28/08/2017 – Ratifica dell’accordo di programma

Ratifica dell’accordo di programma

 

Pubblicato: 28 Agosto 2017

TAR Lazio (RM) Sez. II-quater n. 8818 del 20 luglio 2017

In sede di ratifica ex art. 34, il consiglio comunale non può entrare nel merito dei contenuti dell’accordo di programma già firmato e negare la ratifica per ragioni sostanziali

Pubblicato il 20/07/2017

N. 08818/2017 REG.PROV.COLL.

N. 04249/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4249 del 2012, integrato da motivi aggiunti, proposto da Soc Ufficio di Roma a r.l. e Soc. Proedit a r.l, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’avvocato Gian Luca Ubertini, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Innocenzo XI n. 8,

contro

Comune di Frascati, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Caterina Albesano e Massimiliano Graziani, con domicilio eletto presso l’avvocatura comunale in Frascati, piazza G.Marconi, 3;

Regione Lazio, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Elisa Caprio, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Marcantonio Colonna, 27;

Provincia di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giovanna De Maio, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via IV Novembre, 119/A.

nei confronti di

Soc. Coop Asp – Agenzia Sviluppo Provincia per le Colline Romane a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Elisa Scotti e Paolo Pittori, con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, Lungotevere dei Mellini, 24.

per l’annullamento

quanto al ricorso principale

– della delibera del Consiglio comunale di Frascati n. 8 del 15 febbraio 2012 con la quale è stato deliberato di non ratificare l’accordo di programma per l’approvazione del progetto relativo alla realizzazione di un centro servizi per l’editoria in località Grotte Portella, in variante al PRG e in attuazione del patto territoriale delle Colline Romane,

nonché

per la condanna al risarcimento del danno nei confronti del Comune di Frascati e della Regione Lazio, ai sensi dell’art. 2 bis l. 241/90.

nonché,

quanto ai motivi aggiunti

per l’ulteriore risarcimento del danno ex art. 30 c.p.a.

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Frascati, della Regione Lazio, della Provincia di Roma e di Soc. Coop ASP – Agenzia Sviluppo Provincia per le Colline Romane a r.l.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 aprile 2017 la dott.ssa Maria Barbara Cavallo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con ricorso notificato il 14-16 maggio 2012, la Ufficio di Roma s.r.l. (in seguito “Ufficio di Roma”) ha impugnato il provvedimento con il quale il Comune di Frascati ha deliberato di non ratificare l’accordo di programma per l’approvazione del progetto relativo alla realizzazione di un centro servizi per l’editoria in località Grotte Portella, in variante al PRG e in attuazione del cd. patto territoriale delle Colline Romane.

La vicenda va riepilogata nei fatti salienti, stante la rilevanza, ai fini della decisione, anche della successione temporale dei vari eventi.

1.1. La Ufficio di Roma è una società immobiliare che svolge attività di compravendita, locazione e costruzione di immobili, che ha risposto all’avviso pubblico del 3 agosto 2004 dell’Agenzia Sviluppo Provincia (ASP), emanato nell’ambito del “Programma di Sviluppo integrato delle colline romane” per la presentazione di progetti definitivi o proposte infrastrutturali finalizzate a garantire un armonico sviluppo locale; tale programma prevedeva agevolazioni consistenti nello snellimento delle procedure amministrative volte ad ottenere le autorizzazioni anche in deroga rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali sulle aree interessate dai progetti.

Le procedure di ammissibilità e istruttoria, così come previsto dall’Avviso, avrebbero dovuto essere particolarmente celeri: dopo un fase istruttoria condotta dall’ASP della durata di 60 giorni, doveva seguire una altrettanto celere fase di istruttoria del Comune finalizzata alla verifica tecnica del progetto in relazione alle previsioni di PRG e che doveva concludersi con apposito parere (da espletarsi entro 60 giorni dal ricevimento della documentazione) e, infine, la convocazione della conferenza di servizi decisoria, la sottoscrizione dell’accordo di programma e la definitiva autorizzazione da parte del Comune.

1.2. La Ufficio di Roma presentava un progetto per la realizzazione di un centro servizi per l’editoria, costituito da un fabbricato industriale ed area scoperta di pertinenza da realizzarsi in località Grotte Portella, nel comune di Frascati in zona di piano industriale nella quale, in base alla deliberazione della giunta regionale n. 1620 del 29 marzo 1983, gli interventi edilizi restavano subordinati alla formazione di uno strumento attuativo apposito.

In base al progetto, l’attività di elaborazione dati e gestione prodotti editoriali sarebbe stata gestita dalla società Proedit, cui la società Ufficio di Roma avrebbe locato il capannone una volta realizzato.

1.3. Il procedimento partiva celermente e il progetto superava la verifica formale; nonostante un rallentamento procedimentale da parte del Comune di Frascati nell’ottobre 2005, la Regione convocava la conferenza di servizi che andava avanti per tutto l’anno 2006, stante l’assenza, alla prima riunione, del Comune di Frascati.

Il Comune, con deliberazione consiliare n. 62 del 28 settembre 2007, mutando il proprio precedente orientamento (e recependo quanto rappresentato dalla Direzione regionale territorio ed urbanistica con note del 25 maggio 2005) esprimeva parere favorevole in ordine all’approvazione del progetto e alla conseguente variante al vigente PRG, ai sensi dell’articolo 34 D.Lgs. n. 267/2000.

Dopo vari solleciti e diffide da parte della società richiedente (e dopo anche la presentazione di una denuncia querela per il reato di cui all’articolo 328 c.p. in forza della mancata pubblicazione della delibera 62/2007), veniva ri-convocata la conferenza dei servizi relativa al progetto in questione che, in data 21 luglio 2010, preso atto dei pareri favorevoli espressi dagli intervenuti, dichiarava conclusa positivamente la conferenza ai fini della successiva definitiva conclusione dell’accordo di programma.

L’accordo di programma veniva infine sottoscritto tra Regione, Provincia e Comune in data 16 gennaio 2012.

Esso, nel prendere atto dei pareri favorevoli intervenuti (e, tra gli altri, anche del parere favorevole “con prescrizioni” della Direzione Regionale Territorio ed Urbanistica reso con note del 3 maggio 2011 e del 13 maggio 2011), prevedeva che, ai sensi del comma 5 dell’articolo 34 del D.Lgs. n. 267/2000, l’adesione del Sindaco dovesse essere ratificata dal consiglio comunale di Frascati entro 30 giorni dalla data di sottoscrizione, a pena di decadenza dell’accordo stesso.

Prevedeva altresì ex novo alcune prescrizioni sulle dimensioni effettive dei fabbricati erigendi.

1.4. Con l’impugnata delibera n. 8 del 15 febbraio 2012, il consiglio comunale, rilevando che i pareri favorevoli intervenuti in relazione al progetto approvato in sede di accordo di programma prevedevano numerose prescrizioni (ed in particolare il parere della Direzione Regionale Territorio ed Urbanistica), riteneva che tale progetto fosse ormai sostanzialmente diverso da quello precedentemente approvato dallo stesso Consiglio (con la deliberazione n. 62 del 28 settembre 2007) e quindi decideva di non ratificare l’accordo di programma, “subordinandolo alla riformulazione compiuta del progetto in ragione delle prescrizioni intervenute, all’acquisizione dei pareri al momento non ancora acquisiti nonché alla verifica del permanere dei presupposti imprenditoriali – economico – finanziari alla base della proposta originaria ed adeguando alla luce di questi elementi il testo dell’accordo di programma”.

1.5. Ritenendo l’Accordo decaduto ai sensi dell’art. 34, co. 5, d.lgs. 267/2000, le società Ufficio di Roma e Proedit hanno proposto ricorso chiedendo l’annullamento della delibera n. 8 del 2012 e proponendo domanda di risarcimento dei danni da ritardo contro il comune di Frascati e la Regione Lazio, senza proporre istanza di sospensione del provvedimento impugnato.

