Anzianità, una questione irrisolta

tratto da leautonomie.it – a cura di Luigi Oliveri – 

Torniamo sul tema dell’anzianità di servizio nelle progressioni orizzontali (ma anche verticali), per rilevare come nonostante l’ordinamento l’abbia abolita nel lavoro pubblico (scelta sciagurata e fonte delle mille contenziosi connessi alle progressioni stesse), ancora nell’ordinamento manchi tale consapevolezza.

Di certo, le amministrazioni e gli stessi dipendenti non hanno per nulla chiaro che se un istituto giuridico è cancellato dall’ordinamento, non c’è alcuna legittimazione nel continuare a riproporlo. Lo zenith dell’eliminazione dell’anzianità si ebbe con l’articolo 72, comma 2, del d.lgs 29/1993: “Contestualmente alla sottoscrizione dei primi contratti collettivi stipulati ai sensi del titolo III, sono abrogate le disposizioni che prevedono automatismi che influenzano il trattamento economico, nonché le disposizioni che prevedono trattamenti economici accessori comunque denominati a favore di dipendenti pubblici. I contratti collettivi fanno comunque salvi i trattamenti economici fondamentali ed accessori in godimento aventi natura retributiva ordinaria o corrisposti con carattere di generalità per ciascuna amministrazione o ente”.

Invece, si insiste e persiste a considerare il criterio dell’esperienza, citato ai fini delle progressioni orizzontali, come sinonimo di anzianità o, comunque, pur nella consapevolezza della distinzione profonda tra esperienza ed anzianità, in ogni caso si fa in modo di considerare la prima comunque come fosse la seconda, per quanto con altro nome.

Questo equivoco modo di intendere la questione, viziato soprattutto dalla mancata debita considerazione dell’articolo 72, comma 2, del d.lgs 165/2001, si riscontra anche tra i giudici del lavoro e perfino in Cassazione, ove si reperiscono pronunce in evidente contrasto tra esse.

Con l’ordinanza della Sezione Lavoro 12.2.2024, n. 3855, la Cassazione mostra di essere ben consapevole che esperienza ed anzianità sono concetti assai diversi. L’ordinanza è frutto, ovviamente, dell’ennesimo tra gli innumerevoli contenziosi in materia di progressioni orizzontali e la Sezione mostra di condividere quanto deciso dalla Corte di appello proprio rispetto alla definizione dell’anzianità: “La Corte d’Appello ha poi richiamato gli artt. 12 e 13 del CCNL per rilevare che la progressione economica all’interno dell’area non dipende soltanto dall’anzianità di servizio, dovendosi premiare il personale meritevole anche in base al livello di esperienza maturato, ai titoli culturali o professionali, agli specifici percorsi formativi e di apprendimento con valutazione finale dell’arricchimento professionale. L’osservazione è corretta (v. Cass. n. 26274/2021)”. In effetti, nella pronuncia richiamata, gli ermellini hanno affermato in modo ancor più netto: “i passaggi ai livelli economici successivi avvengono sulla base di criteri oggettivi di selezione, che tengano in considerazione il livello di esperienza maturato, i titoli posseduti e gli specifici percorsi formativi e di apprendimento professionale, così da evitare che il criterio legittimante l’accesso ai livelli di sviluppo economico e come tale destinato a riflettere un più elevato livello qualitativo del lavoro sia dato soltanto dal tempo di permanenza nelle singole posizioni”.

A ben vedere, nella contrattazione collettiva il trascorrere del tempo ha un solo effetto: lungi dal costituire il diritto ad uno “scatto” o all’acquisizione della progressione/differenziale stipendiale, segna esclusivamente il “periodo di raffreddamento”, cioè quel tempo minimo necessario che deve intercorrere tra una progressione e un’altra. Il decorso del tempo, piaccia o non piaccia (e chi scrive ritiene da sempre molto meno defatigante e conflittuale tornare finalmente allo scatto di anzianità anche nel pubblico) non assicura la maggiore qualità nello svolgimento del lavoro, presupposto delle progressioni orizzontali. Le quali non a caso sono selettive: se non vi fosse la selezione, volta ad accertare chi tra i dipendenti non vincolati al periodo di raffreddamento abbia maggiori qualità per gli aumenti stipendiali, si avrebbe una vera e propria progressione automatica per anzianità appunto, non selettiva e non riservata ad una limitata quota dei dipendenti.

Sempre la Cassazione, tuttavia, nell’ordinanza 19.2.2024, n. 4313 pare in parte non decidere coerentemente con quanto sopra.

