23/08/2021 – Edifici pericolanti e mancata messa in sicurezza: cosa accade?

La Corte di Cassazione chiarisce cosa accade ai proprietari di un immobile che non hanno ottemperato ad una ordinanza di messa in sicurezza del Comune.

La normativa edilizia prevede uno specifico iter per la demolizione degli abusi e la remissione in pristino dei luoghi. Un iter scandito da tempi e competenze (del proprietario, del Comune, della Regione e del Prefetto). Cosa accade, invece, nel caso di ordinanza del Sindaco per la messa in sicurezza di un edificio pericolante?

A rispondere a questa domanda ci ha pensato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25176 dell’1 luglio 2021 che ci consente di approfondire l’argomento. A proporre ricorso questa volta è il proprietario di un immobile ritenuto pericolante e pericoloso per l’incolumità pubblica da parte del Comune che, proprio per questo, ha emesso un’ordinanza sindacale per la messa in sicurezza.

Accertato che il proprietario non aveva ottemperato agli obblighi previsti dall’ordinanza, il Comune lo ha condannato alla sanzione di 2.400 euro. Sanzione confermata anche dal Tribunale che ha accertato la mancata ottemperanza, nel termine previsto, per le opere indispensabili alla messa in sicurezza dell’immobile che minacciava rovina, creando pericolo per le persone.

In primo grado viene contestata la mancata applicazione delle previsioni contenute nell’art. 131-bis (Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto) del codice penale. Il Tribunale ha giustificato la decisione ritenendo il livello di “pericolo per le persone”, insito nella condotta illecita degli imputati, rispetto al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice così elevato da escludere la particolare tenuità del fatto. Al riguardo, la sentenza in verifica ha osservato che la toltale trascuratezza nel provvedere alla messa in sicurezza dell’edificio, protrattasi per un periodo consistente, aveva determinato la caduta di tegole sulla pubblica via e nel fondo confinante, abitato da altro nucleo familiare, sicché il rischio che una pluralità di persone, che avevano libero accesso nei luoghi interessati, subissero conseguenze alla loro integrità fisica, venendo colpite da elementi della costruzione in corso di deterioramento, era stato concreto ed effettivo.

La gravità del reato, valutata come ostativa al riconoscimento della causa di proscioglimento di cui all’art. 131-bis del codice penale è stata, quindi, desunta da una ricostruzione fattuale della vicenda non censurabile in sede di legittimità perché non manifestamente illogica, oltre che aderente alle risultanze probatorie espressamente menzionate quali la deposizione dell’agente della polizia municipale, il quale aveva personalmente riscontrato e documentato con alcune fotografie allegate alla relazione di servizio la caduta delle tegole e pezzi di listello di legno in strada e all’interno del cortile del vicino richiedente l’intervento.

La confutazione da parte del ricorrente è fondata su atti processuali genericamente citati e non allegati. Proprio per questo, il Tribunale, lungi dal non giustificare il potere discrezionale in materia di quantificazione della pena, ha congruamente ancorato al già descritto carattere pericoloso della violazione la scelta di irrogare una pena base solo pecuniaria (invece che detentiva), distante sì dal minimo ma nettamente inferiore al massimo edittale (euro 10.000,00 ex art. 26 cod. pen.) e l’ha diminuita di un terzo per le attenuanti generiche.

Apprezzamenti che non competono alla Corte di Cassazione.

Tra le altre cose, la Cassazione ha precisato che le condizioni economiche del reo non configurando una circostanza del reato, ma solo un parametro per la quantificazione della pena, non devono essere previamente contestate dal pubblico ministero, ma devono essere provate (o almeno allegate) dalla parte processuale che ne invochi la valutazione.

Nel caso di specie, è l’imputato a chiedere la riduzione della pena pecuniaria perché anche la misura minima gli risultava eccessivamente gravosa. A questa richiesta  la Corte ha ritenuto necessario che lo stesso imputato allegasse l’indispensabile documentazione atta a chiarire la sua situazione economica. Gli imputati, però, si sono limitati a chiedere l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen. senza invocare la diminuzione ulteriore ex art. 133 bis, secondo comma, cod. pen. e senza produrre o allegare davanti al giudice di merito elementi utili per valutare le condizioni economiche se non l’intervenuta ammissione al gratuito patrocinio per di più citata solo in sede di ricorso.