La domanda di annullamento si fonda sui seguenti motivi:

I) Violazione dell’art. 2 della legge n. 1187/1968 (ora, art. 9 TU 327/2001).

Le ricorrenti sostengono che la procedura da cui scaturisce il provvedimento impugnato si fonda sulla necessità di una variante al PRG, affermata per la prima volta dal comune di Frascati con la delibera n. 62 del 2007, nella quale si ritiene che l’area sia assoggettata alla preliminare formazione di uno strumento urbanistico attuativo senza che sia applicabile il regime della decadenza del vincolo ultraquinquennale di cui all’art. 2 della l. 1187/1968.

A parere della parte privata, invece, nella specie si tratterebbe di un vincolo “strumentale”, ossia di un vincolo che subordina l’edificabilità di un’area all’inserimento della stessa in un programma pluriennale oppure alla formazione di uno strumento esecutivo, come tale assoggettato, dalla giurisprudenza, al regime dell’art. 2 l. 1187/1968, con efficacia temporale limitata al quinquennio e quindi ormai decaduto.

L’impugnata delibera n. 8 del 2012 sarebbe quindi illegittima in quanto emanata in virtù di un errato presupposto giuridico, posto che, non vigendo il vincolo strumentale, sarebbe stata consentita l’edificazione diretta, escludendosi dunque l’applicabilità del quinto comma dell’art. 34 d.lgs. 267/2000 (Ove l’accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici, l’adesione del sindaco allo stesso deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza) e, in definitiva, la necessità di alcuna ratifica da parte del Comune, stante la sola permanenza del vincolo dei parametri e indici urbanistici di cui alla delibera regionale n. 1620/1983.

L’accoglimento di tale motivo di ricorso comporterebbe, a parere delle ricorrenti, la conclusione del procedimento amministrativo con la sola sottoscrizione dell’accordo di programma, senza necessità di ratifica del consiglio comunale, e quindi la possibilità di richiedere il permesso di costruire per l’intervento edilizio diretto.

1.5.1. Gli ulteriori motivi risultano subordinati al primo, e segnatamente:

II) Violazione dell’articolo 34 D.Lgs. n. 267/2000 – eccesso di potere per sviamento.

L’impugnata delibera, nel disporre unilateralmente nella fattispecie, si sarebbe posta in contrasto con i principi di leale collaborazione e di condivisione dell’azione amministrativa tra i vari enti pubblici coinvolti che sono alla base degli accordi di programma, caratterizzati dalla paritaria codeterminazione dell’atto.

III) Violazione di legge e sull’eccesso di potere sotto vari profili (contraddittorietà con precedenti atti, falsa presupposizione, difetto di motivazione).

Sussisterebbe contraddizione tra la delibera n. 62 del 2007 (con la quale il Comune aveva espresso parere favorevole all’approvazione del progetto in questione) e la delibera impugnata (con la quale invece non è stato ratificato l’accordo sottoscritto dal sindaco); inoltre la ragione della mancata ratifica (consistente nell’asserita, sostanziale, diversità del progetto rispetto a quello precedentemente approvato) sarebbe assolutamente irrilevante e parimenti contraddittoria, in quanto le prescrizioni inserite dalla Direzione Regionale Territorio e Urbanistica (consistenti nella riduzione dell’estensione longitudinale dell’edificio e nella necessità di impostare la quota 0,00 nella parte a valle del terreno) avrebbero comportato addirittura un minore impatto edilizio ed ambientale rispetto a quanto in precedenza assentito.

IV) Violazione dell’articolo 34 D.Lgs. n. 267/2000.

Le motivazioni addotte dal consiglio comunale per non ratificare l’Accordo di programma, sottoscritto dal sindaco, sarebbero assolutamente estranee e contrarie alla previsione normativa in esame, che richiede la ratifica del consiglio comunale se l’accordo comporti variazioni agli strumenti urbanistici, con la conseguenza che il consiglio comunale deve limitare le proprie valutazioni esclusivamente agli aspetti urbanistici dell’accordo. Nella specie, invece, il consiglio comunale ha svolto un controllo sull’intero procedimento amministrativo (sul nulla osta dell’Asl, sulla certificazione dell’Acea, sulla permanenza del soddisfacimento delle esigenze imprenditoriali), subordinando una ipotetica ratifica futura alla “riformulazione completa del progetto in ragione delle prescrizioni intervenute, all’acquisizione dei pareri non ancora acquisiti nonché alla verifica del permanere dei presupposti imprenditoriali ed economico-finanziari alla base della proposta originaria ed adeguando alla luce di questi elementi il testo dell’Accordo di programma”.

L’accoglimento di uno dei tre motivi proposti in via subordinata (il secondo, il terzo e il quarto) comporterebbe, a parere delle ricorrenti, l’annullamento dell’impugnata delibera e la restituzione degli atti al Comune affinché assuma una nuova delibera di ratifica dell’accordo di programma.

1.6. La domanda risarcitoria (“per il danno da ritardo per inosservanza dolosa o colposa dei termini di conclusione del procedimento” ai sensi dell’articolo 2 bis della legge n. 241/1990 o, in subordine, ai sensi dell’articolo 30, comma primo, c.p.a.) si fonda sui seguenti motivi:

i) il Comune sarebbe il principale responsabile del ritardo accumulato dall’intera procedura, oltre quattro anni dall’approvazione del progetto (delibera n. 62 del 28 settembre 2007) alla sottoscrizione dell’accordo di programma (16 gennaio 2012);

ii) anche la Regione sarebbe tuttavia responsabile, avendo inserito nell’accordo di programma sottoscritto il 16 gennaio 2012 le prescrizioni della Direzione Regionale Territorio e Urbanistica di cui non si era minimamente fatto cenno durante la conferenza di servizi (come da verbale della seduta conclusiva del 21 luglio 2010).

La colpa sarebbe comunque in re ipsa, per il semplice notevole ritardo accumulato nel tempo (circa otto anni dall’inizio della procedura).

Per la quantificazione del danno (derivante dalla mancata conclusione del procedimento dal 2005 alla data di proposizione del ricorso) le società ricorrenti fanno riferimento alle proiezioni economico – finanziarie contenute nel piano di fattibilità allegato al progetto e chiedono entrambe le somme corrispondenti agli utili non conseguiti, consistenti:

– per la società Ufficio di Roma (quale proprietario e locatore dell’immobile), nell’importo di euro 405.000 nonché nell’ulteriore importo pari ad euro 50.000 (a titolo di spese sostenute per la proposta);

– per la società Proedit (quale conduttore dell’immobile e soggetto deputato a svolgere l’attività editoriale per la quale il progetto era stato concepito), nell’importo pari ad euro 706.000.

2. Con motivi aggiunti notificati il 12 luglio 2012, le società ricorrenti (mutando radicalmente l’impostazione e la configurazione della propria pretesa risarcitoria, come svolta nel ricorso introduttivo, che si fondava sul presupposto che l’utilità finale perseguita, ovvero la realizzazione del centro servizi per l’editoria, fosse ancora conseguibile, seppure con ritardo) hanno prospettato l’eventualità che tale utilità sostanziale non sia più realizzabile in quanto, ai sensi del quinto comma dell’articolo 34 del D.Lgs n. 267/2000, la mancata ratifica dell’accordo di programma entro il termine di 30 giorni dalla sottoscrizione ne comporta la decadenza.

Hanno quindi promosso, nei soli confronti del Comune, azione di condanna in via autonoma, ai sensi dell’articolo 30 c.p.a., entro il termine di 120 giorni dal 15 marzo 2012 (scadenza del termine di affissione all’albo pretorio della deliberazione n. 8 del 2012).

