27/04/2019 – La fraudolenta attestazione della maggiore presenza in servizio dei dipendenti pubblici integra il delitto di truffa aggravata qualora sussista un danno patrimoniale per l’Ente

La fraudolenta attestazione della maggiore presenza in servizio dei dipendenti pubblici integra il delitto di truffa aggravata qualora sussista un danno patrimoniale per l’Ente

di Massimo Asaro – Specialista in Scienza delle autonomie costituzionali, funzionario universitario Responsabile affari legali e istituzionali

La tematica della lotta all’assenteismo nella pubblica amministrazione ha visto prevalere scelte normative volte a sanzionare, con crescenti gradi di severità, i fenomeni piuttosto che a rimuoverne le cause. L’approccio dunque, anche nelle fonti giuslavoristiche e in quelle relative agli istituti retributivi, è stato quello volto esclusivamente alla prevenzione e repressione dei comportamenti negativi mediante l’introduzione di istituti generalizzati di controllo della presenza fisica del lavoratore (orari, controllo degli accessi, obbligo di presenza etc.) essenzialmente concentrati sul personale contrattualizzato non dirigenziale. A tale proposito si ricordi che il 10 aprile scorso la Camera dei deputati ha approvato, con modificazioni, il ddl “Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell’assenteismo” (AC n. 1433 e AS n. 920) che è ora all’esame del Senato della Repubblica, in seconda (e probabilmente ultima) lettura.

Nel presente lavoro si affronteranno i profili di responsabilità penale ed erariale della alterazione della attestazione della presenza in servizio partendo dalla sentenza in commento che tratta di fatti accaduti prima della riforma del 2009 con cui è stata introdotta una nuova fattispecie di reato, quello di “False attestazioni o certificazioni” di cui all’art. 55-quinquiesD.Lgs. n. 165 del 2001. Infatti, per le condotte antecedenti all’innovazione normativa indicata, la simulazione con modalità fraudolente della maggiore presenza apparente e dunque della minore presenza effettiva in servizio integrava esclusivamente il reato di truffa, ai sensi dell’art. 640 c.p., aggravata ai sensi del secondo comma dell’articolo citato in quanto commessa ai danni dell’Ente pubblico datore di lavoro. La casistica è varia può consistere della completa assenza, dell’ingresso posticipato o dell’uscita anticipata oppure delle assenze intermedie con allontanamento ingiustificato dalla abituale postazione di lavoro con difformi risultanze nei sistemi informatizzati di rilevazione delle presenze/assenze. La mancata erogazione della prestazione lavorativa, per periodi anche limitati, è sufficiente a generare il danno patrimoniale che è elemento costitutivo del delitto di truffa mentre è irrilevante che durante o in conseguenza dell’assenza o minor presenza si siano verificati un disservizio o un inconveniente misurabile né, tantomeno, un danno materiale a terzi. In passato invece la Giurisprudenza aveva affermato in molti casi che fosse indispensabile che l’assenza avesse un’entità economicamente apprezzabile (Cass. Pen., Sez. II, Sent. n. 5837 del 2013 e Sez. V, Sent. n. 8426 del 2013, Sez. II, Sent. 50027 del 2016 e Sez. II, Sent. n. 14975 del 2018). Negli ultimi anni invece l’entità del danno è stata valutata esclusivamente ai fini dell’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4 (Cass. Pen., Sez. II, Sent. n. 3262 del 2019 e n. 7005 del 2019). Costituisce “artificio” o “raggiro” l’allontanarsi dal lavoro subito dopo aver registrato l’entrata, delegare ad altri, colleghi o terzi, l’operazione di registrazione dell’ingresso o dell’uscita, registrare ingressi/uscite di altri dipendenti.

A seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2009, le condotte suddette hanno ricevuto una ulteriore copertura legislativa di rilievo penale che ha come bene giuridico non solamente il patrimonio della P.A., per cui vi era già il delitto di truffa, ma anche l’integrità della P.A. e la correttezza delle prestazioni in favore degli utenti. Il primo comma dell’art. 55-quinquies citato introduce una fattispecie incriminatrice speciale, un reato proprio del pubblico dipendente, ancorando la responsabilità penale a una condotta consistente alternativamente:

a) nell’attestare falsamente la presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o mediante altre modalità fraudolente;

b) nel giustificare l’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia.