In siffatta situazione è evidente che il Tribunale non aveva, alcun obbligo di prendere in considerazione le condizioni economiche dell’imputato ai fini della diminuente di cui all’art. 133 bis, secondo comma, cod. pen. perché non erano state né allegate né documentate dal difensore.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

omissis

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

DAVI’ EZIO nato a TORINO;

RICHETTO GIUSEPPINA ANNA nato a MATTIE;

avverso la sentenza del 28/06/2019 del TRIBUNALE di TORINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO ALIFFI;

lette le conclusioni ex art. 23 D.L. n.137/2020 del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCA ZACCO che ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe il Tribunale di Torino ha dichiarato Davì Ezio e Richietto Giuseppina Anna colpevoli della contravvenzione di cui all’art. 677, comma 3, cod. pen., in essa assorbita quella, meno grave, di cui all’art. 650 cod. pen. e, per l’effetto, li aveva condannati alla pena di euro 2.400,00 di multa con il riconoscimento ad entrambi delle circostanze attenuanti generiche.

Sulla scorta del materiale probatorio acquisto, il Tribunale ha ritenuto accertato che gli imputati, in concorso tra loro, nella qualità di proprietari di un edifico sito nella via Rosero di Chianocco, non avevano ottemperato all’ordinanza sindacale, regolarmente notificata ad entrambi, emessa per ragioni di sicurezza pubblica.

In particolare, avevano omesso di eseguire, a propria cura e spese, entro il termine previsto le opere indispensabili alla messa in sicurezza dell’immobile che minacciava rovina, creando pericolo per le persone

2. Avverso la pronuncia ricorrono il Davì e la Richietto, per il tramite del comune difensore di fiducia avv. Stefano Sobrato, articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Con il primo denunciano manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione a seguito dell’erronea valutazione delle risultanze istruttorie in punto di esclusione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen.

Il Tribunale ha desunto la gravità del reato, ostativa al riconoscimento della invocata causa di proscioglimento, da elementi fattuali non risultanti dalla piattaforma probatoria acquista. Ha, infatti, ritenuto l’immobile in stato di abbandono nonostante più di un testimone avesse riferito che i proprietari, nel corso degli anni, avevano eseguito opere di messa in sicurezza con l’apposizione di una rete metallica e l’esecuzione di lavori di piccola manutenzione.

Ha, parimenti, considerato elevata la portata del pericolo alla pubblica incolumità, conseguito all’omessa ottemperanza all’ordinanza sindacale, nonostante l’immobile, ubicato a notevole distanza rispetto ai fabbricati confinanti, fosse stato interessato ad un solo episodio, peraltro assai limitato, di caduta di tegole.

2.2. Con il secondo motivo denunciano vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla pena, quantificata, nonostante il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, in misura assai distante dal minimo edittale, pari ad euro 309,00, senza tener conto non solo della limitata gravità del reato ma anche del criterio, fissato in materia di pene pecuniarie dall’art. 133-bis cod. pen., che impone al giudice di valutare le condizioni economiche del reo attribuendogli la facoltà di aumentare o diminuire sino ad un terzo la sanzione a seconda che risulti inefficace o eccessivamente onerosa.

2.3. Con memoria, in data 9 aprile 2021, la difesa ricorrente, in replica alle osservazioni contenute nella requisitoria scritta del Procuratore generale di questa Corte, ha insistito sulle censure illustrate nel ricorso sottolineando che la ricostruzione dei fatti effettuata dagli imputati, contrastante con il procedimento argomentativo recepito nella sentenza impugnata, è l’unica possibile e non rappresenta una mera ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza e che la pena irrogata, un’ammenda di quasi otto volte superiore il minimo edittale, risulta scorretta anche con riferimento all’art. 133 bis cod. pen.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile.

1. Il primo motivo, relativo al rigetto della richiesta di applicazione dell’art. 131 bis cod. pen., oltre a sollecitare apprezzamenti estranei al giudizio di legittimità, è manifestamente infondato.

Il Tribunale ha giustificato la decisione sfavorevole ritenendo il livello di “pericolo per le persone”, insito nella condotta illecita degli imputati, rispetto al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice così elevato da escludere la particolare tenuità del fatto. Al riguardo, la sentenza in verifica ha puntualmente osservato che la totale trascuratezza nel provvedere ‘alla messa in sicurezza dell’edificio, protrattasi per un periodo consistente, aveva determinato la caduta di tegole sulla pubblica via e nel fondo confinante, abitato da altro nucleo familiare, sicché il rischio che una pluralità di persone, che avevano libero accesso nei luoghi interessati, subissero conseguenze alla loro integrità fisica, venendo colpite da elementi della costruzione in corso di deterioramento, era stato concreto ed effettivo.