Per la quantificazione del danno derivante dalla totale impossibilità di realizzare l’intervento programmato, le ricorrenti hanno fatto sempre riferimento alle proiezioni economico finanziarie contenute nel piano di fattibilità e quindi hanno chiesto la liquidazione di 706.560,00 (la Ufficio di Roma), e euro 1.225.440,00 (la Proedit).

3. Si è costituito il comune di Frascati, il quale, con memoria depositata in vista dell’udienza pubblica, ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, per mancata impugnazione dell’accordo di programma, che sarebbe l’atto concretamente lesivo per la situazione giuridica delle ricorrenti.

Tale Accordo, secondo la prospettazione contenuta nel ricorso, avrebbe stravolto il progetto presentato dalla società ufficio di Roma per cui la sua mancata impugnazione determinerebbe in ogni caso l’impossibilità di realizzare il progetto presentato.

Sempre in via preliminare, ha eccepito il difetto di legittimazione attiva della società Proedit, in quanto l’istanza di partecipazione all’avviso pubblico sarebbe stata presentata unicamente dalla società Ufficio di Roma.

3.1.In relazione al primo motivo di ricorso, ne deduce l’inammissibilità, per mancata impugnazione della delibera consiliare n. 62/2007, che ha approvato il progetto delle ricorrenti in variante al PRG vigente.

In relazione agli altri tre motivi del ricorso introduttivo, ne deduce l’infondatezza per le seguenti ragioni:

i) le prescrizioni imposte dalla Regione nell’accordo di programma avrebbero comportato lo stravolgimento totale del progetto originario, come riconosciuto dalla stessa società ricorrente, e quindi non sarebbe stato opportuno ratificare l’accordo;

ii) non sussiste alcuna contraddittorietà rispetto alla precedente deliberazione consiliare n. 62/2007, stante la totale diversità del progetto che ne formava oggetto;

iii) non ci sarebbe alcuna violazione dell’articolo 34, comma quinto, d.lgs. 267/2000, avendo il consiglio comunale deciso in virtù delle proprie attribuzioni in materia urbanistica.

Per quanto riguarda la domanda risarcitoria, ne rileva l’inammissibilità per difetto di legittimazione passiva del Comune, posto che l’eventuale ritardo sarebbe addebitabile unicamente all’Agenzia Sviluppo Provincia costituita dalla provincia di Roma.

La domanda risarcitoria proposta ai sensi dell’articolo 30 c.p.a. sarebbe comunque inammissibile per tardività.

Inoltre, il Comune ha contestato la quantificazione del danno in quanto basata sui risultati di uno studio di fattibilità relativo ad un progetto non cantierabile, in quanto stravolto nell’accordo di programma sottoscritto, ha negato la risarcibilità della somma di euro 50.000 per spese sostenute per la proposta, in quanto i costi a tal fine sostenuti sarebbero stati comunque sopportati dalla società ricorrente anche in caso di tempestiva adozione dell’accordo di programma, e ha comunque ribadito che la mancata proposizione della domanda cautelare ha aggravato una situazione che la parte stessa ha inteso, nei fatti, non risolvere.

4. Si è costituita la Regione Lazio ritenendo prive di pregio le contestazioni della parte ricorrente, anche per quanto riguarda la domanda risarcitoria espressamente rivolta nei propri confronti, e questo in ragione della mancata impugnazione dell’accordo di programma, che già conteneva le prescrizioni sulle quali si è poi fondata la mancata ratifica da parte del Comune.

La Regione ha altresì negato alcuna inerzia, stante la complessità dell’iter di approvazione, e che, anche in applicazione dell’articolo 1227 c.c., la parte ricorrente avrebbe dovuto graduare le rispettive responsabilità del Comune e della Regione, oltre che proprie.

In ogni caso, un eventuale danno risarcito dovrebbe essere commisurato con decorrenza dalla data di concreta possibilità di esecuzione dell’opera.

La Regione ha altresì negato la risarcibilità di danni in favore della Proedit, in quanto tale società ben avrebbe potuto locare altri locali per provvedere all’ampliamento del proprio raggio di operatività.

5. Nella memoria di replica depositata il 21 marzo 2017 le società ricorrenti, compresa la Proedit (che ha ribadito la propria legittimazione all’azione risarcitoria in quanto presente nel progetto presentato al pari di un’impresa associata in un’ATI), hanno contestato la ricostruzione dei fatti offerta dal Comune di Frascati, hanno negato l’inammissibilità del gravame per carenza di interesse in forza della mancata impugnazione dell’accordo di programma, hanno ribadito i vizi di contraddittorietà e di violazione di legge, soprattutto perché, per effetto delle prescrizioni, l’intervento edilizio risultava di minore impatto rispetto a quello in precedenza assentito ed in quanto nessuna analisi della conformità del progetto alle destinazioni urbanistiche è stata svolta da parte del consiglio comunale.

Le ricorrenti hanno altresì ribadito la responsabilità della Regione nella causazione del danno da ritardo, non avendo la stessa compiuto l’attività di impulso richiesta dal protocollo d’intesa del 4 novembre 2002, trasfuso nell’avviso pubblico. In particolare la Regione avrebbe dovuto provvedere a promuovere tutte le attività relative alle conferenze di servizi per l’approvazione definitiva dei progetti, cosa invece fatta dal presidente della provincia di Roma. Così come, dopo la conclusione positiva della conferenza dei servizi, il 21 luglio 2010, sarebbe trascorso un altro anno e mezzo di assoluta inerzia fino alla sottoscrizione dell’accordo di programma, in data 16 gennaio 2012.

Infine hanno ribadito che l’azione risarcitoria proposta con i motivi aggiunti soltanto nei confronti del comune di Frascati deve ritenersi assorbente, sul piano logico giuridico, di ogni ulteriore richiesta, in quanto la mancata ratifica dell’accordo di programma ha determinato la sopravvenuta impossibilità di realizzazione del progetto e quindi di conseguimento dell’utilità perseguita.

Con ciò hanno ribadito la formulazione in via subordinata della domanda risarcitoria per danno da ritardo (proposta sia nei confronti del Comune che della Regione), quindi, a detta loro, esclusivamente per l’eventualità che la deliberazione comunale impugnata sia considerata legittima.

Tale domanda sarebbe comunque fondata perché dovrebbe senz’altro considerarsi superato il termine di conclusione del procedimento, secondo la tempistica individuata nell’art. 9 dell’avviso pubblico.

6. All’udienza pubblica dell’11 aprile 2017 la causa, dopo la discussione, è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Devono essere disattese le eccezioni preliminari sollevate dal Comune di Frascati.

Quanto alla dedotta carenza di legittimazione attiva della Proedit, basti considerare che essa era parte attiva del progetto presentato dall’Ufficio di Roma s.r.l., come risulta da pag. 12 del Piano di fattibilità (doc. 5 prod. ricorrente).

È quindi chiaro sia il suo interesse, sia la sua legittimazione a proporre ricorso, in quanto danneggiata, in maniera diretta, dalla mancata ratifica.

1.1. Non è parimenti sostenibile che le ricorrenti avrebbero dovuto impugnare l’accordo di programma in quanto ad esso sarebbe riconducibile lo stravolgimento del progetto poi non ratificato dal Comune.

In realtà, come detto, nell’Accordo erano state inserite, all’insaputa della Ufficio di Roma, alcune prescrizioni relative alle dimensioni dei fabbricati erigendi e, in generale, dei diritti edificatori.

Tuttavia, esse non sono mai state oggetto di contestazione da parte delle società private, le quali avrebbero portato a termine il progetto nonostante tali modifiche.

La vera, unica, lesione delle posizioni soggettive delle ricorrenti è quindi data esclusivamente dalla mancata ratifica dell’Accordo, da parte del Comune, che ha unilateralmente deciso di pretendere una riformulazione del progetto già approvato, e comunque recepito nell’Accordo da esso stesso firmato, senza che le ricorrenti avessero neppure manifestato una qualsivoglia forma di dissenso rispetto alle prescrizioni inserite ex novo dalla Regione.

