26/10/2023 -Il boreout, cugino del burnout

Bore-out. Non è un errore. Non è infatti da confondere con il burn-out, seppure siano il gatto e la volpe che provano a sottrarre motivazione e soddisfazione al malcapitato professionista.

Sono due situazioni agli antipodi: il #burnout è dovuto all’eccesso di lavoro e stress, il #boreout è la sensazione di insoddisfazione dovuta alla mancanza di lavoro stimolante o di opportunità di crescita professionale.

La sindrome da boreout è stata descritta per la prima volta nel 2007 in un libro di due svizzeri, Philippe Rothlin e Peter Werder.

L’espressione “annoiarsi da morire” pare avere delle basi scientifiche, stando alla ricerca pubblicata sull’International Journal of Epidemiology su 7.000 dipendenti pubblici seguiti per 25 anni: alti livelli di noia portano al doppio delle probabilità di decessi per malattie cardiache o ictus (correlate a cattive abitudini come fumo o alcool).

Secondo uno studio dello psicologo Andi Zemp, il boreout colpisce soprattutto i meno giovani che “non osano lasciare il loro impiego per paura di non trovarne un altro. Molti semplicemente attendono il pensionamento”.

Nel mondo lavorativo di oggi, in cui sentiamo spesso parlare di quite quitting e fuga di talenti, la figura più vicina a soffrire di boreout e a sentirsi annoiato, sottoutilizzato e sottostimolato potrebbe essere un middle: non under ma nemmeno silver – per età -, non junior ma non ancora senior – nel ruolo -, né alle prime esperienze né sulla rampa di lancio della carriera, né responsabile di un team né responsabilizzato su un progetto.

E le donne? Ne soffrono più degli uomini, probabilmente per la maggiore predisposizione a sentirsi utili e valorizzate.

Non si salvano neppure i millennials, abituati a lavorare per obiettivi e in autonomia. Se uno di questi due elementi viene a mancare, sono pronti a riconoscere che c’è un problema. Proprio questa volontà di agire li differenzia dalle precedenti generazioni.

Non c’è scampo nemmeno per gli iperqualificati e per i creativi, se ingabbiati in attività ripetitive.

Forse si salva chi si prende cura di altri, dai medici agli insegnanti, perché trova nella relazione con l’assistito il senso del suo operato.

In generale è un problema per l’azienda, che ci perde ovviamente in termini di produttività, ma spesso può perdere un’opportunità, quella di un talento non valorizzato che non esprime il suo potenziale. Accorgersene non è sempre facile, perché la demotivazione legata al boreout è spesso ancora un tabù: mentre essere sovraccarichi di lavoro arriva ad essere motivo di vanto (il famoso busy bragging), essere annoiati genera vergogna, perché si ha paura di essere additati come scansafatiche o addirittura inutili.

Inutile è dire quanto per me sia fondamentale la manutenzione delle competenzeattraverso la formazione continua, così come il feedback e l’ascolto costante, il confronto sui percorsi di carriera e la valorizzazione dell’unicità di ciascuna e ciascuno. Soprattutto l’importanza di una comunicazione aperta, diretta e orientata a far seguire i fatti alle parole.

Penso anche che la noia possa essere vista in chiave positiva, come un segnale, un acceleratore evolutivo. Può essere considerata un’emozione che ci avvisa di cambiare approccio e prospettiva, cercare altri stimoli e obiettivi, e può essere fonte di rinnovata energia da impiegare in nuove sfide.

Guardando al problema dalla parte del lavoratore, ti è mai capitato di sentirti lontano emotivamente dalla tua attività, di non riuscire a utilizzare le tue capacità e competenze in un team, di non riuscire a cambiare ruolo o reparto o progetto? Quali pensi che siano le vere motivazioni alla base di questa situazione? Quale sarebbe un’azione efficace e concreta per superare una fase come questa lungo un percorso di crescita professionale?

Fonte: bit.ly/45BHBOH

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