23.01.2015 Illegittimo il trasferimento per contrasti con il sindaco

 

22/01/2015

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 gennaio 2015, n. 56

Dirigente – Demansionamento – Destinazione a nuovo incarico – Atto di ritorsione – Risarcibilità – Sussiste

 

Svolgimento del processo

Con sentenza dell’ 11 ottobre 2011 la Corte d’appello di Caltanissetta ha confermato la sentenza della complessiva somma di euro 100.000 a titolo di risarcimento dei danni subiti per effetto della revoca dall’incarico di dirigente dei servizi finanziari del comune.

La Corte territoriale ha esposto che con delibera del 28 marzo 2000 il Comune aveva dichiarato il D. vincitore del concorso e gli aveva assegnato la qualifica dirigenziale come capo ripartizione servizi finanziari; che con successiva disposizione del 20 luglio 2001 Io aveva assegnato ai servizi demografici come dirigente per affermata “rotazione degli incarichi” e che il lavoratore aveva impugnato tale trasferimento sostenendo che l’assegnazione ad altro incarico trovava il suo reale fondamento nei contrasti insorti con la giunta municipale a seguito di una serie di pareri contabili negativi espressi dal dirigente.

La Corte territoriale ha confermato l’illegittimità, accertata dal Tribunale, dell’assegnazione del D. ad un ufficio di minore rilevanza determinata dal carattere palesemente ritorsivo della . decisione del Comune. Ha ricordalo che la stampa locale aveva dato ampio risalto alla notizia dell’avvenuta e ripetuta imposizione da parte del D. di pareri negativi su delibere di spesa della giunta comunale; che in una nota il sindaco aveva espressamente affermato che il D. aveva esorbitato dai suoi poteri di ragioniere capo esercitando un vero e proprio veto di carattere, politico.

La Corte inoltre ha rilevato che il Tribunale aveva valutato anche il pervicace rifiuto opposto dal Comune all’esecuzione degli ordini giudiziali di reintegra emessi nella fase cautelare, ulteriore segnale delle finalità effettivamente perseguite con il trasferimento del lavoratore e che pertanto tale provvedimento sotto le apparenti esigenze organizzative disvelava in realtà l’interno di rimuovere da un incarico nevralgico un dirigente scomodo, considerato anche il carattere oscuro della disposizione di servizio circa le esigenze che avrebbero giustificato la rotazione degli incarichi dirigenziali non ulteriormente specificata neppure nel corso del giudizio.

La Corte d’appello ha altresì affermato che, a seguito della procedura concorsuale tra le partasi era raggiunto un valido accordo con il quale era stato conferito l’incarico dirigenziale senza previsione di un termine di durata e che dunque tale termine non poteva essere inferiore ai due anni, come previsto dalla normativa, con la conseguenza che il contratto intercorso tra le parti doveva sottostare alle regole generali del codice civile per cui non poteva essere sciolto che per mutuo consenso non sussistendo neppure i presupposti per la revoca anticipata prevista dal comma 1 dell’articolo 109 del decreto legislativo 267 del 2000 (testo unico degli enti locali).

Quanto al risarcimento la Corte territoriale ha rilevato che l’illegittima negazione o impedimento allo svolgimento delle mansioni costituiva illecito contrattuale che obbligava al risarcimento del danno; che con il ricorso il lavoratore aveva chiesto il risarcimento dei danni, da determinarsi in via equitativa, compresi sia i danni patrimoniali sia quelli non patrimoniali; che con riferimento al danno patrimoniale era emersa la prova della diminuzione del reddito a seguito del mutamento dell’incarico; che con riferimento al danno non patrimoniale ha ricordato che la lesione doveva essere individuata nelle finalità perseguite dalla revoca del l’incarico, nel clamore suscitato dalle critiche rivolte dal sindaco al dirigente, nell’ampia diffusione data a livello locale al provvedimento di assegnazione ad altro incarico con conseguente forte discredito professionale tanto che il dirigente si era posto in pensione fuggendo da una condizione lavorativa e personale avvilente; che tali circostanze evidenziavano una lesione massima dell’immagine professionale.

Avverso la sentenza ricorre il Comune di San Cataldo formulando sei motivi. Resiste il D. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art 378 cpc.

 

Motivi della decisione

 

Deve preliminarmente rilevarsi l’infondatezza dell’ eccezione sollevata dal congruo ricorrente di inesistenza della notifica del ricorso in Cassazione perché effettuati da ufficiale giudiziario incompetente.

L’incompetenza per territorio dell’ufficiale giudiziario procedente costituisce motivo di nullità (e non di inesistenza) dell’atto, con conseguente ammissibilità della sanatoria di della nullità, la quale si verifica o con la costituzione della parte o con la rinnovazione della notifica disposta dal giudice ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ. (cfr Cass n. 19352/2013, n. 19834/2014).

