30/07/2019 – Licenziamento per giusta causa: autonomia del procedimento disciplinare rispetto al processo penale

Licenziamento per giusta causa: autonomia del procedimento disciplinare rispetto al processo penale

Luca Tortora
L’ordinanza n. 18883 del 15 luglio 2019  della Corte di Cassazione affronta tra l’altro due questioni davvero importanti in tema di licenziamento disciplinare per il personale sanitario: 1) l’autonomia del procedimento disciplinare rispetto al processo penale e l’eventuale irrilevanza della sentenza assolutoria allorquando questa è fondata su fatti che non riguardano la contestazione disciplinare; 2) la specificità e l’immutabilità della contestazione disciplinare che delimita il thema decidendum del processo di impugnazione in sede di giudiziaria del licenziamento per giusta causa.

Nel pubblico impiego privatizzato, l’art. 55-ter d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2009, ha introdotto la regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, contemplandone la possibilità di sospensione, dunque facoltativa e non obbligatoria, come ipotesi eccezionale nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento. 

La P.A., e successivamente anche il giudice, è libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e può ricavare dagli stessi elementi sufficienti per la contestazione di illecito disciplinare al proprio dipendente. Rispettando, poi, le regole procedurali previste per il licenziamento disciplinare può giungere ad irrogare la sanzione del licenziamento per giusta causa laddove ritenga leso il rapporto fiduciario con il dipendente.

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, al medico sono state contestate una serie di violazioni riguardanti il codice di comportamento dei dipendenti pubblici ( d.m. 28 novembre 2000), e con essi dei più generali doveri di diligenza e buona fede nell’esecuzione della prestazione lavorativa; in particolare, il medico, dopo avere eseguito un delicato intervento chirurgico, ed in servizio di reperibilità (sia pure seconda reperibilità), avendo avuto contezza sin dalla h. 22,30 dell’esistenza di una gravissima sintomatologia che indicava l’esistenza di problemi post-operatori e, segnatamente, dell’esistenza di una consistente emorragia in corso (forte ipotensione, fuoriuscita di sangue dal drenaggio, continue trasfusioni e sinanche arresto respiratorio ed intubazione del paziente) ha ritardato di ben tre ore il proprio arrivo in ospedale. Solo dopo altre due ore e mezza dal suo arrivo, ha deciso,poi, di procedere al secondo intervento, nonostante le sollecitazioni da parte degli altri colleghi. L’ingiustificabile attesa di circa sei ore in un simile contesto ha integrato una palese violazione dei suoi doveri contrattuali di cui alla contestazione. La difesa del sanitario, invece, si è incentrata sulla sentenza di assoluzione ottenuta in sede penale ma che ha riguarda la responsabilità del saniatario per la morte del paziente; la azienda sanitaria, come si è detto, ha contestato la condotta del sanitario in ordine alla lesione dell’immagine della struttura pubblica, al ritardo ingiustificato con cui era giunto in ospedale, il ritardo con cui aveva adottato decisioni di propria spettanza (“Dunque, correttamente, in ragione del quadro normativo primario e delle declaratorie contrattuali, il datore di lavoro contestava al ricorrente la violazione dei seguenti obblighi desumibili dal codice di comportamento (nonchè in ragione della funzione del codice di comportamento dagli artt. 2104 e 2105 c.c.): obbligo di evitare situazioni e comportamenti che possano nuocere agli interessi o alla immagine della pubblica amministrazione (art. 2, comma 2, ultima alinea); obbligo di adempiere le proprie competenze nel modo più semplice ed efficiente nell’interesse dei cittadini e assumere le responsabilità connesse ai propri compiti (art. 2, comma 3, ultima alinea); obbligo di non ritardare nè affidare ad altri dipendenti il compimento di attività e l’adozione di decisioni di propria spettanza, salvo giustificato motivo (art. 10, comma l) così scrivono i Giudici della Suprema Corte nella sentenza in commento”).     

La Corte di Cassazione chiarisce la differenza tra la contestazione disciplinare e il capo d’imputazione in sede penale e la loro piena autonomia e così scrive: “Dunque (Cass., n. 13 del 2015), la contestazione disciplinare a carico del lavoratore non è assimilabile alla formulazione dell’accusa nel processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire all’incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa, sicchè essa va valutata in modo autonomo rispetto ad eventuali imputazioni in sede penale. Si è, altresì, osservato che, con riguardo al licenziamento disciplinare, non è rilevante l’assoluzione in sede penale circa i fatti oggetto di contestazione, bensì l’idoneità della condotta a ledere la fiducia del datore di lavoro, al di là della sua configurabilità come reato, e la prognosi circa il pregiudizio che agli scopi aziendali deriverebbe dalla continuazione del rapporto (Cass., n. 7127 del 2017)…. Oltre alla ricordata autonomia tra procedimento penale e procedimento disciplinare, va osservato che la Corte d’Appello afferma, proprio avendo riguardo al dispositivo della sentenza penale, che non vi era pregiudizialità tra il procedimento penale e quello disciplinare, in quanto il comportamento contestato al V., che ne aveva determinato il licenziamento, non consisteva nell’aver procurato la morte del paziente, intendendo così quest’ultima come imputazione del processo penale. Per la Corte d’Appello, nella sostanza, il fatto oggetto del processo penale non era sovrapponibile al fatto oggetto della contestazione disciplinare”.