2. Così decise le eccezioni preliminari, il Collegio passa dunque al merito del ricorso.

Il primo motivo è infondato.

La delibera comunale 62/2007, nell’approvare il progetto presentato dall’Ufficio di Roma s.r.l., aveva preteso la realizzazione di una variante urbanistica e, quindi, la stipula di un accordo di programma ai sensi dell’art. 34 d.lgs. 267/2000; ciò in quanto la delibera di Giunta regionale n. 1620/83 imponeva lo strumento del piano attuativo, per edificare nella zona di Grotta Portella.

Parte ricorrente, come detto, sostiene che la suindicata prescrizione costituisca un vincolo cd. strumentale, assimilabile ai vincoli ablatori, come tale decaduto per decorso del termine quinquennale di cui all’art. 2 della l. 1187/68.

2.1. Il Collegio ritiene che le ricorrenti errino a monte, nel ritenere che quanto stabilito dalla delibera regionale 1620/83 circa la necessità di “un intervento urbanistico preventivo, da approvarsi dal Comune” (vedi doc. 6 prod. ricorrenti) configuri un vincolo avente le caratteristiche di cui all’art. 2 della l. 1187/68 (oggi trasfuso nell’art. 9 del D.P.R. n. 327/2001) per come interpretato dalla giurisprudenza.

È certamente vero che l’orientamento attualmente maggioritario e dominante ritiene che il criterio della decadenza quinquennale (secondo cui i vincoli preordinati all’esproprio o quelli comportanti inedificabilità perdono efficacia ove non seguiti nell’arco del quinquennio dalla approvazione del piano attuativo) si estende anche ai vincoli c.d. strumentali, cioè a quei vincoli che subordinano l’edificabilità di un’area all’inserimento della stessa in un programma pluriennale oppure alla formazione di uno strumento esecutivo (in questo senso, vedi anche Tar Campania- Napoli, sez. II, 24 febbraio 2016, n. 1029).

Va tuttavia messo in evidenza che la nozione di “vincolo strumentale” è comunque riferibile a quelle prescrizioni che producano una pressoché totale ablazione del diritto di proprietà, essendo tanto intensi da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono, ivi compresa l’ipotesi di imposizione temporanea di inedificabilità fino all’entrata in vigore dei piani particolareggiati, per la cui redazione non sia fissato alcun termine finale certo.

In sostanza, per essere considerato “strumentale” occorre che il vincolo impedisca in modo netto l’edificabilità dell’area, svuotando il contenuto del diritto di proprietà e incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.

In questo senso, la previsione di una determinata tipologia urbanistica non configura un vincolo preordinato all’espropriazione né comportante l’inedificabilità assoluta, trattandosi di una prescrizione diretta a regolare concretamente l’attività edilizia, in quanto inerente alla potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato come espressamente stabilito dall’art. 11 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 5 novembre 2014, n. 5706).

2.1.1. Orbene, v’è fortemente da dubitare che la previsione di cui alla delibera n. 1620/83 configuri un vincolo di tal fatta, per la semplice ragione che essa costituisce una semplice previsione a completamento del regime urbanistico della zona in questione, come qualificata dal PRG, e senza che possa ritenersi che essa abbia un effetto ablativo o ostativo all’edificazione, tale da farla ritenere assimilabile a un vincolo strumentale e, quindi, alla disciplina di cui all’art. 2 citato.

D’altra parte, la ratio evidente della decadenza dei vincoli, anche nell’accezione più estesa, è quella di porre rimedio ai ritardi o all’inerzia dell’Amministrazione nell’attuazione in concreto degli strumenti urbanistici generali, al fine di evitare il sostanziale svuotamento del diritto di proprietà.

Nel caso di specie, siamo di fronte a una fattispecie sostanzialmente opposta: l’intervento urbanistico preventivo (in sostanza, una richiesta di variante al PRG) proviene direttamente dalla parte privata e al Comune spetta semplicemente l’approvazione.

Vi è quindi da ritenere che la decisione del Comune di non consentire l’edificazione diretta sia certamente corretta e comunque è evidente che se le ricorrenti avessero inteso censurare la scelta dell’Amministrazione, avrebbero dovuto impugnare direttamente la delibera n. 62/2007, rendendo inammissibile la proposizione di tale censura.

3. I motivi successivi, da interpretare alla stregua di un unico motivo, sono fondati e devono essere accolti.

La vicenda in sé ha uno snodo fondamentale: l’approvazione dell’Accordo di programma il 16 gennaio 2012, all’esito della conferenza di servizi iniziata nel 2010.

L’istituto in questione costituisce un’ipotesi di urbanistica negoziata, particolarmente utile per la ponderazione di interessi pubblici concorrenti, e può comportare variazioni agli strumenti urbanistici vigenti anche per la realizzazione di un’opera di un soggetto privato, su aree di proprietà privata e per finalità private; tuttavia, ai sensi dell’art. 15 della l. 7 agosto 1990 n. 241, i destinatari degli accordi di programma sono le amministrazioni pubbliche, sicché i privati non possono essere portatori di diritti soggettivi nascenti dall’accordo ma, se incisi dallo stesso, sono portatori di un interesse legittimo al corretto esercizio del potere amministrativo, suscettibile di tutela con gli ordinari rimedi consentiti dall’ordinamento (così, Cons. St., 25 novembre 2015, n. 361).

Più specificatamente, esso rappresenta una speciale tipologia di accordo tra pubbliche amministrazioni finalizzato alla definizione ed attuazione, con eventuale incidenza sugli strumenti urbanistici, di opere, interventi o programmi che richiedono per la loro completa realizzazione l’azione integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali o di altri soggetti pubblici (Cons. St., sez. IV, 21 novembre 2005, n. 6467)

3.1. Ciò detto, nel caso di specie l’Accordo del 16 gennaio 2015 presentava prescrizioni aggiuntive a carattere edificatorio, non oggetto di contraddittorio in conferenza di servizi, ma comunque approvate anche dal Comune di Frascati in qualità di firmatario, nella persona del sindaco, dell’accordo stesso.

La necessità della ratifica nasceva dunque semplicemente dall’applicazione del comma 5 dell’art. 34 d.lgs. 267/2000, in base al quale “ove l’accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici, l’adesione del sindaco allo stesso deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza”.

La disposizione è chiara nel prevedere la competenza del consiglio comunale a fare proprio un atto che, altrimenti, fino al momento della ratifica, non spiega alcuna efficacia (Cons. St., sez. IV, 22 febbraio 2013, n. 1097).

D’altra parte è noto che si ha ratifica quando l’organo competente fa proprio un atto emesso da un organo incompetente, consentendogli di spiegare efficacia retroattivamente.

Nel caso della ratifica prevista dall’art. 34, comma 5, del d.lgs. 267/2000 si ha, nella sostanza, un meccanismo di ratifica ex lege, quindi non frutto di un procedimento amministrativo di secondo grado, in cui l’incompetenza del Sindaco firmatario dell’accordo è presupposta ab origine e necessita del placet dell’organo consiliare per consentire all’atto di spiegare i suoi effetti.

3.1.1. La questione che si pone, dunque, all’attenzione del collegio è se in sede di ratifica ex art. 34, il consiglio comunale possa entrare nel merito dei contenuti dell’accordo di programma già firmato e negare la ratifica per ragioni sostanziali, come avvenuto nel caso di specie.

La risposta è negativa per ragioni di ordine letterale e sistematico.

In primo luogo, la disposizione del comma 5 parla espressamente di “ratifica” e quindi non può lasciare dubbi in ordine al fatto che si riferisca a quella forma di atto amministrativo che mira a preservare gli effetti di un atto adottato da organo incompetente, con l’unica precisazione che trattasi di incompetenza sancita direttamente dalla legge, tenuto conto che è la stessa legge a preoccuparsi di fare in modo che lo strumento negoziato (accordo) acquisti il crisma di provvedimento amministrativo vero e proprio laddove esso impinga in ambiti di stretta competenza dell’ente pubblico, quali le modifiche agli strumenti urbanistici.

