24/08/2019 – Furbetti del cartellino: non salva dire a posteriori che erano pause per terminalisti o permessi 104

Furbetti del cartellino: non salva dire a posteriori che erano pause per terminalisti o permessi 104

giovedì 22 agosto 2019 – a cura della Redazione Wolters Kluwer 
 
Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello, confermando quella del tribunale, aveva ritenuto colpevole del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato alcuni dipendenti pubblici in conseguenza dell’allontanamento dal luogo di lavoro, in più occasioni. senza far risultare la circostanza tramite “strisciata” del badge magnetico presso gli appositi dispositivi finalizzati alla registrazione degli ingressi e delle uscite dei dipendenti, la Corte di Cassazione (sentenza 25 luglio 2019, n. 33868)– nel disattendere la tesi difensiva secondo cui la possibilità riconosciuta dalla legge di periodi di riposo o di pause lavorative nonché la stessa possibilità di allontanarsi riconosciuta dalla legge 104/92 avrebbero avuto effetto di escludere la rilevanza penale del fatto – ha diversamente affermato che l’accertata mancata registrazione di uscite nella giornata in relazione alle quali non risulta alcuna giustificazione o autorizzazione è sufficiente a ritenere integrata la violazione contestata, dovendosi osservare come le pause intermedie riconosciute ai c.d. terminalisti, così come i benefici di cui alla legge 104/92, non legittimano il dipendente ad allontanarsi dal luogo di lavoro senza far risultare la circostanza.
 