La gravità del reato, valutata come ostativa al riconoscimento della causa di proscioglimento di cui all’art. 131-bis cod. pen. è stata, quindi, desunta da una ricostruzione fattuale della vicenda non censurabile in sede di legittimità perché non manifestamente illogica, oltre che aderente alle risultanze probatorie espressamente menzionate quali la deposizione dell’agente della polizia municipale Bergamo Lorenzo, il quale aveva personalmente riscontrato e documentato con alcune fotografie allegate alla relazione di servizio la caduta delle tegole e pezzi di listello di legno in strada e all’interno del cortile del vicino richiedente l’intervento.

Il ricorrente oppone, in chiave meramente confutativa, una diversa lettura delle emergenze probatorie, peraltro fondata su atti processuali genericamente citati e non allegati in osservanza del principio dell’autosufficienza del ricorso.

2. Non supera il vaglio di ammissibilità anche il secondo motivo in materia di trattamento sanzionatorio.

2.1. Il Tribunale, lungi dal non giustificare il potere discrezionale in materia di quantificazione della pena, ha congruamente ancorato al già descritto carattere pericoloso della violazione la scelta di irrogare una pena base solo pecuniaria (invece che detentiva), distante sì dal minimo ma nettamente inferiore al massimo edittale (euro 10.000,00 ex art. 26 cod. pen.) e l’ha diminuita di un terzo per le attenuanti generiche. In questa sede non è consentito un nuovo apprezzamento di merito sul punto.

2.2. Quanto alla prospettata violazione dei criteri fissati dall’art. 133 bis cod. pen., secondo il combinato disposto del primo e del secondo comma dell’ad. 133 bis cod. pen., il giudice, una volta determinata la pena pecuniaria all’interno del compasso edittale in base alla gravità del reato e alla capacità a delinquere specificate dall’ad. 133 cod. pen., non ha esercitato la facoltà né di aumentarla sino al triplo o né di diminuirla sino a un terzo per adeguarla alla capacità economica del reo, anche superando i limiti edittali previsti (Sez. 3, n. 29878 del 28/06/2006, Gangi, Rv. 235751). Si tratta anche in questo caso di scelta legittima.

Non condivide il Collegio la diversa interpretazione, cui sembra aderire la difesa ricorrente, secondo cui le condizioni economiche del reo dovrebbero essere valutate in un primo momento a livello intraedittale ai sensi del primo comma dell’ad. 133 bis, e in un secondo momento a livello extraedittale ai sensi del secondo comma dello stesso art. 133 bis cod. pen.. Questa azione ermeneutica, infatti, assumendo le condizioni economiche come criterio di valutazione aggiuntivo rispetto a quelli elencati nell’ad. 133 cod. pen., se appare più conforme al contenuto letterale delle disposizioni, presenta inconvenienti logici e costituzionali, perché implica una duplice valutazione delle condizioni economiche, gravida di ingiuste sperequazioni.

2.3. Per completezza, va ricordato che le condizioni economiche del reo non configurando una circostanza del reato, ma solo un parametro per la quantificazione della pena, non devono essere previamente contestate dal pubblico ministero (Sez. 1, n. 45482 del 04/11/2004, Zheng, Rv. 229750), ma devono essere provate (o almeno allegate) dalla parte processuale che ne invochi la valutazione (Sez. 4, n. 2558 del 13.1.2000, Gamberale, Rv. 215546).

Questa Corte ha avuto modo di precisare che spetta alla pubblica accusa l’onere di fornire la prova della consistenza patrimoniale del reo, in un caso in cui era il pubblico ministero a chiedere l’aumento della pena pecuniaria perché l’elevata capacità economica dell’imputato faceva ritenere inefficace la misura massima (Sez. 3, n. 1208 del 5.11.1993, Battocchio, Rv. 196475). In altri casi, in cui era l’imputato a chiedere la riduzione della pena pecuniaria perché anche la misura minima gli risultava eccessivamente gravosa, la Corte ha ritenuto necessario che lo stesso imputato allegasse l’indispensabile documentazione atta a chiarire la sua situazione economica (Sez. 6, n. 7989 del 31.5.1993, Spreafico, Rv. 194918).

Nel caso in verifica gli imputati si sono limitati a chiedere l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen. senza invocare la diminuzione ulteriore ex art. 133 bis, secondo comma, cod. pen. e senza produrre o allegare davanti al giudice di merito elementi utili per valutare le condizioni economiche se non l’intervenuta ammissione al gratuito patrocinio per di più citata solo in sede di ricorso. In siffatta situazione è evidente che il Tribunale non aveva, alcun obbligo di prendere in considerazione le condizioni economiche dell’imputato ai fini della diminuente di cui all’art. 133 bis, secondo comma, cod. pen. perché non erano state né allegate né documentate dal difensore.

3. All’inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (C. Cost. n. 186 del 2000) – di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in euro tremila.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso, in Roma il 16 aprile 2021.

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