La disposizione costituisce quindi massima espressione dell’interesse del legislatore alla salvaguardia dell’interesse pubblico all’organico controllo delle modifiche al territorio, che sarebbero a rischio laddove si consentisse al sistema dato dal binomio “conferenza di servizi” – “accordo di programma”, di apportare modifiche al sistema di regolamentazione urbanistica senza passare per il consiglio comunale.

Che si tratti di un provvedimento di mera assunzione di competenza non vi sono dubbi, perché, diversamente opinando, il legislatore avrebbe utilizzato un termine diverso e presumibilmente avrebbe fatto riferimento non alla ratifica, bensì alla “convalida”, che è il provvedimento con il quale l’amministrazione elimina un vizio di legittimità dall’atto che ne era affetto.

Al riguardo, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che l’accordo di programma è sottoscritto dal sindaco, legittimamente ma a titolo provvisorio, secondo i principi che governano l’istituto della ratifica, e non acquista efficacia se non è approvato dal competente Consiglio comunale nel termine di decadenza di trenta giorni (così, Cons. St., sez. IV, 21 novembre 2005, n. 6467; id. Cons. St., sez. IV, 9 ottobre 2002, n. 5365).

In secondo luogo, la funzione di formale presa d’atto della ratifica di cui al comma 5, risiede nell’essenza stessa del sistema di attività amministrativa negoziata di cui all’art. 34 d.lgs. 267/2000, che è frutto del binomio conferenza di servizi – accordo, secondo quanto stabilito dallo stesso art. 34.

Pertanto, quando il soggetto avente la competenza primaria o prevalente sull’opera o sugli interventi o sui programmi di intervento da realizzare promuove la conclusione di un accordo di programma, “per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”, è obbligatoria la convocazione di una conferenza tra i rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate, “per verificare la possibilità di concordare l’accordo di programma”.

Il binomio conferenza di servizi (chiaramente istruttoria) – accordo di programma attribuisce un valore di programmazione e decisione piena all’incontro della volontà delle parti interessate, anche quando, in caso di variante dei piani urbanistici, sia necessaria la ratifica da parte dell’organo consiliare normalmente competente, che in giurisprudenza è stata considerata alla stregua di “atto interno che si inserisce nella sequenza procedimentale tesa al perfezionamento dell’accordo di programma” (Cons. St., sez. IV, 27 maggio 2002, n. 2909).

Ne discende che non può esservi spazio per un intervento, da parte del consiglio comunale, che entri nel merito dell’accordo già negoziato.

Il consiglio, infatti, se decide – nel pieno delle sue prerogative – di non avallare la decisione del Sindaco aderente, semplicemente non ratifica entro trenta giorni, facendo così decadere in automatico l’accordo.

Ma hanno pienamente ragione le società ricorrenti laddove lamentano la violazione dell’art. 34, comma 5, d.lgs. 267/2000 in quanto il consiglio comunale avrebbe svolto un controllo sull’intero procedimento amministrativo (sul nulla osta dell’Asl, sulla certificazione dell’Acea, sulla permanenza del soddisfacimento delle esigenze imprenditoriali), subordinando una ipotetica ratifica futura alla “ riformulazione completa del progetto in ragione delle prescrizioni intervenute, all’acquisizione dei pareri non ancora acquisiti nonché alla verifica del permanere dei presupposti imprenditoriali ed economico-finanziari alla base della proposta originaria ed adeguando alla luce di questi elementi il testo dell’Accordo di programma”.

Il collegio va oltre, e chiarisce che la natura del meccanismo di ratifica avrebbe impedito al consiglio comunale di Frascati anche di entrare nel merito delle scelte di tipo urbanistico.

Operando nel modo suddetto, chiaramente contrario al disposto di legge, il consiglio comunale ha sostanzialmente operato una sorta di ritiro (non consentito) dell’atto, avente le caratteristiche sia dell’annullamento d’ufficio che della revoca, ma senza identificarsi pienamente in nessuno dei due: una sorta di autotutela auto-imposta, nella quale vengono rilevate carenze sostanziali dell’atto in relazione, come già illustrato, alle prescrizioni intervenute, all’acquisizione dei pareri non ancora acquisiti nonché alla verifica del permanere dei presupposti imprenditoriali ed economico-finanziari alla base della proposta originaria, che, da un lato, fanno pensare a una sorta di revoca (ma l’atto è formalmente non revocabile, in quanto ancora inefficace, e la revoca, si sa, incide sugli effetti dell’atto a seguito di rivalutazione dell’interesse pubblico), dall’altro a un annullamento d’ufficio stante la rimozione dell’atto (valido ma inefficace) ex tunc, ma per ragioni che non appaiono affatto corrispondenti a vizi di legittimità tali da invalidare la decisione, salvo spingersi a pensare che il mancato recepimento delle nuove prescrizioni o la mancata acquisizione dei pareri non acquisiti costituisca vizio tale da rendere invalida la decisione concertata.

L’anomalia di questa originale forma di autotutela risiede nella circostanza che il Comune ha autonomamente rivalutato l’interesse pubblico alla definizione dell’accordo, ovviamente senza fornire alle parti alcuna comunicazione preventiva sul punto, e senza dire alcunchè sull’unica ragione legittimante il suo intervento, ossia la conformità dell’accordo agli strumenti urbanistici oggetto di variazione, perché è quello l’unico caso in cui l’art. 34 impone l’intervento del Comune.

In tutti gli altri casi, il comma 4 dell’art. 34 TUEL stabilisce che “l’accordo, consistente nel consenso unanime del presidente della regione, del presidente della provincia, dei sindaci e delle altre amministrazioni interessate, è approvato con atto formale del presidente della regione o del presidente della provincia o del sindaco ed è pubblicato nel bollettino ufficiale della regione”.

La circostanza che il successivo comma 5 imponga la ratifica del consiglio comunale “ove l’accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici” costituisce dunque circostanza eccezionale, isolata, coerente con il sistema, ma di fatto circoscritta al caso di specie e finalizzata a evitare che le variazioni degli strumenti urbanistici (che possono comportare anche sostituzioni delle concessioni edilizie, oltre che varianti ai Piani, vedi sempre disposto del comma 4 della disposizione in questione) avvengano senza il consenso del Comune, che di fatto va a approvare, con la ratifica, l’operato di un organo – il Sindaco – che in materia urbanistica non ha alcuna competenza specifica tale da legittimare la presenza del suo solo consenso per apportare variazioni decisive nel tessuto urbanistico.

Proprio in ragione dell’eccezionalità di questa attribuzione di potere, è evidente che la ratifica non può essere intesa come disponibilità di un potere di autotutela nel merito della scelta frutto dell’azione concordata degli enti locali nella conferenza di servizi e poi nel successivo accordo di programma.

Di talchè, se è legittimo, su un piano formale che in sede di accordo di programma siano recepite, anche all’insaputa delle parti, eventuali decisioni assunte nella conferenza di servizi o anche da taluno degli enti coinvolti, separatamente (nel caso di specie, si tratta delle note prescrizioni di adeguamento delle dimensioni dei fabbricati a determinati standards), non è altrettanto legittimo che il Comune si spinga oltre, fino a negare la ratifica per ragioni che, di fatto, esulano dai suoi poteri e dalla sua sfera di competenza, in quanto neppure aventi ad oggetto valutazioni di carattere urbanistico.