Nella specie la costituzione regolare del D. ha sanalo l’eventuale nullità della notifica.

E’, altresì, infondata l’eccezione di nullità della procura del D. sollevata dal ricorrente in quanto, secondo il Comune, non specifica per il giudizio di cassazione. L’apposizione della procura a margine del controricorso costituisce sufficiente garanzia dello sua finalità a consentire la costituzione del presente giudizio di cassazione.

Infine, con riferimento all’eccezione sollevata dal D. può affermarsi che l’esposizione dei fatti contenuta nel ricorso risulta più che sufficiente a rispondere ai requisiti di cui all’art. 366 cpc.

Con il primo motivo il Comune di San Cataldo denuncia violazione dell’articolo 2103 cc nonché vizio di motivazione con riferimento al demansionamento.

Rileva che non era affatto provato che il reparto servizi demografici, delegazioni regionali ed economato, cui era stato adibito il lavoratore fosse di minore rilevanza rispetto ai servizi finanziari contesta pertanto che vi sia stato un demansionamento; che non era applicabile l’articolo 2103 c.c. non sussistendo alcun diritto al mantenimento dell’incarico specifico e cioè dell’ufficio in precedenza ricoperto ma unicamente il diritto al mantenimento delle funzioni dirigenziali; che anche a voler ritenere la sussistenza di un demansionamento era onere del ricorrente provare il pregiudizio ed il nesso di causalità con l’inadempimento e che nella specie nessun allegazione aveva riferito il D. circa le conseguenze negative; che nessuna prova vi era del carattere punitivo del trasferimento ad altro ufficio basato sul discutibile valore giuridico degli articoli di stampa o dell’interrogatorio del ricorrente.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione in ordine alla disposizione di servizio n. 7 del 2001 ed ai pareri negativi resi dal D. sulle delibere della Giunta comunale.

Censura la sentenza nella parte in cui ha fornito una motivazione del lutto insufficiente circa l’affermata insussistenza delle esigenze organizzative di rotazione degli incarichi dirigenziali.

Osserva che la disposizione di servizio riguardava la totalità dei dirigenti in una logica di complessiva ristrutturazione degli uffici e dei servizi e che era adeguatamente motivata.

Rileva poi la piena legittimità delle delibere adottate dal Comune restando i pareri negativi del D. del tutto ingiustificati.

Con il terzo motivo denuncia vizio di motivazione in ordine alla presunta revoca dell’incarico.

Osserva che non vi era revoca dell’incarico ma semplice rotazione per sopravvenute esigenze dell’amministrazione frutto dei poteri organizzativi attribuiti al sindaco dalla norma di cui all’articolo 6, comma 7 della legge 127 del 1997 che disciplini gli incarichi dirigenziali.

Le censure, congiuntamente esaminate stante la loro connessione, sono infondate.

Deve rilevarsi quanto all’assegnazione del D. ad ufficio di minor rilievo – dai servizi finanziari a quelli demografici – denunciato dal dirigente e riconosciuto sia dal Tribunale sia dalle Corte d’appello, nonché al carattere ritorsivo di tale assegnazione che trattasi di un accertamento in fatto svolto dai giudici di merito non censurabile in Cassazione in quanto la motivazione della sentenza impugnata e più che congrua e priva di contraddizioni.

La Corte d’Appello ha valutato correttamente il comportamento delle parti e gli elementi probatori acquisisti con giudizio immune da vizi che, investendo una questione di merito, sfuggono al sindacato della Cassazione. Il ricorrente si limita a propone una diversa valutazione dei fatti formulando in definitiva una richiesta di duplicazione del giudizio di merito, senza evidenziare contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata o lacune così gravi da far risultare detta motivazione sostanzialmente incomprensibile o equivoca. Costituisce principio consolidato che “Il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilavabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione. “(Cass n. 2357 del 07/02/2004; n 7846 del 4/4/2006; n 20455 del 21/9/2006; n 27197 del 16/12/2011).

I giudici di merito, dopo aver ricordato che con determinazione dirigenziale del 29/3/2001 all’esito di una procedura concorsuale di cui il D. era rimasto vincitore era stata assegnata ai ricorrente la qualifica dirigenziale e posto a capo della ripartizione dei servizi finanziari e che con successiva disposizione del 20/7/2001 il Comune aveva assegnato il D. alla ripartizione dei servizi demografici, ufficio di minore rilevanza come confermato dalla stessa previsione del Comune di un compenso inferiore, hanno affermato, in primo luogo, che il Comune non aveva provato le ragioni organizzative o eventuali manchevolezze del D. che ne avevano impedito la permanenza, dopo appena un anno, presso l’ufficio al quale era stato assegnato a seguito di concorso. A riguardo la Corte ha rilevato oltre al carattere “criptico” della richiamata disposizione del 20/7, che il Comune non aveva specificato quale fosse stato “l’ambito di ristrutturazione degli uffici e dei servizi “in cui era stato inserito il provvedimento, le “mutate ed accresciute esigenze” per far fronte alle quali era stato necessario spostare il D. dall’incarico dirigenziale e che avevano imposto di “intervenire sollecitamente”.

