27/11/2018 – La strategia del dolly

La strategia del dolly

Bernardo Bertolucci

Gli studi della Elios sono sulla Tiburtina, negli anni settanta lì attorno c’era campagna e i macchinisti mi dicevano che ci avevano girato gli interni di alcuni spaghetti western, poi, senza spostarsi facevano gli esterni lì attorno. Stavamo lavorando a “Io con te non ci sto più” di Gianni Amico, uno di quegli strani film dove tutto si impasta e si amalgama. Bertolucci era produttore esecutivo, era riuscito a fare finanziare dalla XX° Fox dei film italiani sulla scia del suo La luna.

Era l’estate del 1982. Faceva un caldo infernale, stavamo per vincere i mondiali e c’era fermento per le strade. Ai balconi sventolavano svogliatamente, sotto folate di scirocco caldo e umido, le bandiere dell’Italia.

La prima volta che lo vidi, era nel cortine degli studi. Forse qualche volta, lì dove era lui in quel momento, era stata posizionata la macchina da presa per qualche western. Indiani nascosti dietro quei rialzi di terra, adesso occupati da casermoni. Aveva un cappellone color corda, a falde larghe, era attorniato da tre uomini con enormi sigari e un marcato accento americano. Lo salutai e mi sorrise. Non osai dargli del tu. Pensai a Il conformista. Mi venne in mente lo sguardo ambiguo di Trintignant in quel film. Non trovai nulla di intelligente da dire e andammo nella sala di proiezione dove vedemmo il girato del giorno prima. Oltre a noi c’era Gianni Amico, sempre cordiale, affabile, discreto, Tonino Nardi, il direttore della fotografia, burbero come sempre e Nando l’assistente ai fuochi.

Bertolucci guardava le scene senza commentare. I produttori della Fox ogni tanto si davano cenni di intesa, annuivano o scuotevano lievemente la testa sottolienando qualche sbavatura nella recitazione, una lieve sfocatura o un’incertezza nel movimento della macchina da presa.

Amavo di più, però, quando Bernardo era negli studi. Lì si accendeva qualcosa nei suoi occhi. Sembrava un bambino che alitava, appannandola, la vetrina di una pasticceria. Lo vedevi dai piccoli gesti delle mani, come se volesse partecipare attivamente. Era come un giocatore di poker che guardava gli altri fare una partita, muovendo impercettibilmente i polpastrelli come se gli scorressero tra le dita invisibili carte. Stava spesso fuori dalla scena inquadrata, quasi al buio, con lievi tagli di luce che tracimavano dal set, come piccoli rivoli accanto al corso principale del ruscello.

Si fermava a lungo con Amico, spesso c’erano anche gli altri due sceneggiatori: Enzo Ungari e Tullio Altan. Parlavano del fatto che quel film volesse essere uno strano esperimento. Volevano fotografare uno spaccato generazionale, in bilico tra commedia e analisi più profonda.

La cosa che mi colpiva sempre era la voce di Bernardo: calma profonda. A volte si fermava a cercare il termine giusto, per affabulare, stupire, spiazzare. Stava sospeso a guardarti negli occhi con dei gesti cristallizzati nell’aria davanti a te.

Il grande caldo aveva acuito delle tensioni nella troupe, c’erano spesso delle frizioni per motivi futili. Un pezzo di scotch per i fuochi messo nel posto sbagliato, uno stativo troppo vicino al binario, un proiettore che non si voleva accendere. In qualche caso anche un accenno di rissa, ma sempre, con la presenza di Bernardo, tutto tendeva ad acquietarsi non per timore, ma per la tranquillità che lui tendeva a comunicare. “E’ arivato er maestro!” Facevano i macchinisti. E tutto si placava.

Stavano girando uno special sul film. Nei momenti di pausa il regista di questo documentario gli rivolgeva qualche domanda. I rumori della troupe al lavoro non mi facevano sentire tutte le parole, ma cercavo di cogliere ogni frammento dell’intervista. Ogni tanto percepivo una citazione di un film, altre capivo da come mimava con le mani che stava parlando di un dolly.

Lo ricordo ancora, con quel sorriso incerto e sornione, mentre girava nel buio di quel set, in una finta terrazza, e in lontananza dei tetti di cartone con antenne di filo di rame e una luna fatta di legno e carta traslucida.

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