29/09/2023 – Dipendenti pubblici: in vigore le modifiche al Codice di Comportamento. Tutte le novità e qualche riflessione

tratto da ForumPA – a cura di Valentina M. Donini e Morena Ragone –

In vigore le modifiche al Codice di Comportamento dei dipendenti pubblici, adottate con Decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 2023, n. 81. Molte le novità, a partire dalla conferma dell’introduzione dei due nuovi articoli 11-bis e 11-ter sull’utilizzo delle tecnologie informatiche e dei mezzi di informazione e social media. E molti gli spunti di riflessione, a partire dal confronto con le indicazioni contenute nel secondo parere del Consiglio di Stato che ad aprile scorso aveva evidenziato nuovamente diverse criticità

Indice degli argomenti

Entrano in vigore il 14 luglio le modifiche al Codice di Comportamento dei dipendenti pubblici, adottate con Decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 2023, n. 81. Molte le novità, a partire dalla conferma dell’introduzione dei due nuovi articoli 11-bis e 11-ter, e di alcune modifiche (agli articoli 12, 13, 15 e 17), di cui scriviamo oggi, anche per un confronto con la prima stesura[1] ─ di cui avevamo raccontato partendo dal parere negativo del Consiglio di Stato nel precedente articolo per ForumPA[2].

Dove eravamo rimasti

Per chi non avesse seguito la vicenda, riassumiamo velocemente l’iter fino ad oggi: lo schema di D.P.R., come previsto, è stato oggetto di deliberazione del Consiglio dei ministri (1 dicembre 2022), su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione; ha raggiunto l’intesa in sede di Conferenza Unificata (21 dicembre 2022); è stato, quindi, oggetto di parere, negativo, del Consiglio di Stato (parere interlocutorio n. 93 del 19 gennaio 2023); è stato, poi, ripresentato al Consiglio di Stato per un nuovo parere (parere definitivo n. 584 del 14 aprile 2023, n. 584); e, infine, approvato in Consiglio dei Ministri (31 maggio 2023).

Un iter solo apparentemente ordinario, ma reso, in realtà, anomalo dal secondo parere del Consiglio di Stato sullo stesso identico testo già trasmesso in precedenza dal Governo, pur accompagnato da “rassicurazioni” che le innumerevoli prescrizioni ostative sarebbero state oggetto di verifica in Consiglio dei ministri (“tenuto conto della ristrettezza dei tempi previsti per l’adozione del provvedimento dal Piano nazionale di ripresa e resilienza che non consente un nuovo passaggio preliminare in Consiglio dei ministri” (…) “eventuali osservazioni espresse, sia nel parere interlocutorio che in quello definitivo, saranno poi sottoposte al vaglio del Consiglio dei ministri).

Il secondo parere del Consiglio di Stato

Nell’adunanza del 4 aprile scorso, infatti, i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato la “peculiarità” di questo iter seguito dal Ministero “che sottopone nuovamente a parere il medesimo testo già oggetto di parere interlocutorio (…) senza però aver dato corso né alla preannunciata integrazione sotto il profilo istruttorio, delle lacune riscontrate relativamente ai dati, né alla modifica dell’originaria versione “al fine di risolvere le criticità legate all’indeterminatezza delle condotte sanzionabili attraverso la rielaborazione sintattica delle disposizioni”.

Ed il collegio è stato anche costretto a ribadire l’ovvio, ossia che:

  • il Ministero proponente avrebbe potuto procedere alle modifiche del testo come da parere interlocutorio reso, per le parti ritenute condivisibili, senza passare per una nuova deliberazione preliminare del Consiglio dei Ministri;
  • la natura del parere reso dal Consiglio di Stato costituisce un sindacato preventivo sulla coerenza logico – giuridica dell’atto normativo con l’ordinamento nel suo complesso, ed è esercitato da un organo terzo e imparziale;
  • tale parere non può che avere ad oggetto il testo nel contenuto trasmesso, senza che sia possibile tenere conto di ipotetiche e/o possibili modifiche/integrazioni future.