L’alterazione della sequenza procedimentale e i contenuti del provvedimento emesso il 15 febbraio 2012 (e quindi nei trenta giorni dalla sottoscrizione dell’Accordo il 16 gennaio dello stesso anno, che, quindi, era perfettamente vigente e non era affatto decaduto) rendono palesemente illegittima l’azione del Comune, sotto il profilo della violazione della disciplina degli accordi di programma ex art. 34 d.lgs. 267/2000 caratterizzati dalla paritaria codeterminazione dell’atto e, in linea di massima, da principi di leale collaborazione e di condivisione dell’azione amministrativa tra i vari enti pubblici coinvolti, e anche sotto il profilo, lungamente esposto, della violazione della disciplina della ratifica di cui al comma 5, e determinano l’annullamento della delibera impugnata.

4. Il Collegio passa ora a esaminare l’accoglibilità delle domande risarcitorie, premettendo che, per esplicita richiesta della parte ricorrente, la domanda di risarcimento del danno da ritardo è stata posposta a quella di cui all’art. 30 c.p.a., proposta con i motivi aggiunti e che quindi viene esaminata per prima.

4.1. La domanda risarcitoria va respinta perché le ricorrenti non hanno fornito prova dei danni subiti a causa dell’illegittimo comportamento dell’Amministrazione.

È costante e non controverso il riferimento giurisprudenziale ai requisiti necessari per configurare la responsabilità della Pubblica amministrazione per i danni provocati dall’azione amministrativa, ossia l’adozione di un provvedimento illegittimo, la dimostrazione del dolo o della colpa (da valersi quale elemento costitutivo del diritto al risarcimento) dell’autorità che lo ha emanato, non essendo sufficiente il solo annullamento dell’atto lesivo, e la prova che dalla colpevole condotta amministrativa sia derivato, nella sfera patrimoniale del presunto danneggiato, un pregiudizio economico direttamente riferibile all’assunzione od all’esecuzione della determinazione illegittima (ex plurimis, Cons. St., sez. VI 14 ottobre 2016 n. 4266; id., sez. IV, 1 agosto 2016 n. 3464; id., sez. III, 9 febbraio 2016 n. 559; id., sez. V, 18 gennaio 2016, n. 125; id., sez. III, 11 marzo 2015, n.1272; id., sez, VI, 8 luglio 2015, n.3400; id., sez. V, 13 gennaio 2014, n. 63).

È altresì affermato in giurisprudenza che occorre anche la dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, che l’aspirazione al provvedimento sia destinata a esito favorevole, dovendo la parte dimostrare, anche con il ricorso a presunzioni, la spettanza definitiva del bene collegata a tale interesse.

4.2. Nel caso di specie, non sembra che esistano grandi margini di aleatorietà rispetto al fatto che il progetto, una volta approvato, sarebbe stato formalmente cantierabile e, in definitiva, realizzabile, posto che esso era stato approvato, nei contenuti, con la sottoscrizione dell’accordo di programma del 16 gennaio 2012, e al massimo avrebbe potuto non essere ratificato dal Comune in applicazione del comma 5 dell’art. 34.

Considerato che il provvedimento di mancata ratifica è stato giudicato, come illustrato supra, illegittimo per le ragioni indicate, al Collegio è consentita la valutazione circa la spettanza alle ricorrenti del bene della vita, sicchè, in mancanza di elementi di segno opposto, non può che confermarsi il contenuto dell’Accordo già firmato, sulla cui validità non possono essere fatte osservazioni, posto che esso non è stato oggetto di impugnazione e considerando che le ragioni sostanziali della non ratifica sono, come detto, palesemente illegittime.

4.3. La questione, quindi, attiene a un profilo probatorio che involge esclusivamente la prova del danno e che è strettamente collegata al tipo di iniziativa imprenditoriale assunta nonché alle allegazioni e richieste della parte.

Nell’atto di motivi aggiunti, ove la domanda è stata proposta, le ricorrenti dedicano alla allegazione della richiesta, e alla relativa prospettazione probatoria, poche righe, contenute solo nell’ultima pagina dell’atto difensionale, nelle quali affermano che “deve aversi riguardo alle proiezioni economico finanziarie contenute nel piano di fattibilità dell’iniziativa imprenditoriale proposta. La quantificazione del danno non può che derivarsi dalla attualizzazione dei redditi annui futuri attesi dai ricorrenti, pari a 111 mila euro annui per Proedit s.r.l. e 64 mila euro annui per Ufficio di Roma s.r.l., per una durata illimitata e ad un tasso del 9,06% (pari al ROI convenzionale, come determinato nella scheda tecnica), per un importo totale di 1.932.000”.

A tale prospettazione segue, subito dopo, la richiesta di condanna al risarcimento del Comune di Frascati, ex art. 30 c.p.a. “nella misura di euro 706.560,00 a favore di Ufficio di Roma s.r.l. e euro 1.225.440,00 a favore della Proedit s.r.l.”.

Il Collegio, oltre a rilevare una evidente e ingiustificata contraddizione nelle somme richieste, rileva che le parti non hanno fornito alcun elemento che consenta non solo di calcolare il presunto danno, ma, soprattutto, di stabilirne gli elementi essenziali e le voci oggetto di richiesta risarcitoria.

Deve rilevarsi, sul punto, che la domanda non ha riguardo a danni emergenti ma solamente a possibile lucro cessante, consistendo nella richiesta di refusione dei possibili redditi futuri.

Infatti, la domanda di refusione delle spese, pari a 50.000 euro, faceva parte della domanda di risarcimento del danno da ritardo, posposta a quella ex art. 30 c.p.a., e non riproposta in tale sede.

Quello che rende la richiesta inaccoglibile è la circostanza che essa si basi su elementi assolutamente aleatori, facenti capo al “Piano di fattibilità” (doc. 5 prod. ricorrenti), che rappresenta l’illustrazione dell’iniziativa imprenditoriale ma che di per sé è semplicemente un documento previsionale e astratto, avente ad oggetto un progetto del tutto irrealizzato e soggetto, come ogni iniziativa imprenditoriale, a una serie di variabili non valutabili in concreto.

La domanda risarcitoria, disattendendo quindi questo aspetto, ritiene acquisiti mancati guadagni dell’attività, una volta realizzata e a regime, che si basano esclusivamente su proiezioni ipotetiche contenute nelle strumento programmatorio, ma del tutto disancorate da elemini oggettivi o da riscontri concreti circa la loro realizzazione.

In sostanza la parte confonde l’astratta cantierabilità dell’opera (riconosciuta anche da questo collegio) con la sua concreta eseguibilità.

Non per nulla, lo stesso nome del Piano, denominato “di fattibilità”, dimostra chiaramente che nessuna domanda risarcitoria avrebbe potuto essere proposta dando per esistente qualcosa che esistente non era, posto che non esiste un nesso causale immediato tra l’approvazione del progetto (illegittimamente negata dal Comune) e la sua certa realizzazione, e questo per la ragione che non si trattava della semplice realizzazione di un manufatto, ma di un complesso e articolato progetto imprenditoriale che avrebbe anche potuto non vedere la luce stante l’aleatorietà che contraddistingue tale tipologia di attività.

4.4. Vanno a tal proposito ribaditi i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di quantificazione del danno da mancata aggiudicazione, che sono utilizzabili anche nel caso di specie trattandosi di principi generali in materia di responsabilità risarcitoria, e quindi:

– ai sensi degli artt. 30 e 40 c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;

– spetta al soggetto danneggiato offrire la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora vi fosse stato corretto esercizio del potere da parte dell’Amministrazione, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre la medesima necessità non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, cod. civ.;

– la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici.

4.4.1. Da tali pacifici principi deriva che la parte ricorrente, avendo ritenuto di liquidare la richiesta risarcitoria semplicemente con un richiamo alla parte del piano di fattibilità nel quale si fanno solo previsioni, senza alcun dato certo, è venuta meno al proprio onere probatorio come sopra illustrato, non avendo fornito la prova del danno effettivo subito, posto che, come detto, l’approvazione del progetto non implicava automaticamente la sua realizzazione e la parte non ha fornito elementi sul punto.

