28/08/2018 – Pa, quando è possibile annullare l’atto d’ufficio oltre il termine

Pa, quando è possibile annullare l’atto d’ufficio oltre il termine

L’art. 21  nonies della L. n. 241/1990, s.m.i., fissa il termine di 18 mesi per l’amministrazione per poter intervenire in autotutela ed annullare i propri atti.
Invero l’autotutela è esperibile anche oltre detto termine, ma solo ove sussistano questi requisiti: “false rappresentazioni dei fatti”, ovvero di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”. Va precisato che la norma in questione prosegue con un inciso: conseguenti a “condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.
Si pone il problema interpretativo se la locuzione: “condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”, sia riferibile all’accertamento relativo alle “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”, ovvero anche alle “false rappresentazioni dei fatti”.
Il Consiglio di Stato (sentenza 1° febbraio – 27 giugno 2018, n. 3940) fornisce un’interpretazione sul punto.
Fatto
La questione posta all’attenzione del Consiglio di Stato trae origine  in fatto dalla realizzazione di un parcheggio a rotazione, autorizzato con delibera Comunale.
L’attuale ricorrente, regolarmente individuata quale “Promotore”, era stata dichiarata aggiudicataria e nominata concessionaria per la progettazione, realizzazione e gestione dell’opera e all’esito della procedura.
Solo dopo la sottoscrizione della convenzione e la consegna dell’area interessata, il Comune aveva commissionato un’indagine geognostica dalla quale, per la prima volta, emergeva l’esistenza di una falda freatica, che avrebbe comportato una maggiore friabilità del terreno ove avrebbero dovuto svolgersi i lavori, con conseguente necessità di opere ulteriori rispetto a quelle originariamente preventivate.
Effettuate le verifiche del caso e le necessarie modifiche al progetto, che veniva approvato dal Comune, la ricorrente chiedeva di concordare un nuovo piano economico-finanziario (PEF), che tenesse conto dello squilibrio economico registratosi nel corso della progettazione, nonché dei dati emersi in sede di verifica dello stesso esecutivo.
A questo punto emergevano anche altre problematiche, per cui il Comune con determinazione comunicava la risoluzione della concessione per l’impossibilità di un riequilibrio economico secondo le proposte effettuate dalla società.
Inoltre il Comune aveva altresì avviato un procedimento  finalizzato all’annullamento della originaria determinazione dirigenziale e di tutti gli atti conseguenziali, allegando la circostanza che, assunta l’iniziativa di conoscere dall’Istituto di credito finanziatore il nominativo del funzionario che aveva sottoscritto l’atto di asseverazione del piano economico e finanziario, l’Amministrazione si era vista partecipare, con comunicazione, la mancanza di concreto riscontro negli atti della Banca, pertanto di parte integrante ed essenziale della proposta.
La determinazione veniva impugnata dinanzi al TAR del Lazio, per violazione e falsa applicazione dell’art. 21 novies legge n. 241/1990, una ad eccesso di potere per difetto di presupposti e di istruttoria; violazione e falsa applicazione dell’art. 153, comma 9, del d.lgs. 163/2006 e dell’art. 96 del d.p.r. n. 207/2010, applicabili ratione temporis, gravame respinto in primo grado.
Più precisamente, le censure proposte dal ricorrente muovevano dalla tardività delle misure adottate in autotutela, in relazione a quanto dispone l’art. 21 nonies della L. n. 241/1990, s.m.i., in particolare la modifica al provvedimento sarebbe intervenuta oltre il termine di 18 mesi, previsto dalla norma, senza che sussistessero i requisiti previsti per il superamento di detto limite: “false rappresentazioni dei fatti”, ovvero di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”, conseguenti a “condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”; l’impossibilità di verificare attraverso la mera visone della lettera di asseverazione circa la fattibilità del piano economico-finanziario a suo tempo presentato, di desumere la falsità del documento medesimo; l’omissione  dei motivi e delle ragioni di interesse pubblico, connotate di concretezza ed attualità e distinte rispetto al mero e valorizzato interesse al ripristino della legalità asseritamente violata, idonee a giustificare  la rimozione degli atti di gara.
Il Tar del Lazio, rigettava il ricorso adducendo che in relazione all’applicabilità del comma 2 bis dell’art. 21 nonies cit., che consente l’intervento in autotutela anche oltre il termine di diciotto mesi, non fosse necessaria, quanto al presupposto della “falsa rappresentazione dei fatti”, il definitivo accertamento, in sede penale, della commissione di reati (riferibile esclusivamente alla distinta sottoipotesi del mendacio in “dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà”; che – quanto alla completezza istruttoria – le gravate determinazioni fossero idonee a dare adeguata ed esaustiva contezza dei relativi “presupposti di fatto” e delle valorizzate “ragioni giuridiche”; che, sotto il profilo motivazionale, ricorresse una congrua rappresentazione della comparazione degli interessi coinvolti.