Nonostante ciò, il Consiglio di Stato ha riesaminato il testo punto per punto, evidenziando, tra l’altro:

  • che le nuove regole di condotta (quelle che trovano astrattamente titolo nell’art. 4 della legge n. 79 del 2022) per la tutela dell’immagine della pubblica amministrazione, correlata all’uso delle tecnologie informatiche, dei mezzi di informazione e dei social media codificano─ si riporta testualmente ─ una pluralità di regole connotate da un elevato dettaglio casistico, ma al contempo da una indeterminatezza delle condotte sanzionabili, favorita anche dall’utilizzo di espressioni linguistiche, molte delle quali tratte dal linguaggio tecnico e lasciate prive di definizioni atte a esplicitarne il significato”;
  • la mancanza di qualsiasi dato idoneo a evidenziare le criticità asseritamente riscontrate (quante volte parliamo di decisioni data driven? Evidentemente mai troppe, visto che il Consiglio di Stato deve ricordarlo), sia sullo spreco e/o non corretto uso delle risorse e dei beni di consumo forniti dall’amministrazione, sia, sull’esistenza di rilevanti e allarmanti fenomeni di discriminazione nell’ambito della PA, sia, da ultimo e soprattutto, su presunti danni all’immagine, al prestigio e al decoro delle amministrazioni conseguenti all’uso delle tecnologie informatiche e dei social media, con carenza di “un adeguato apparato motivazionale ed accertativo” per introdurre nuovi obblighi di comportamento o restrizioni e limitazioni all’uso di mezzi funzionali anche alla manifestazione del pensiero. Aspetto, quest’ultimo, di assoluta rilevanza in qualsiasi contesto e per qualsivoglia azione/intervento che rischi di limitare le libertà costituzionalmente previste.

Il testo definitivo del decreto

Dall’esame dell’articolato finale, ci sembra che le indicazioni del Consiglio di Stato siano state recepite solo parzialmente.

Dal decreto è stata eliminata la disposizione relativa all’impatto ambientale delle attività delle amministrazioni, contenuta nel cassato art. 11-quater (che disciplinava il contenimento dei consumi energetici, delle risorse e dei materiali di consumo forniti dall’amministrazione, la raccolta differenziata dei rifiuti); è stata, poi, ugualmente espunta la disposizione relativa al rispetto della persona e al divieto di discriminazioni prevista dall’art. 11-quinquies (con l’obbligo di astenersi da azioni discriminatorie o lesive dell’integrità psichica e fisica degli altri dipendenti e degli utenti), eliminazioni totalmente condivisibili, in quanto ritenute “pleonastiche”, “sovrabbondanti”, “ripetitive” rispetto ad un intero impianto normativo vigente e consolidato (come ampiamente sottolineato nei due pareri dal CdS, che, nelle proprie osservazioni, aveva evidenziato come tali norme andavano “oltre quanto richiesto dall’art. 4 della l. n. 79 del 2022 e perciò dall’art. 54 del d.lgs. n.165 del 2001, per come modificato da quest’ultimo intervento legislativo” e, di conseguenza, privi della necessaria  base legislativa nella norma primaria).

Ma quanto, delle prescrizioni e osservazioni, è stato realmente recepito sugli articoli di nuova introduzione che, invece, sono rimasti? Vediamo nel dettaglio.

Utilizzo delle tecnologie informatiche. L’art.11-bis di nuova introduzione

Partiamo da una consapevolezza: la necessità che norme di tale portata, con tale (misconosciuto?) impatto, siano comunicate ai destinatari quanto prima nella loro forma “definitiva”, e che tutti i pareri obbligatori siano resi proprio su questo testo “definitivo”, al fine di valutarne tutte le possibili implicazioni.

Come noto, gli art. 11-bis e 11-ter, che sottintendevano la necessità di tutelare l’immagine della pubblica amministrazione da un uso inappropriato di tecnologie e social media, sono rimasti nella versione definitiva, così come è rimasta la pluralità di nuove regole codificate, quelle che erano state considerate “dettagliate nella casistica e indeterminate nelle condotte sanzionabili”,  rischiando di esporre “i pubblici dipendenti agli eccessi degli spazi interpretativi d’intervento, ed anche alla connessa dubbiosità, per così dire, disparitaria, circa l’attivazione delle procedure disciplinari, di chi sarà preposto ad assicurarne il rispetto e a sanzionarne la violazione”.