Tutto questo ribadendo la circostanza oggettiva che nell’atto di motivi aggiunti non vi è corrispondenza tra danno prospettato nel corpo dell’atto e danno richiesto in sede di conclusioni, senza che sia possibile in alcun modo ricostruire il ragionamento e i conteggi effettuati dalla parte.

4.4.2. In tale contesto, anche la liquidazione equitativa è impossibile, in quanto è ormai principio consolidato (ma sul punto si veda Cass. civ., n. 17752 del 2015) quello per cui “l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c. ed espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo, non già a un giudizio di equità, bensì a un giudizio di diritto caratterizzato dalla cd. equità giudiziale integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo, surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza”.

4.5. Vi è un altro aspetto da considerare, che il Collegio ritiene particolarmente significativo ai fini del non accoglimento della pretesa risarcitoria, e consiste nella circostanza che le resistenti, in modo del tutto inspiegabile, non abbiano proposto domanda cautelare per la sospensione del provvedimento, attendendo per anni la fissazione del merito, deciso con la presente decisione.

Orbene, è quanto mai singolare che la richiesta risarcitoria vada a connotarsi di contenuti legati (esclusivamente) alla redditività di un progetto che, una volta bocciato dal Comune, avrebbe potuto, in caso di esito favorevole della domanda cautelare di sospensione, essere portato a compimento, posto che i suoi contenuti erano ricompresi nell’Accordo di programma.

Lungi dal decadere, infatti, l’Accordo avrebbe ripreso vita laddove la delibera 8/2012 fosse stata sospesa (o persino annullata qualora fosse stata emessa sentenza in forma semplificata), e la parte avrebbe potuto dare esecuzione all’iniziativa imprenditoriale con i dovuti tempi.

È presumibile invece supporre che, stante anche la mancata richiesta di risarcimento di eventuali spese e investimenti sostenuti, a titolo di danno emergente, le due società non avessero intenzione di proseguire nell’iniziativa, anche in ragione del notevole tempo trascorso tra l’adesione all’Avviso pubblico (2004) e la decisione sfavorevole (2012).

Vale quindi la regola, di cui all’art. 30, comma 3, secondo periodo, c.p.a., a mente del quale il giudice “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”, regola espressione del più generale principio consacrato dall’art. 1227, comma secondo, codice civile.

5. Il Collegio passa dunque a esaminare la domanda di risarcimento del danno da ritardo spiegata nei confronti di Comune e Regione, subordinata dalla parte al mancato accoglimento di quella risarcitoria ex art. 30 c.p.a.

Va sin d’ora chiarito che alla categoria del danno da ritardo possono essere ricondotte sia le ipotesi di adozione tardiva di un provvedimento (sfavorevole o favorevole), sia la mera inerzia, consistente nella mancata adozione del provvedimento.

Mentre nel caso del provvedimento tardivo ma favorevole, la risarcibilità del danno da ritardo sostanzialmente coincide con il risarcimento dell’interesse legittimo pretensivo, negli altri casi (danno cagionato dal ritardo nella emanazione di un provvedimento a contenuto sfavorevole per il privato; esistenza di inerzia nel provvedere senza previo accertamento della spettanza del bene finale della vita richiesto) è stata sempre discussa la possibilità risarcitoria.

Alla luce delle prospettazioni delle ricorrenti, che censurano esclusivamente l’eccessiva lunghezza del procedimento che ha condotto all’emissione della delibera impugnata e non riconducono a tale condotta un danno che sia diverso dal mero ritardo, il Collegio ritiene che la domanda di parte miri al risarcimento della mera inerzia, anche perché solo così detta domanda può essere considerata diversa da quella di condanna ex art. 30 c.p.a., basata sulla declaratoria di illegittimità del provvedimento.

5.1. In argomento, va ricordato che l’articolo 2 bis della l. 241/90, invocato dalle ricorrenti a sostegno della domanda, e introdotto, nella sua versione originaria, dall’art. 7 della l. 18 giugno 2009, n. 69, ha fornito per la prima volta un fondamento normativo al c.d. danno da ritardo, che invece era strenuamente negato dalla più autorevole giurisprudenza amministrativa (si veda Adunanza Plenaria n. 7 del 2005), la quale ha ancorato la risarcibilità del danno solo all’accertamento della spettanza del bene della vita e non alla mera inerzia.

Successivamente, il codice del processo amministrativo, d.lgs. n.104 del 2 luglio 2010, ha ribadito all’art. 30, comma 4, in una disposizione finalizzata all’individuazione del dies a quo per presentare il ricorso finalizzato al risarcimento del danno da ritardo, la risarcibilità del danno che il ricorrente provi aver subito in esito all’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.

Il legislatore è nuovamente intervenuto sul punto con il d.lgs. 21 giugno 2013 n.69, conv. in legge 9 agosto 2013 n. 98, con il quale ha introdotto un comma 1 bis nel corpus dell’art. 2 bis della legge 241, statuendo il diritto per l’istante di ottenere un indennizzo in conseguenza del mero ritardo nella conclusione del procedimento: dunque, un ristoro patrimoniale conseguente alla valutazione del mero ritardo nell’adozione di un provvedimento, che qui funge da strumento riparatorio a favore del privato, nonché coercitivo e sanzionatorio nei confronti dell’Amministrazione.

5.2. Va rilevato dunque che dal 2010 in poi molte sentenze hanno cercato di sovvertire l’impostazione dell’Adunanza Plenaria, soprattutto laddove fossero coinvolti interessi a carattere economico-imprenditoriale, affermando che il ritardo imputabile alla P.A. nella conclusione di un qualunque procedimento amministrativo, qualora incidente su interessi pretensivi agganciati a programmi di investimento di cittadini o imprese, è sempre un costo che va risarcito, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica (in termini Cons. Giust. Ammin. Sicil, 4 novembre 2010 n. 1368; Cons. St., sez. V, 28 febbraio 2011 n. 1271; id., sez. V, 21 marzo 2011, n. 1739, id. 24 marzo 2011 n. 1796; Cons. Giust. Ammin. Sicil, 24 ottobre 2011 n. 684).

Si sostiene infatti che ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell’aumento del c.d. “rischio amministrativo” e, quindi, in maggiori costi, attesa l’immanente dimensione diacronica di ogni operazione di investimento e di finanziamento, e che i principi di cui all’art. 2 bis erano già viventi nell’ordinamento prima della novella del 2009; altresì, si è affermato che il danno da ritardo sussisterebbe anche se il procedimento autorizzatorio non si fosse ancora concluso e finanche se l’esito fosse stato in ipotesi negativo.

Secondo Consiglio di Stato sez. III 31 gennaio 2014, n. 468, l’art. 2 bis, l. 7 agosto 1990 n. 241 tutela in sé il bene della vita inerente alla certezza, quanto al fattore tempo, dei rapporti giuridici che vedono come parte la Pubblica amministrazione, stante la ricaduta che il ritardo a provvedere può avere sullo svolgimento di attività ed iniziative economiche condizionate alla valutazione positiva della stessa, ovvero alla rimozione di limiti di rilievo pubblico al loro espletamento (v. anche in termini Cons. St., sez. IV , 04 settembre 2013, n. 4452 e sez. V, 21 giugno 2013, n. 3405).

Si è altresì affermato che l’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 protegge il bene « tempo » quale bene della vita suscettibile di incidere sulla « progettualità » del privato e sulla libera determinazione dell’assetto dei suoi interessi, naturalmente calibrato sui tempi certi del procedimento e potenzialmente pregiudicato dai ritardi dello stesso (T.A.R. Abruzzo, 19 dicembre 2013, 1064).