Si comprende subito come la fattispecie di cui al punto sub a) sia caratterizzata dalla presenza di una condotta complessa, integrata dalla falsa rappresentazione della presenza in servizio del lavoratore e dalla circostanza che il soggetto attivo si avvale di modalità fraudolente, come l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, per la realizzazione del falso ideologico nell’attestazione delle presenze ovvero il ricorso ad una condotta di falso ideologico (Trib. Pen. Genova, UGIP, ord. n. 184 del 2017).

Secondo la Suprema Corte, per il perfezionamento della figura di reato appena indicata è irrilevante l’accertamento del danno erariale, posto che la disposizione normativa non fa alcun riferimento a tale profilo e, pertanto, sussiste il concorso materiale tra il reato di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, e quello di cui all’art. 55-quinquies cit. (Cass. Pen., Sez. VI, n. 52207 del 2018) [V. Gavioli F., Truffa aggravata per il dipendente pubblico anche se il danno è lieve, in questa Rivista, 2019]. Il delitto di “false attestazioni o certificazioni” ex art. 55-quinquies del D.Lgs. n. 165 del 2001, che si consuma con la mera realizzazione, da parte dei pubblici dipendenti, di un comportamento fraudolento consistente nell’irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, concorre con la truffa aggravata ex art. 640, comma secondo, n. 1, c.p., quando la condotta determina un danno patrimoniale per l’amministrazione, in conformità alla clausola di riserva di cui al primo comma del predetto art. 55-quinquies, che mantiene “fermo quanto previsto dal codice penale” (Cass. Pen., Sez. III, Sent. n. 45698 del 2015). Il danno patrimoniale non vi è quando, in concreto, per il maggior tempo lavorativo fraudolentemente attestato ma non prestato, non sia erogato alcun compenso o vantaggio patrimoniale al dipendente autore dell’illecito. Nel caso ciò avvenga perché l’autore del fatto (e destinatario del vantaggio) rinuncia al compenso prima della percezione, vi sarebbe spazio per l’applicazione dell’art. 56 comma 4 c.p. Considerato che il delitto è punito con la reclusione da 1 a 5 anni, è possibile:

1. l’applicazione della misura cautelare personale, coercitiva o interdittiva, ex art. 280 c.p.p.;

2. l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p.;

3. mentre non è possibile l’applicazione della sospensione con messa alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis c.p.

Passando alla disamina delle conseguenze amministrativo-contabili di condotte riconducibili all’art. 55-quinquies ridetto, sussistono tre profili di danno:

a) il primo, quello patrimoniale diretto, come conseguenza delle condotte illecite e va ragguagliato alle retribuzioni o emolumenti stipendiali indebitamente erogati dalla P.A. in ragione delle assenze dal luogo di lavoro rivelatesi ingiustificate (Corte dei Conti, Sez. giurisd. Toscana, Sent. n. 66 del 2017);

b) il secondo, invece, riguarda il danno all’immagine o non patrimoniale subito dalla P.A. come persona giuridica pubblica;

c) il terzo, danno da disservizio, che scaturisce dal mancato esplicitarsi della prestazione di servizi e dunque dal non raggiungimento del fine pubblico.

Il secondo comma dell’articolo in questione, per il danno all’immagine, detta una previsione in controtendenza rispetto alla norma contenuta nel D.L. n. 78 del 2009 (conv. nella L. n. 102 del 2009) e nella L. n. 141 del 2009 che hanno limitato la possibilità di esercizio dell’azione erariale per danno all’immagine nell’ambito di una specifica categoria di reati contro la P.A. accertati con condanna definitiva. La disposizione infatti mira a ottenere la prestazione lavorativa del pubblico impiegato, nel pieno rispetto delle regole giuridiche e di comportamento che la connotano; l’incompletezza, anche solo temporale della prestazione lavorativa, a causa dell’occultamento dell’interruzione della stessa, genera un nocumento tangibile dell’interesse pubblico, anche sotto il peculiare versante del danno all’immagine ed in questo senso risulta, giuridicamente rilevante (Corte dei Conti, Sez. giurisd. Basilicata, sent. n. 8/2019). Ai sensi dell’art. 55-quater, comma 3-quater, D.Lgs. n. 165 del 2001 (a tale proposito si veda il parere reso dal Consiglio di Stato, Sezione speciale, n. 86 del 2016): L’ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l’eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 8 gennaio 2019) 9 aprile 2019, n. 15585

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