Confermato il comma 1 (il potere dall’amministrazione di svolgere gli accertamenti necessari e adottare tutte le misure per garantire la sicurezza di sistemi e dati, previa adozione di Linee Guida da parte di AgID, e il richiamo, in caso di uso di dispositivi elettronici personali, all’articolo 12, comma 3-bis del D. Lgs. n. 82/2005, che apre, con i giusti correttivi e le previste informative, all’uso del BOYD[3] nella PA), la prima modifica la troviamo al comma 2, dove il divieto di utilizzare account istituzionali per fini diversi da quelli connessi all’attività lavorativa o ad essa riconducibili è sostituito da un più semanticamente morbido “l’utilizzo di account istituzionali è consentito per i soli fini connessi all’attività lavorativa o ad essa riconducibili”, e il divieto d’uso della casella personale per fini istituzionali salvo casi di forma maggiore riporta, ora, che “è di norma evitato”, salvi i casi di forza maggiore. Parole in parte diverse, identica sostanza.

Immutati il comma 3 (caratteristiche e responsabilità dei messaggi di posta elettronica), il comma 5 (il divieto di invio di messaggi di posta elettronica, all’interno o all’esterno dell’amministrazione, che siano oltraggiosi, discriminatori o che possano essere in qualunque modo fonte di responsabilità dell’amministrazione ─ anche in questo caso una disposizione ridondante, che trova già collocazione sia nella normativa primaria, sia in altre disposizioni del Codice) e la prima parte del comma 4 (“al dipendente è consentito l’utilizzo degli strumenti informatici forniti dall’amministrazione  per  poter  assolvere  alle incombenze  personali  senza  doversi  allontanare  dalla sede di servizio, purché l’attività sia  contenuta in tempi ristretti e senza alcun pregiudizio per i compiti istituzionali. Ma, ci chiediamo, come si misura un’attività “contenuta in tempi ristretti”? Di quanto parliamo?), viene cassato il secondo capoverso, che vietava di utilizzare strumenti informatici forniti dall’amministrazione per fini diversi da quelli connessi all’attività lavorativa o ad essa riconducibili, nel caso in cui l’utilizzo possa compromettere la sicurezza o la reputazione dell’amministrazione; disposizione che, come principio generale, trova sicuramente posto già nel nuovo comma 2, di cui abbiamo scritto sopra.

Utilizzo dei mezzi di informazione e dei social media. L’art.11-ter di nuova introduzione

Ma è sull’uso delle piattaforme social da parte del dipendente pubblico, prevista dall’art. 11-ter, con tutti i suoi risvolti “costituzionali”, che si sono concentrate la maggior parte delle modifiche e delle attenzioni (soprattutto nelle ultime settimane, anche da parte dei sindacati e degli organi di stampa). Partendo dal comma 1, dove la non attribuibilità all’amministrazione delle opinioni espresse e dei contenuti pubblicati dai dipendenti sui social media lascia il posto all’uso di “ogni cautela” affinché le opinioni personali non siano ribaltate sull’amministrazione di appartenenza. A parte la considerazione ─ ormai ovvia, visto il ragionamento che stiamo seguendo, sulla scia del Consiglio di Stato ─ di quanto siano opinabili i riferimenti terminologici (ogni è omnicomprensivo, quindi è facile che qualcosa sfugga nella sua dimensione pratica, con possibili, conseguenti applicazioni arbitrarie…), ci sono alcuni social network che fanno dell’appartenenza la propria  chiave di lettura, e la propria ragion d’essere: pensiamo a Linkedin, ma anche a InPA, il cui claimcomunicativo verte sull’essere proprio il “Linkedin della Pubblica Amministrazione”. Su questi aspetti, probabilmente, sarebbe stato necessario essere meno generici, prevedendo specifiche ipotesi di “riconducibilità” alla PA di appartenenza, per evitare di escludere, nel mare magnum, anche i progetti che riguardano la PA stessa.

Molto complesso, seppure immutato rispetto alla bozza, il comma 2, il quale prevede che “in ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale”. Quali saranno le condotte sanzionabili? Quali gli interventi e i commenti che “possono nuocere” (possono…) al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione? È qui, in particolare, che si presenta, in tutta la sua rilevanza, quell’indeterminatezza delle condotte sanzionabili, ampiamente rilevata dal Consiglio di Stato, che rischia di rendere disomogenea l’applicazione di una norma che, invece, dovrebbe stabilire degli standard validi per tutte le PA. E, per aprire anche ad ulteriori interrogativi portati dalle novità della giurisprudenza degli ultimi anni, come dovremo considerare un like, un retweet, l’uso di una emoji? Sono interventi? Sono commenti?