La pronuncia giunge al termine di un altro (come ovvio) conflitto scaturito da una procedura di progressione orizzontale, nell’ambito della quale il datore di lavoro pubblico ebbe l’oggettivamente assurda idea di pretermettere una dipendente perché a part time. L’orario a tempo parziale fu la ragione per la quale, racconta l’ordinanza al dipendente “venne attribuito un punteggio ridotto in proporzione al minor numero di ore di lavoro svolte rispetto ai colleghi con pari anzianità, ma impiegati tempo pieno. Ciò fece sì che il suo punteggio finale risultò inferiore a quello del collega controinteressato, attualmente intimato, mentre sarebbe‘ stato superiore qualora l’anzianità di servizio della lavoratrice a tempo parziale fosse stata valutata per intero» senza tenere conto della ridotta presenza oraria sul luogo di lavoro”.

Il dipendente ebbe ragione delle proprie posizioni in sede di Corte di appello e la Cassazione respinge (come ampiamente scontato) il ricorso del datore pubblico, in base ad un’argomentazione tanto semplice quanto ineccepibile: “non può esserci alcun automatismo tra riduzione dell’orario di lavoro e riduzione dell’anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche. Occorre invece verificare se, in base alle circostanze del caso concreto (tipo di mansioni svolte, modalità di svolgimento, ecc.), il rapporto proporzionale tra anzianità riconosciuta e ore di presenza al lavoro abbia un fondamento razionale oppure non rappresenti, piuttosto, una discriminazione in danno del lavoratore a tempo parziale. E onere della prova dei presupposti di fatto che determinano la razionalità, in tale contesto, del riproporzionamento è a carico del datore di lavoro (v., conf.,, Cass. n. 10328/2023)”.

Sebbene, opportunamente, la Cassazione abbia respinto il ricorso del datore pubblico, tuttavia, non prende posizione in maniera chiara contro l’aspetto fondamentale: il riferimento all’anzianità come criterio selettivo.

Talmente il datore pubblico, nel caso di specie, si è dimostrato abbarbicato all’anzianità come elemento fondamentale, si direbbe univoco, ai fini della progressione, da computare non solo il periodo di lavoro alle dipendenze, ma anche contando persino le ore svolte, giungendo alla simmetria secondo la quale la maggiore esperienza corrisponda ad un maggior numero di ore lavorative.

Ora, questo genere di valutazione dell’esperienza non è del tutto estraneo al mondo del lavoro. Ad esempio, l’esperienza dei piloti di aereo si valuta proprio in relazione alle ore di volo. Ma, dietro a questa espressione semplicistica, vi sta un mondo: le ore di volo sono poi da disaggregare anche in relazione al tipo di volo svolto, alle distanze, all’apparecchio pilotato, all’equipaggio diretto, al tipo di aeroporti utilizzati, alle condizioni di volo affrontate e molto altro ancora. E questo cumulo molto complesso, a meglio vedere, indica ben altro dell’anzianità, ma invece soprattutto l’esperienza intesa come ampia gamma di attività svolte e ripetute in situazioni diverse, tali da dimostrare l’acquisizione di capacità e competenze maggiori e più solide. Un pilota con 10.000 ore di volo solo commerciale e a breve raggio non ha maggiore esperienza di un collega con 5.000 ore di volo, anche militare, anche intercontinentale, anche in aeroporti in territori di guerra.

In effetti, la Cassazione nell’ordinanza da ultimo in commento pare apprezzare quanto disposto dalla Corte di appello “laddove ha affermato che «Non è … detto» che — a parità di anzianità lavorativa — il lavoratore full-time abbia acquisito maggiore esperienza del lavoratore part-time, dipendendo tale preparazione da tante variabili, ‘tra cui anche (ma non solo) la quantità di ore lavorative prestate nel medesimo periodo lavorativo; quantità di ore che tuttavia non assume una rilevanza determinante, essendo sicuramente più importante la qualità delle pratiche seguite dal lavoratore nel corso del rapporto»”.

Senz’altro queste osservazioni sono più che utili a dimostrare che l’anzianità non coincide con l’esperienza. Ci si chiede, però, perché in questo caso la Cassazione non sia andata oltre nel censurare l’azione datoriale, evidenziando l’errore fondamentale, cioè, appunto, condizionare la progressione così tanto all’anzianità da giungere al paradosso della sua valutazione in termini di ore, trascurando totalmente così l’elemento qualitativo.

Le progressioni orizzontali sono un generale fallimento, soprattutto perché le PA non hanno mai avuto forza e capacità appunto per dotarsi di sistemi di valutazione realmente utili a segnalare il tanto decantato “merito” e la qualità del lavoro svolto. Irti di valutazioni solo comportamentali o attitudinali, i sistemi di valutazione non valutano affatto le competenze: tanto che al “dunque” le progressioni si gestiscono in termini di anzianità.

Proprio perché sono passati decine di anni e il fallimento persiste, sarebbe il caso finalmente di mollare la presa. I sistemi di valutazione sono solo un simulacro. Almeno per quanto riguarda gli aumenti periodici del trattamento economico fondamentale si torni al passato e si faccia come il privato, per nulla propenso a spendere energie organizzative e lavorative e a farsi coinvolgere in un contenzioso immenso, solo per assicurare uno scatto di stipendio periodico.

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