Il Consiglio di Stato confermava la decisione prese in primo grado, specificando quanto segue.
Anzitutto rilevava che nel modificare la previsione dell’art. 21 nonies, comma 1, l’art. 14, comma 1 della L. n. 15/2005 aveva  innovato la tradizionale regola che rimetteva alla discrezionalità amministrativa, nel rispetto del (sindacabile) canone di “ragionevolezza”, la concreta gestione del limite temporale nella attivazione dei procedimenti di secondo grado in funzione di riesame stabilendo un limite temporale  ultra quem di diciotto mesi.
L’opzione normativa appariva con ogni chiarezza, ispirata alla logica di una astratta e generale prevalutazione ex lege degli interessi in conflitto: pertanto ove il privato avesse dovuto rimuovere, anche per silentium, un limite all’esercizio di facoltà giuridiche già acquisite, nonostante la verifica di compatibilità con l’interesse pubblico, nel proprio patrimonio di libertà od abbia, alternativamente, conseguito vantaggi o ausili finanziari in grado di impegnare pro futuro la programmazione della propria attività economica – alla Amministrazione veniva concessa la facoltà di rivedere il proprio operato, se  assunto in violazione del relativo paradigma normativo di riferimento, ma entro il limite temporale preclusivo dei diciotto mesi.
Tuttavia, opinava il Collegio, la fattispecie andava tenuta ben distinta dal caso in cui in cui la mancata sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento ampliativo della sfera privata prefigurasse un errore imputabile alla parte e non alla Amministrazione decidente.
Infatti appariva coerente che la parte non potesse beneficiare, contra factum proprium, della rigidità del termine imposto all’esercizio dell’autotutela: e ciò in quanto, per l’appunto: a) per un verso, l’affidamento vantato non avrebbe i connotati della meritevolezza di tutela; b) per altro verso, l’immutazione dei dati di realtà sottesi all’azione amministrativa non potrebbe plausibilmente comprimere – di là dal generale e generico limite di complessiva ragionevolezza – i tempi per l’accertamento della verità.
Ciò si pone in perfetta coerenza con la previsione di cui all’art. 21, comma 2 bis, che è ispirato al criterio della abusività del vantaggio conseguito mediante il proprio fatto doloso (norma che vieta di salvaguardare posizioni di vantaggio conseguite in mala fede: concretando siffatta mala fides proprio la “non affidabilità” del fatto, nella sua, altrimenti ordinaria, attitudine a generale legittime aspettative dell’altrui comportamento coerente).
Per l’applicazione dell’art. 21 comma 2 bis L. 241/1990, le “false rappresentazioni” devono essere  causalmente imputabili al comportamento della parte; la valenza obiettivamente determinante di siffatta falsa rappresentazione; il comportamento doloso della parte, nel senso che il provvedimento favorevole deve essere stato propriamente “conseguito” in forza di quest’ultimo.
Per poter risolvere la questione oggetto di giudizio occorrerà valutare se vi siano “false rappresentazioni dei fatti”; b) sia (alternativamente, come fatto palese dall’uso della congiunzione disgiuntiva) in caso di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci” ed effettuare un’operazione ermeneutica dell’ inciso “per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.
A parere del Collegio l’assunto “per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”, doveva riferirsi solo al secondo inciso sia per motivi di ordine testuale (e, prima ancora, rigorosamente grammaticale e sintattico), sia per motivi di ordine semantico, che seguendo un’interpretazione teleologica, considerato che il legislatore aveva inteso negare legittimità (e meritevolezza di tutela) agli affidamenti frutto di condotte dolose della parte, risultando a tal fine irrilevante la ricorrenza di fatti di reato (il cui richiamo si giustifica in relazione a quelle condotte di falsificazione che – per il mezzo della loro introduzione all’interno del procedimento – sono tipicamente suscettibili di violare disposizioni penali: come dimostrato dalla esplicita salvezza in explicit delle “sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”);
In definitiva, sulla scorta delle argomentate premesse, l’art. 21 nonies della L. n. 241/1990 andrà interpretato nel senso che il superamento del rigido termine di diciotto mesi è consentito: a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale; b) sia nel caso in cui l’(acclarata) erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso – non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa rimotiva – si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco.
Alla luce di quanto sopra, l’appello veniva rigettato.
(Altalex, 27 agosto 2018. Nota di Riccardo Bianchini)

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