Il successivo comma 3, apparentemente “neutro”, contiene un’espressione tecnica che resta  indeterminata, rendendola applicabile in modo estensivo: nel disporre che “di norma” le comunicazioni inerenti il servizio, ad eccezione di quelle istituzionali via social, non si svolgono attraverso conversazioni pubbliche mediante l’utilizzo di piattaforme digitali o social media (nella bozza era stato inserito un divieto tassativo, poi alleggerito), si equiparano le “piattaforme digitali” ai social media, strumenti diversi con funzioni e obiettivi diversi. Sono piattaforme digitali, per esempio, anche le tante piattaforme abilitanti previste nel Piano Triennale per l’informatica nella Pubblica Amministrazione[4], sottoposte al monitoraggio costante di AgID[5].

Molto importante, invece, l’eliminazione del comma 4 dal testo, che considerava l’eventuale “spendita del nome” via social (indicazione della propria qualifica professionale o dell’appartenenza) quale elemento valutabile ai fini della gradazione della eventuale sanzione disciplinare in caso di violazione delle disposizioni dei commi precedenti. L’attuale comma 4, quindi, è il comma 5 della bozza: la disposizione introduce la possibilità, per ciascuna PA, di produrre singole social media policy per ciascuna “piattaforma digitale” utilizzata. La norma ha mantenuto l’indicazione della obbligatoria gradualità delle condotte di danno ipotizzate “in base al livello gerarchico e di responsabilità del dipendente”; disposizione che continua a lasciare perplessi per i possibili condizionamenti, soprattutto indiretti, sui livelli apicali. Da questo comma, infine, è stato eliminato l’ultimo capoverso, che prevedeva, da parte di ciascuna Amministrazione, l’individuazione, all’interno del proprio codice, delle modalità di rilevazione delle violazioni.

Infine, il comma 5 (precedente comma 6) che, come già visto, prevede il divieto di divulgazione di informazioni per ragioni estranee all’ufficio[6].

I rapporti con il pubblico. Il “nuovo” articolo 12

L’art. 12 conserva, al primo comma, le modifiche già presentate nel precedente Schema di Decreto, prevedendo l’inserimento di un ulteriore standard di comportamento: il dipendente pubblico deve “orientare il proprio comportamento alla soddisfazione dell’utente”. Si tratta di una specificazione che si inserisce in un contesto, quello della disciplina dei rapporti con il pubblico, in cui sono già elencati una serie di precetti eterogenei che il dipendente pubblico deve seguire nell’adempimento delle sue funzioni, allo scopo di favorire (come sottolinea l’ANAC nelle Linee Guida[7]) un rapporto collaborativo tra amministrazione e cittadini nell’ottica di migliorare la qualità e l’utilità delle prestazioni rese.

Ci si può forse domandare ─ corriamo il rischio che la domanda suoni retorica ─ se tale precisazione sia realmente necessaria o non si tratti, piuttosto, di una declinazione ulteriore di principi già chiaramente affermati; rilievo, questo, mosso dal CdS più volte in entrambi i pareri. Nello stesso comma, infatti, viene già precisato che il dipendente debba operare con spirito di servizio, correttezza, cortesia e disponibilità, per cui l’ulteriore specificazione di “orientare il proprio comportamento alla soddisfazione dell’utente” risulta oltremodo ridondante.

Sembrerebbe, infatti, già compresa:

  • nel concetto di “spirito di servizio”, che contiene in sé non solo la convinzione di operare nello svolgimento di un dovere[8], ma anche nella continuità, visto che nemmeno nei rapporti privati, come prevede l’art. 10, il dipendente si può liberare dalla responsabilità di non nuocere all’immagine dell’amministrazione, e visto il successivo comma 3 dell’art. 12 che espressamente sottolinea l’importanza di assicurare la continuità del servizio, senza alcuna diminuzione di intensità dello standard considerato;
  • nei concetti di correttezza, cortesia e disponibilità, specifiche declinazioni del principio di diligenza del dipendente pubblicocontenuto all’art. 3 del Codice, che indicano la stessa direzione.

