28/10/2019 – Dare dell’animale a una persona integra la diffamazione

Dare dell’animale a una persona integra la diffamazione
Sono obiettivamente ingiuriose quelle espressioni con le quali si “disumanizza” la vittima, assimilandola a cose o animali (Cassazione penale n. 34145/2019)
di Anna Larussa – Professionista – Avvocato
Pubblicato il 25/10/2019
Sono obiettivamente ingiuriose quelle espressioni con le quali si “disumanizza” la vittima, assimilandola a cose o animali.Questo è quanto stabilito dalla Cassazione, sezione V penale, sentenza 27 maggio – 26 luglio 2019, n. 34145 (testo in calce).
Sommario
Il fatto
La vicenda riguarda una diffamazione perpetrata a mezzo whatsapp. In particolare, l’imputato, assolto in primo grado dal giudice di pace di Lecce per insussistenza del fatto, era stato denunciato per avere offeso, in una chat del gruppo condominiale, la reputazione di un minore, apostrofandolo “animale” (“volevo solo far notare al proprietario dell’animale ciò che è stato procurato al volto di mia figlia. Domani al rientro del turno lavorativo prenderò le dovute precauzioni”: tale l’intera enunciazione contestata), per avere questi procurato una ferita al volto della figlia di altro condomino.
La sentenza era stata impugnata con ricorso per cassazione dal Procuratore generale, per violazione di legge, assumendosi la indubbia la portata offensiva del termine “animale” e la sua inquadrabilità nell’alveo dell’art. 595 c.p.
Il reato di diffamazione
 
Il reato di diffamazione è, come noto, previsto dall’art. 595 c.p. il quale punisce con la reclusione fino ad un anno e con la multa fino a 1032 euro chiunque, comunicando con due o più persone, in assenza del soggetto attinto dall’offesa (come si desume dall’incipit “fuori dai casi di cui all’articolo precedente”) offende l’altrui reputazione.
Il requisito della comunicazione con più persone si considera integrato anche qualora questa avvenga in tempi diversi.
E’ un reato posto a tutela dell’onore in senso oggettivo, quale stima goduta dal soggetto passivo presso i consociati: tale concetto va inteso in senso relativo dovendo rapportarsi alla posizione sociale e professionale del soggetto passivo oltre che all’ambiente in cui si realizza il fatto.
Trattasi di reato comune, perchè può essere posto in essere da chiunque, a condotta libera, in quanto può essere posto in essere con qualsiasi mezzo idoneo (verbale o reale), e a dolo generico, anche eventuale, dal momento che deve ricorrere la coscienza e volontà della condotta offensiva; non è, invece, necessario che ricorra la piena intenzione di offendere (come richiesto a suo tempo dalla dottrina sostenitrice della teoria psicologica dei reati contro l’onore).
Il momento consumativo del reato coincide con la percezione dell’offesa e, in caso di comunicazione in tempi diversi, con la seconda percezione.
L’art. 595 c.p. contempla tre circostaze aggravanti: se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato; se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità ovvero in atto pubblico;  se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o a una sua rappresentanza o a un’Autorità costituita in Collegio.
Il reato in questione è procedibile a querela della persona offesa (o dei suoi eredi) entro tre mesi dalla conoscenza del fatto.
La sentenza
 
La Corte di cassazione ha escluso che l’appellativo spregiativo utilizzato dall’imputato potesse ritenersi semplicemente inappropriato o eccessivo.
Ciò in quanto il bambino era stato paragonato a un animale e inteso come oggetto.
Ha riconosciuto infatti il Supremo Consesso che per quanto possa essere scaduto il livello espressivo soprattutto sui social, alcune locuzioni presentano un carattere indubbiamente insultante e, nel caso di comunicazione con più persone, rientrano appieno nel reato di diffamazione.
Sulla scorta di tali argomentazioni ha disposto l’annulamento con rinvio per un nuovo esame della vicenda.

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