Va, inoltre, ricordato per completezza espositiva  che il giudice del lavoro nei giudizi di impugnazione di un licenziamento può utilizzare come prova anche quelle acquisite nel corso di un processo penale: “….il principio affermato, inoltre, è conforme a quello già affermato da questa Corte, secondo cui “Il giudice del lavoro, ai fini della formazione del proprio convincimento in ordine alla sussistenza di una giusta causa di licenziamento, può valutare gli atti delle indagini preliminari e le intercettazioni telefoniche ivi assunte, anche ove sia mancato il vaglio critico del dibattimento, in quanto la parte può sempre contestare nel giudizio civile i fatti acquisiti in un procedimento penale” (cfr. Cass. 2 marzo 2017 n. 5317); da tale principio emerge, quindi, che in caso di contestazione, come nella specie, gli atti delle indagini preliminari e le intercettazioni possono ben essere sottoposte a nuovo esame al cospetto di ulteriori prove emerse nel giudizio in sede civile, nell’ambito di una valutazione complessiva che può condurre anche a disattenderne o smìnuirne la valenza probatoria con riferimento al caso esaminato; ciò trova conferma in ulteriori pronunce della S.C., affermative del principio secondo cui il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell’art. 444 c.p.p., potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (cfr. Cass. 30.1.2013 n. 2168, in senso conforme Cass. 2.2.2016 n. 1948)… inoltre va considerato (a confutazione anche dei rilievi espressi nel secondo motivo) che “le intercettazioni telefoniche o ambientali, effettuate in un procedimento penale, sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare di cui della L. n. 300 del 1970, art. 7, purchè siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p., riferibili al solo procedimento penale, in cui si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale” (cfr., Cass. 15 maggio 2016 n. 10017); in relazione al terzo motivo, deve ancora ribadirsi che, nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti “ (in Cass. 29 gennaio 2019 n. 2436).

La contestazione disciplinare assume, quindi, un ruolo centrale e determinante in questa tipologia di processi nel rispetto di quanto stabilito dalla Suprema Corte nella sentenza delle Sezioni Unite n. 4823/1987 che ha ritenuto che il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque illegittima ed inadempiente del lavoratore deve essere considerato sempre di natura disciplinare e quindi, il licenziamento per essere considerato legittimo deve rispettare le norme procedurali, e le garanzie per il prestatore di lavoro previste dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori.

L’ordinanza in commento pone indirettamente l’attenzione sull’importanza di due dei principi fondamentali per aversi una contestazione disciplinare valida: il principio di specificità e quello di immutabilità; entrambi servono a circoscrivere anche il thema decidendum del processo d’impugnazione del licenziamento e servono tra l’altro a garantire il diritto di difesa del lavoratore.

I due principi e il loro “effetto” rispetto al processo d’impugnazione sono così definiti dalla giurisprudenza della Suprema Corte: “Invero, la L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, prevede che l’adozione del provvedimento disciplinare sia preceduta dalla contestazione dell’addebito (oltre che dalla audizione dell’interessato a sua difesa), conferendo in tal modo certezza ed immutabilità al contenuto della infrazione, scopo primario della contestazione. Valorizzando la ratio che la sorregge, i requisiti fondamentali della contestazione – la cui violazione vizia il procedimento disciplinare determinando la nullità del provvedimento sanzionatorio irrogato – sono stati dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità, individuati nella specificità, immediatezza ed immutabilità….rispetto alle quali il dipendente non è stato messo in condizione di discolparsi, perchè non adeguatamente definite nelle loro modalità essenziali, ed essere così esattamente individuabili; perchè non tempestivamente contestate; perchè diverse dalle condotte oggetto della iniziale contestazione.A tale riguardo, sotto l’aspetto squisitamente processuale, l’immutabilità della contestazione sta a significare che la contestazione in ordine al fatto per il quale è iniziato l’iter disciplinare, delimita la materia del contendere nel successivo giudizio nel quale, per avvalorare la legittimità della sanzione impugnata, non possono introdursi fatti nuovi o diversi da quelli inizialmente contestati.Che tale sia la ratio sottesa a detto requisito, è principio più volte affermato da questa Corte la quale ha precisato che non si verifica una modifica della contestazione, ad esempio, nel caso in cui la condotta contestata resti invariata e mutino solo l’apprezzamento e la valutazione della stessa, poichè in tal caso, ove non vengano in rilievo nuove circostanze di fatto, il diritto di difesa non risulta in alcun modo compromesso (Cass. 22/3/2011 n.6499, Cass. 9/2/2016 n.11868); o ancora, ha affermato che il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, il quale vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, non può ritenersi violato qualora, contestati atti idonei ad integrare un’astratta previsione legale, il datore di lavoro alleghi, nel corso del procedimento disciplinare, circostanze confermative o ulteriori prove, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre (Cass. 12/3/10 n. 6091). In definitiva, in tema di licenziamento disciplinare, la violazione del principio di immutabilità della contestazione non può essere ravvisata in ogni ipotesi di divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, ma solo nel caso in cui tale divergenza comporti in concreto una violazione del diritto di difesa del lavoratore (in questi termini vedi Cass. 25/8/1993 n. 8956), per essere intervenuta una sostanziale immutazione del fatto addebitato che si realizza quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa (vedi in motivazione Cass. 7/2/2013 n. 2935)” (in Cassazione Civile n. 22127/2016)

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