Ma non è finita qui, dal momento che anche altri doveri, contenuti nell’art. 12, comma 1, rispondono alla stessa logica di soddisfazione dell’utenza: il dovere di rispondere nel modo più accurato e completo possibile alla corrispondenza e alle chiamate telefoniche[9]; la necessità, qualora la richiesta sia pervenuta all’ufficio non competente, di indirizzare a quello competente[10]; il dovere di non rifiutare prestazioni a cui sia tenuto con motivazioni generiche; il dovere di rispettare gli appuntamenti con i cittadini e di rispondere senza ritardo ai loro reclami.

Stesse considerazioni valgono per i successivi commi (3 e 4): il dipendente, infatti, è tenuto a curare il rispetto degli standard di qualità e di quantitàfissati dall’amministrazione anche nelle apposite carte dei servizi, deve assicurare la continuità del servizio, consentire agli utenti la scelta tra i diversi erogatori e fornire loro informazioni sulle modalità di prestazione del servizio e sui livelli di qualità (comma 3); il dipendente non può assumere impegni né anticipare l’esito di decisioni o azioni proprie o altrui inerenti all’ufficio, al di fuori dei casi consentiti (comma 4, che, tra l’altro, è sostanzialmente “replicato”, nell’ultima parte, dal comma 5 del nuovo art. 11-ter, ai sensi del quale “(…)  i dipendenti non possono divulgare o diffondere per ragioni estranee al loro rapporto di lavoro con l’amministrazione e in difformità  alle disposizioni di cui al decreto legislativo 13 marzo 2013,  n. 33, e alla legge 7 agosto 1990, n. 241, documenti, anche istruttori, e informazioni di cui essi abbiano la disponibilità”).

Sarebbe stato, forse, più utile ─ e proprio nell’ottica di soddisfare maggiormente l’utente ─ inserire un riferimento al linguaggio da utilizzare, che dev’essere chiaro e comprensibile (come previsto, ad esempio, nel vecchio testo del 2001, che all’art. 11 ne prevedeva l’obbligo nella redazione dei testi scritti e in tutte le altre comunicazioni). Questa mancanza nell’attuale codice sembra particolarmente singolare, proprio considerando il rinvio che l’art. 9 fa agli “obblighi di trasparenza previsti in capo alle pubbliche amministrazioni secondo le disposizioni normative vigenti”, dato che il dovere di chiarezza e comprensibilità è invece contenuto nel D. Lgs. n. 33/2013 tra i principi da seguire nella pubblicazione di informazioni online (la semplicità di consultazione e la comprensibilità sono espressamente indicate nella “qualità delle informazioni” dall’art. 6 del decreto “trasparenza”, come, del resto, è previsto in tanta parte della normativa recente, che fa di immediatezza, chiarezza, semplicità e comprensibilità la base del “comprendere”, del “volere” e, di conseguenza dell’“agire”).

I doveri del dirigente. Il nuovo articolo 13

Le modifiche relative all’art. 13, previste nella bozza, sono state confermate dal Decreto, per ribadire che il comportamento del dirigente deve essere esemplare in termini di “integrità, imparzialità, buona fede e correttezza, parità di trattamento, equità, inclusione e ragionevolezza”, riproponendo, quindi, i principi già presenti nel citato art. 3. Il dovere del dirigente di occuparsi della formazione e dell’aggiornamento del personale viene, invece, spostato dal comma 5 ─ che viene riscritto ─ a un nuovo comma 4-bis, che va letto in coordinamento con il corrispondente nuovo comma 5-bis dell’articolo 15, che introduce una regola generale in tema di formazione specifica su etica pubblica e comportamento etico.

Il nuovo comma 5 prevede, ora, un inedito dovere del dirigente, che deve favorire non solo l’instaurarsi di rapporti cordiali e rispettosi tra i collaboratori, come previsto nel vecchio testo, ma anche di relazioni, interne ed esterne alla struttura, basate su una leale collaborazione e su una reciproca fiducia. A questo proposito, ci chiediamo se tra le relazioni esterne rientrino anche quelle con i portatori di interessi, perché, in tal caso, non dovrebbe essere richiesta solo collaborazione e fiducia, quanto invece la massima trasparenza.

Inoltre, viene aggiunto al comma 7, il riferimento nella valutazione dei dipendenti, alla misurazione del raggiungimento dei risultati e al comportamento organizzativo.

