ai sensi del secondo periodo”.

Sulla disposizione il legislatore è nuovamente intervenuto con la L. n. 240 del 2010art. 19, comma 3, che ha inserito al primo periodo, dopo le parole «è collocato a domanda» l’inciso «compatibilmente con le esigenze dell’amministrazione».

Solo a partire dal 2 gennaio 2011, data di entrata in vigore della L. n. 240 del 2010, è stato consentito alle amministrazioni di valutare la domanda di congedo inoltrata dal dipendente ammesso alla frequenza di corsi di dottorato ed eventualmente di respingerla, valorizzando le esigenze organizzative proprie dell’ente. Prima di detta data, invece, la norma attribuiva al dipendente un diritto soggettivo alla fruizione del congedo, sicché la Pubblica Amministrazione non poteva che prendere atto della richiesta, essendo tenuta per legge ad assicurare il trattamento economico, giuridico e previdenziale che il legislatore aveva inteso riconoscere al soggetto ammesso alla frequenza di corsi di dottorato.

La modifica normativa non è applicabile alla fattispecie, nella quale pacificamente la domanda è stata inoltrata nell’anno 2006, sicché la Corte territoriale ha errato , secondo la Cassazione, nell’affermare che l’amministrazione avrebbe potuto respingere la richiesta e che, non avendolo fatto, aveva acconsentito a riconoscere il trattamento economico per l’intero periodo del corso, ivi compreso l’anno di proroga, previsto dal regolamento di ateneo.

Per i giudici di legittimità altrettanta errata è la pronuncia nella parte in cui, per estendere l’obbligo retributivo anche all’anno di proroga, valorizza la previsione regolamentare senza interrogarsi sul significato da attribuire alla norma di legge, assolutamente chiara nel limitare il diritto alla «durata del corso» e nel porre una stretta correlazione fra il beneficio in parola ed il godimento della borsa di studio, rispetto al quale lo stesso è configurato come alternativo.

Detta correlazione, invece, è stata valorizzata dalla Cassazione la quale ha evidenziato che la modifica attuata con la L. n. 448 del 2001“assume il significato di porre rimedio alla disparità di trattamento creata tra i dipendenti pubblici che godono della borsa di studio e quelli che, a seguito dell’emanazione del D.M. n. 224 del 1999 non ne usufruivano” (Cass. civ. n. 10127 del 2014).

Il decreto ministeriale in parola, di natura regolamentare, da un lato prevede, all’art. 6, intitolato “durata dei corsi e conseguimento del titolo”, che “per comprovati motivi che non consentano la presentazione della tesi nei tempi previsti, il rettore, su proposta del collegio dei docenti, può ammettere il candidato all’esame finale in deroga ai termini fissati»; dall’altro stabilisce, all’art. 7, che «la durata dell’erogazione della borsa di studio è pari all’intera durata del corso”.

La proroga, pertanto, che ha carattere individuale e riguarda il termine entro il quale deve essere sostenuto l’esame finale, non incide sulla durata legale del corso, che resta quella originariamente fissata, né dà titolo a pretendere la borsa di studio, che, anche in considerazione delle modalità di formazione dei fondi sui quali la stessa grava, è necessariamente ancorata alla durata curriculare e non può risentire di proroghe individualmente concesse.

E’ evidente, allora, che al dipendente che non fruisca della borsa di studio non può essere riconosciuto un diritto negato al borsista, perché, ove si aderisse alla tesi fatta propria dalla Corte territoriale, si finirebbe per andare oltre le finalità che avevano ispirato l’intervento del 2001 e per alterare quel bilanciamento di opposti interessi sul quale la normativa si fonda, già posto in rilievo dalla richiamata sentenza n. 10695 del 2017.

Le conclusioni

La Corte accoglie i motivi di ricorso dell’ente locale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello , in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Cass. civ., Sez. Lavoro, 10 gennaio 2019, n. 432

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