 
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi
Cass. pen. sez. 2, 23 gennaio /2019, n. 3262
Difformi
Non si rinvengono precedenti
Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, è opportuno qui ricordare che l’art. 640, c.p., sotto la rubrica «Truffa», punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032 la condotta di chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 309 a euro 1.549: 1. se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare; (omissis). Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o la circostanza aggravante prevista dall’articolo 61, primo comma, numero 7.
Il secondo comma dell’art. 640 prevede tre circostanze aggravanti speciali e ad affetto speciale, in quanto è prevista una pena – la reclusione da uno a cinque anni e la multa da euro 309 a euro 1.549 – diversa da quella stabilita per il reato base – reclusione da sei mesi a tre anni e multa da euro 51 a euro 1.032. In particolare, la fattispecie di cui all’art. 640, 2° co., n. 1, – da sempre norma di riferimento per l’incriminazione del reato di truffa perpetrato ai danni del soggetto pubblico, disciplinata quale circostanza aggravante proprio in considerazione della maggior carica di disvalore connessa all’offesa arrecata allo Stato o ad altro ente pubblico, riveste oggi un ruolo di minor rilievo applicativo a seguito dell’introduzione della nuova figura di cui all’art. 640 bis, così come letta dalla giurisprudenza dominante. Prima dell’intervento operato dal legislatore nel 1990, in risposta ad istanze dottrinali sempre più pressanti che, lamentando l’insufficienza del sistema penalistico allora vigente, chiedevano una copertura normativa più efficace per la repressione del fenomeno di abuso del finanziamento pubblico, si guardava alla norma di cui all’art. 640, 2° co., n. 1 come a quella, fra le norme esistenti, che si prestava ad una maggior apertura rispetto alle esigenze qui evidenziate. In modo particolare, ciò che risultava più urgente era un intervento legislativo che ampliasse l’ambito dei soggetti passivi del reato, e che sanzionasse adeguatamente le varie fasi nelle quali il reato di frode nelle sovvenzioni pubbliche poteva articolarsi, anche in considerazione del fatto che esso non interessava più i soli enti pubblici nazionali, ma si rivolgeva anche ad erogazioni di denaro stanziato dalle Comunità Europee. Ora, a fronte di una generale inidoneità delle norme penalistiche vigenti rispetto agli obiettivi che si riteneva opportuno raggiungere, la circostanza aggravante in commento, quanto meno, presentava il pregio di prescrivere una sanzione più severa, unitamente alla previsione della perseguibilità d’ufficio, e di individuare specificamente il soggetto passivo della truffa. Sebbene, con riguardo a tale ultimo profilo, pesava fortemente l’assenza di qualsivoglia riferimento all’ipotesi che il reato venisse perpetrato anche contro le Comunità Europee; la quale risultava peraltro impossibile da includere in via di interpretazione estensiva nell’operatività del comma. Inoltre, la circostanza aggravante di cui al co. 2°, n. 1, dell’art. 640, perpetrava molte delle inadeguatezze più generalmente riscontrate nel sistema penalistico vigente di repressione delle frodi: si pensi per tutte all’impossibilità di ricondurre al dettato della medesima le ipotesi di percezione lecita con successivo indebito impiego di quanto ottenuto in beneficio. Si tratta, per vero, di lacune che il legislatore non è riuscito a colmare del tutto neppure con l’introduzione dell’art. 640 bis, criticato sotto molti profili, attinenti tanto alla sua formulazione letterale, quanto alla sua configurazione strutturale. Ad ogni buon conto, la disposizione di cui all’art. 640, 2° co., n. 1, era senz’altro quella alla quale la dottrina assolutamente prevalente riteneva opportuno fare riferimento per contrastare il fenomeno delle frodi in sovvenzioni pubbliche, in attesa di un più specifico intervento legislativo. Va detto, per vero, che la ridotta applicazione prasseologica cui oggi si assiste rispetto alla circostanza aggravante in commento, non era rilevabile in termini così drastici in passato, neppure in seguito all’introduzione dell’art. 640 bis. Esistono, infatti, una serie di pronunce del giudice di legittimità, successive al 1990, che attestano la tendenza giurisprudenziale a ricondurre al disposto di cui al co. 2°, n. 1, dell’art. 640, piuttosto che all’art. 640 bis, fattispecie di truffa che si ritenevano estranee, rispetto all’oggetto, alla norma da ultimo richiamata (Cass. pen. sez. II, 15/9/2006; Cass. pen. sez. II, 6/07/2006; Cass. pen. sez. II, 10/2/2006).
In particolare, è sempre la truffa aggravata ai danni dello Stato, ex art. 640, comma 2 c.p., il reato che generalmente viene contestato in ipotesi di c.d. assenteismo dal posto di lavoro, nelle ipotesi in cui il pubblico impiegato induca in errore, mediante artifizi o raggiri, l’ente presso il quale risulta impiegato circa la sua presenza sul posto di lavoro. In particolare, commette il reato di truffa ai danni dello Stato il dipendente pubblico il quale timbra il cartellino al fine di far apparire la sua presenza in ufficio mentre, in realtà, si dedica ad un diverso lavoro (Cass. pen. sez. V, 11/6/2008), ovvero, semplicemente, omette di segnalare la propria assenza, anche breve, in virtù di un allontanamento intermedio (Cass. pen. sez. V, 23/9/1996). Cfr. anche Cass. pen. sez. II, 17/1/2013, n. 5837; Cass. pen. sez. II, 3/5/2011, n. 17096. In un caso di truffa aggravata ai danni delle Poste italiane S.p.A. commessa da alcuni dipendenti, il cui cartellino elettronico veniva utilizzato da un collega per farli risultare falsamente presenti, la Corte ha affermato la sussistenza della circostanza aggravante dell’abuso di prestazione d’opera (art. 61, n. 11), mentre ha escluso la circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità (art. 62, n. 4) per la grave lesione del rapporto fiduciario determinata dalla condotta delittuosa (Cass. pen. sez. VI, 4/6/2013, n. 30177).
Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte di appello aveva confermato la dichiarazione di penale responsabilità di alcuni soggetti già pronunciata dal Tribunale. In tutti i casi la contestazione riguardava truffa ai danni di ente pubblico in conseguenza dell’allontanamento dal luogo di lavoro, in più occasioni. senza far risultare la circostanza tramite “strisciata” del badge magnetico presso gli appositi dispositivi finalizzati alla registrazione degli ingressi e delle uscite dei dipendenti. A fondamento della condanna, le videoriprese e la mancanza di documentazione contrastante con quanto estrapolato dai dispositivi automatici di registrazione di ingressi e uscite, da cui desumere la presenza di una autorizzazione alle uscite non registrate. Ricorrendo in Cassazione, alcuni degli imputati sostenevano che la Corte d’appello non aveva tenuto conto di significativi e decisivi elementi di prova costituiti dal riconoscimento di una pausa di 15 minuti ogni due ore in quanto “terminalisti”, dall’avere gli stessi usufruito solo parzialmente del beneficio di cui alla legge 104/92 che era stato loro riconosciuto, dal fatto che alcuni di essi dovevano svolgere servizi esterni nonché, infine, dal fatto che alcuni degli imputati risultavano essere stati sottoposti a visita medica in alcuni giorni in cui risultavano essersi allontanati.
La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui in massima, in particolare rlevando che l’istruttoria svolta e la valutazione della stessa operata dai giudici del merito avevano evidenziato come vi fossero normative primarie e secondarie che imponevano la registrazione di entrate e uscite e la possibilità di indicare, all’atto della registrazione, anche diverse causali che avrebbero permesso di riscontrare quanto sostenuto dagli imputati e smentite dalla documentazione ufficiale dell’ente di appartenenza. Risultando la palese inadempienza alle normative secondarie e agli atti generali riguardanti la registrazione degli allontanamenti e difettando atti giustificativi delle uscite medesime, la prospettazione di esercitare un diritto, peraltro collegato a titoli eterogenei, estranei all’oggetto della contestazione e di fatto irrilevanti non permetteva di individuare alcuna credibile convinzione su cui gli imputati potessero riporre legittimo affidamento per ritenere corrispondente a diritto il proprio operato. Una volta accertato che alle uscite non corrispondeva alcuna autorizzazione né alcuna disposizione che determinasse la legittimità o la necessità dell’uscita medesima, nessuna ulteriore verifica incombeva dunque per la Cassazione sull’organo di accusa al fine di ritenere sussistente il delitto ipotizzato spettando piuttosto alla difesa evidenziare circostanze da cui desumere profili rilevanti.
Da qui, dunque, l’inammissibilità del ricorso.
Riferimenti normativi:
Art. 640, comma 2, n. 1, c.p.

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