La formazione. Il nuovo comma 5 bis dell’art. 15

Una delle novità più significative introdotte dal Decreto riguarda il contenuto della formazione specifica: se il Codice di comportamento già prevedeva, al vecchio comma 5 dell’art. 15, la necessità di attività formative sul tema della trasparenza e integrità[11], il nuovo 5 bis allarga la prospettiva includendo una formazione sul tema dell’etica pubblica e del comportamento etico.

Ciò vuol dire che la formazione sul tema dell’integrità (misura obbligatoria di prevenzione della corruzione) non può ridursi a un aggiornamento professionale e nemmeno alla mera conoscenza degli strumenti (la normativa, i vari Piani, i codici di comportamento), ma deve invece andare oltre, per consentire ai dipendenti pubblici di interiorizzare regole e standard di comportamento a presidio dell’integrità delle amministrazioni, in quella che l’ANAC già nel PNA 2013 definiva una formazione con approccio valoriale[12]. D’altronde, anche secondo la Raccomandazione OCSE sull’integrità nel settore pubblico[13] del 2017, scopo della formazione non è solo conoscere le regole, ma rendere i dipendenti pubblici in grado di affrontare correttamente i dilemmi etici e rendere gli standard di integrità pubblica applicabili e significativi nei loro contesti personali.

Si tratta, quindi, del passaggio fondamentale dal conoscere al comprendere le regole e interiorizzarle, elaborando delle qualità particolari che permettano di identificare e, soprattutto, decodificare il dilemma etico[14]: ciò vuol dire ripensare in parte la formazione tradizionale, per consentire ai dipendenti pubblici di sviluppare e promuovere le competenze per l’integrità[15].

In sintesi

Resta, nel complesso, la sensazione di un’occasione persa: per quanto il codice di comportamento, a differenza di altri piani strategici (come il PNA, o il PIAO) sia strutturalmente destinato a durare per un orizzonte temporale ampio, vista anche la sua funzione “didattica” e di compendio dell’etica pubblica, sarebbe stata opportuna una riforma più generale del resto dell’impianto del 2013, che, intatto, presenta ancora diverse criticità. Abbiamo già avuto modo di segnalare, nel precedente articolo, quelle relative all’art. 8 e al mancato allineamento con il quadro normativo successivo in materia di whistleblowing[16]: se è vero che, ora, queste criticità sono in parte state superate[17] dal Decreto Legislativo n. 24/2023 che recepisce la Direttiva (UE) 2019/1937, rimane comunque ancora in vigore un articolo del codice, l’art. 8, che contiene un’indicazione scorretta (quella della segnalazione al superiore gerarchico) e  che, per una questione di ordine, sistematica e stile, sarebbe stato opportuno correggere in questa sede.

Nel testo sono, poi, assenti anche altri argomenti che avrebbero meritato l’attenzione del legislatore nella legge 79/2022, soprattutto in considerazione della loro rilevanza in questa delicata fase di attuazione del PNRR, per esempio, la trasparenza dei rapporti con i portatori di interessi e la sinergia con l’antiriciclaggio, tematiche fondamentali per la promozione e diffusione di una cultura dell’integrità.

Ai fini della tutela dell’immagine delle amministrazioni, allora, non sarebbe forse più urgente e opportuno proteggere, a livello sostanziale, proprio l’integrità e la trasparenza dell’azione amministrativa, piuttosto che (pre)occuparsi delle dichiarazioni dei dipendenti sui social network che, nei limiti già tracciati dalla disciplina preesistente del Codice e della normativa applicabile, costituiscono attività di legittima libertà ed espressione del pensiero, con benefici di ritorno anche sull’attività delle PA stesse?

Una domanda, questa, che a oggi non ha risposta.


[1] Schema di decreto del Presidente della Repubblica adottato ai sensi dell’articolo 4, del decreto-legge 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni, dalla legge 29 giugno 2022, n. 79, recante modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 62, “Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165”, https://i2.res.24o.it/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANI_VERTICALI/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2022/12/02/comportamento.pdf

[2] https://www.forumpa.it/riforma-pa/dipendenti-pubblici-da-rivedere-lo-schema-di-regolamento-del-nuovo-codice-di-comportamento/

[3] Bring Your Own Device.