Il ritardo nella conclusione del procedimento e il mancato rispetto dei tempi certi del procedimento vengono pertanto a rappresentare, giuridicamente, un danno “ingiusto” e, sul piano economico, un costo “ illegittimo per quanto attiene le prospettive, le aspettative e le scelte dei privati, in quanto integranti motivo di forte condizionamento della loro vita, tale da incidere negativamente sulla convenienza economica delle scelte preventivate, sia se il bene preteso dal privato risulterà dovuto sia nel caso in cui lo stesso venga negato, posto che l’incertezza sull’esito del procedimento, protratta oltre i limiti previsti dalla legge per la sua conclusione, impedisce o comunque rende più complessa la predisposizione di programmi o scelte diverse ed alternative.

5.3. Tuttavia, altra parte della giurisprudenza, ormai maggioritaria, continua ad affermare l’irrisarcibilità del danno da ritardo mero e la necessità, per poter riconoscere il risarcimento del danno da ritardo, dell’accertamento della spettanza del bene della vita richiesto, ovvero dell’adozione del provvedimento favorevole (Cons. St., sez. IV , 28 maggio 2013, 2899; id., 7 marzo 2013, n. 1406; T.A.R. Campania Salerno sez. II , 18 novembre 2013, n. 2277; T.A.R. Lazio, sez. III, 19 luglio 2013, 7386; T.A.R. Campania Napoli, sez. II , 12 luglio 2013, n. 3641; T.A.R. Liguria sez. I , 02 luglio 2013, 985).

Il bene della vita diventa, dunque, presupposto indispensabile per configurare una condanna della Amministrazione al risarcimento del relativo danno.

Altre pronunce, alcune delle quali molto recenti, hanno ribadito che l’art. 2-bis della l. n. 241 del 1990 non ha elevato a distinto bene della vita, suscettibile di un’autonoma protezione mediante il risarcimento del danno, l’interesse procedimentale al rispetto dei termini dell’azione amministrativa, scisso dal riferimento alla spettanza del bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è finalizzato (ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 12 novembre 2015, n. 5143; id., sez. III, 12 marzo 2015, n. 1287; id., sez. III, 23 aprile 2015, n. 2040; id., sez. V, 9 marzo 2015, n. 1182; id., sez. IV, 1 luglio 2014, n. 3295; id., sez. IV, 6 aprile 2016, n. 1371; id., sez. V, 11 luglio 2016, n. 3059; id., sez. V, 22 settembre 2016, n. 3920; id., sez. IV, 26 luglio 2016, n. 3376).

E questo nonostante l’introduzione, nel 2013, della previsione di un ristoro di natura indennitaria in conseguenza del mero ritardo, in quanto il meccanismo dell’indennità avrebbe struttura e funzione ben diverse da quello risarcitorio.

5.4. La questione è quindi collegata alla soluzione che si preferisca dare a quella ad essa preliminare, relativa all’individuazione della natura, aquiliana o contrattuale, della suddetta responsabilità, questione più volte esaminata in giurisprudenza, in ultimo dalla citata sentenza 3920/2016.

Infatti, solo dall’accoglimento della tesi della natura contrattuale della responsabilità della p.a. potrebbe conseguire il risarcimento del danno da mero ritardo nell’adozione del provvedimento, in esito alla verifica della violazione del termine di conclusione del procedimento da parte dell’Amministrazione alla stregua di una sorta di contatto procedimentale instauratosi con l’apertura del procedimento e determinante un legittimo affidamento del privato alla conclusione del procedimento nei termini di legge, la cui lesione fonderebbe un pregiudizio risarcibile autonomamente.

Tale tesi trae il suo principale fondamento dalle recenti modifiche normative sopra illustrate, che risulterebbero essere indici inequivoci della voluntas legis di riconoscere normativamente il risarcimento in tali ipotesi, e nell’avere il legislatore devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle cause in questione (l’art. 133 comma 1, lett. a), n. 1, c.p.a., stabilisce che è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle controversie in materia di risarcimento del danno derivante dall’inosservanza del termine di conclusione del procedimento).

Pertanto, in questa ipotesi, il ricorrente sarebbe onerato, in sede processuale, solo di fornire la prova dell’instaurazione del procedimento volto alla realizzazione di un suo interesse legittimo pretensivo o dinamico, e di allegare l’inadempimento della p.a., nella specie sussistente nella mancata conclusione dello stesso nei termini previsti dalla legge, secondo il modello di responsabilità derivante dall’applicazione dell’art. 1218 c.c. (vedi, sulla questione dell’onere della prova, la fondamentale sentenza Cass. Sez. Un. 30 ottobre 2001, n. 13533).

5.4.1. Per contro, dall’accoglimento della tesi della natura extracontrattuale della responsabilità dell’amministrazione deriverebbe un riparto dell’onere della prova decisamente diverso e conforme a quanto ricollegabile al meccanismo dell’art. 2043 c.c., per cui la parte non dovrebbe fornire la prova del mero ritardo, bensì la prova del danno effettivamente subito a causa del ritardo, e quindi, da ultimo, nella prova della spettanza del bene della vita finale, costituito dal certo o altamente probabile esito favorevole del procedimento amministrativo.

Al di là degli argomenti usati a sostegno di tale tesi, le conseguenze applicative immediate consistono nella ripartizione dell’onus probandi al fine di ritenere dimostrata la sussistenza di un danno economicamente valutabile, quindi risarcibile: infatti, non basterà la prova della violazione del termine di conclusione del procedimento, il quale costituirà solo un indice oggettivo del danno, ma non potrà da solo fondare la pronuncia di condanna della p.a. al risarcimento.

Occorrerà, piuttosto, fornire la prova della responsabilità aquiliana della Pubblica Amministrazione, ai sensi dell’art. 2697 c.c., in tutti i suoi elementi costitutivi: sia quelli di carattere oggettivo (ammontare del danno, ingiustizia dello stesso, nesso causale) sia quelli soggettivi (dolo o colpa della p.a.).

5.5. Il Collegio ritiene di aderire a tale ultimo orientamento, che non è risultato scalfito dalla riforma del 2013, che, sia pur introducendo una prima disposizione di tutela per il bene “tempo” del privato nei confronti dell’Amministrazione, opta tuttavia per una tutela di tipo indennitario, inducendo a ritenere la non illiceità del comportamento nella specie tenuto, con la conseguente esclusione di forme di responsabilità aquiliana ancorate all’elemento dell’ingiustizia del danno, allorché il giudizio di spettanza relativo al provvedimento finale, favorevole per il privato, abbia esito negativo.

Ne discende, pertanto, il rigetto della domanda risarcitoria per danno da ritardo, che la parte ricorrente ha prospettato esclusivamente quale danno da mancato rispetto del termine del procedimento, sicchè, pure nella oggettiva constatazione che otto anni per ottenere un provvedimento (pure sfavorevole) sono decisamente troppi, l’adesione al modello di responsabilità aquiliana sopra richiamato non può che comportare una decisione sfavorevole per le parti private.

6. Stante la novità e complessità della questione, nonché la soccombenza delle ricorrenti su parte della domanda, si ritiene giustificata la compensazione delle spese di giudizio tra le parti costituite, restando il contributo unificato a carico della parte che l’abbia anticipato.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

– accoglie la domanda di annullamento e, per l’effetto, annulla la delibera del Consiglio comunale di Frascati n. 8 del 15 febbraio 2012 come in epigrafe indicata;

– respinge la domanda risarcitoria di cui al ricorso e ai motivi aggiunti;

– compensa integralmente tra le parti le spese di giudizio, restando il contributo unificato a carico della parte che l’abbia anticipato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 aprile 2017 con l’intervento dei magistrati:

Leonardo Pasanisi, Presidente

Francesco Arzillo, Consigliere

Maria Barbara Cavallo, Primo Referendario, Estensore

         

         

L’ESTENSORE        IL PRESIDENTE

Maria Barbara Cavallo        Leonardo Pasanisi

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