[4] https://www.agid.gov.it/it/agenzia/piano-triennale

[5] https://www.agid.gov.it/it/piattaforme

[6] Ma su questo punto si presenta un problema di coordinamento con il D. lgs. 24/2023 che recepisce la Direttiva UE 2019/1937 e, all’art. 15, introduce nel nostro sistema la divulgazione pubblica.

[7] ANAC, Linee Guida in materia di Codici di comportamento delle amministrazioni pubbliche, Delibera 177/2020, p. 21.

[8] Cfr. V. Italia, M. Bassani., P.M. Ceccoli, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, Milano, 2022, p. 139.

[9] Forse, però, sarebbe stato più utile inserire un dovere di risposta completa ed accurata anche in riferimento alle relazioni interne all’ente, e non solo esterne, per ricordare al dipendente pubblico la necessità di rispondere alle istanze di colleghi e subordinati.

[10] Dovere che trova completamento nella parte finale del quinto comma dell’art. 12: Qualora non sia competente a provvedere in merito alla richiesta cura, sulla base delle disposizioni interne, che la stessa venga inoltrata all’ufficio competente della medesima amministrazione.

[11] Al personale delle pubbliche amministrazioni sono rivolte attività formative in materia di trasparenza e integrità, che consentano ai dipendenti di conseguire una piena conoscenza dei contenuti del codice di comportamento, nonché un aggiornamento annuale e sistematico sulle misure e sulle disposizioni applicabili in tali ambiti

[12] ANAC, PNA 2013.  Ma ancora, nel 2019 l’ANAC osservava che: “si è spesso riscontrata un’impostazione della formazione in materia di prevenzione della corruzione basata prevalentemente sull’analisi della regolazione e delle disposizioni normative rilevanti in materia. Tale approccio non vuole essere assolutamente svalutato, ma si ritiene debba essere arricchito sia con un ruolo più attivo dei discenti, valorizzando le loro esperienze, sia con un lavoro su casi concreti che tengano conto delle specificità di ogni amministrazione”. PNA 2019, p. 73. Sul tema cfr. S. Battini, V. Lostorto, Il ruolo della formazione nella politica di prevenzione della corruzione, in “Quaderni di ricerca giuridica della consulenza legale”, 89, 2020, pp. 225-42. Vedi anche V.M. Donini, L’esposizione precoce alla cultura dell’integrità come strumento di prevenzione e contrasto alla corruzione, in Amministrativ@mente, 2, 2023, pp. 691-706.

[13] Adottata dal Consiglio dell’OCSE il 26 gennaio 2017, aggiorna e sostituisce la Raccomandazione del 1998 sul miglioramento della condotta etica nel servizio pubblico, inclusi i Principi di gestione dell’etica nel servizio pubblico.

[14] Anche al punto 9 della Raccomandazione torna in evidenza il ruolo del dilemma etico: per cui è auspicabile altresì incoraggiare una cultura aperta in cui dilemmi etici, preoccupazioni concernenti l’integrità pubblica ed errori possano essere discussi liberamente e, se del caso, con i rappresentanti dei dipendenti e in cui l’alta dirigenza sia reattiva e impegnata nel fornire consigli tempestivi e risolvere questioni rilevanti.

[15] In questa direzione si inserisce l’attività svolta all’interno della Comunità di pratica per RPCT realizzata dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, in attuazione del Quinto Piano d’Azione nazionale per il governo aperto promosso da Open Government Partnership Italia. Negli ultimi mesi è stato infatti offerto ai partecipanti un percorso formativo innovativo proprio sul tema delle competenze per l’integrità. Per maggiori informazioni:https://sna.gov.it/cosa-offriamo/iniziativeprogetti/comunita-di-pratica-per-rpct/attivita/competenze-per-lintegrita/.

[16]https://www.forumpa.it/riforma-pa/dipendenti-pubblici-da-rivedere-lo-schema-di-regolamento-del-nuovo-codice-di-comportamento/). 

[17] L’art. 4(6) prevede infatti che la segnalazione trasmessa a un destinatario diverso da quello previsto dalla normativa, deve essere inoltrata entro 7 giorni al soggetto competente. Di conseguenza, l’eventuale segnalazione al superiore gerarchico, fatta seguendo le indicazioni sbagliate dell’art. 8 del codice di comportamento, dovrebbe essere inoltrata all’RPCT, senza conseguenze sulla tutela della riservatezza del segnalante.

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