La Corte d’appello ha evidenziato che, invece, l’assegnazione al nuovo incarico ritenuto dai giudici di merito di minor rilievo aveva assunto il chiaro carattere ritorsivo: ha richiamalo la vasta eco di stampa verificatasi in occasione del trasferimento, l’ampio risalto sulla stampa della notizia dell’avvenuta e ripetuta apposizione da parte del D. di pareri negativi su delibare di spesa della giunta comunale; la nota del sindaco con cui si accusava il D. di aver esorbitato dai suoi poteri di ragioniere capo; il pervicace rifiuto opposto dal Comune ad eseguire gli ordini giudiziali di reintegra, anch’esso comportamento valutabile quale segnale dell’interno di rimuovere da un incarico nevralgico un dirigente scomodo, tanto da indurlo ad un anticipato pensionamento.

La Corte territoriale ha quindi sottolineato che la unilaterale modifica dell’incarico, in assenza dei presupposti della revoca anticipata degli incarichi dirigenziali di cui all’art 109, comma 1, d.lgs n. 267/2000, comunque in assenza di prova di ragioni organizzative, comportanti l’assegnazione ad ufficio di minor rilievo e avente un evidente carattere ritorsivo era illecita.

Sulla base di tali considerazioni deve rilevarsi quanto al primo motivo, a prescindere dalla considerazione che in esso sono assommate, in modo inammissibile, una molteplicità di censure senza una indicazione specifica delle circostanze e degli elementi rispetto ai quali è invocato il controllo di logicità, che il ricorrente con esso lamenta anche l’erronea applicazione dell’art. 2103 cc alla dirigenza pubblica, l’insussistenza di un demansionamento nell’assegnazione ad altro reparto sui presupposto che nel sistema del lavoro contrattuale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la qualifica dirigenziale esprime unicamente l’idoneità professionale del dipendente a svolgere concretamente determinate mansioni dirigenziali con conseguente fungibilità delle mansioni, e l’impossibilità di ipotizzare il declassamento erroneamente accertato dalla Corte di merito e posto a fondamento del riconosciuto risarcimento.

Le censure tuttavia non appaiono fondate.

Deve rilevarsi, infatti, che i giudici di merito hanno affermato che ove vi sia stato, con la destinazione ad altre mansioni,manifestazione della volontà punitiva e di ritorsione del datore di lavoro, la vicenda esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, notorio essendo la peculiarità dello ius variandi che attinga un dirigente (cfr Cass. n. 24738/2008), la maggiore flessibilità, la temporaneità degli incarichi e la loro rotazione. Hanno precisato che si verte nella specie nella diversa ipotesi di un ‘assegnazione di lavoratore ad officio diverso “per ritorsione”, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego. Questa è l’ipotesi ritenuta sussistente nella fattispecie dalla Corte di appello, la quale ha ritenuto che il lavoratone avesse subito, nel periodo relativo alla sua adibizione all’ufficio demografico, un inammissibile atto di ritorsione. La questione sollevata con il primo motivo non appare, pertanto, fondata avendo la Corte applicato i principi di diritto di cui sopra.

I giudici di merito hanno sottolineato la diversa rilevanza dei due uffici e ciò invero trova conferma, come richiamato dal contro ricorrente, dalla previsione nel regolamento comunale di “una scala di valutazione delle – posizioni dirigenziali “con relativa attribuzione a ciascuna di un punteggio, e nell’ambito di tale valutazione una diversa modulazione dei compensi con la previsione di un minor compenso riconosciuto al dirigente dei servizi demografici, così come indiscutibilmente emerso nel corso del giudizio cd esposto nella sentenza . Se ne desume che, pur nel contesto di una unica qualifica dirigenziale è conservata una articolazione gerarchica dei compiti e delle responsabilità cui corrisponde una graduazione dei compensi.

Ne consegue che il provvedimento di assegnazione del D. ad una diversa posizione Dirigenziale, con corrispondente diminuzione della retribuzione,integra una lesione della posizione acquisita, la cui ridefinizione è ammissibile solo in ragione di una motivala diversa attribuzione dell’ente nei confronti del suo dipendente.

Con il secondo e terzo motivo il ricorrente ribadisce la validità dell’ordine di servizio del 20/7/2001 ed esclude il carattere ritorsivo . Non provvede, tuttavia, neppure a depositare il citato ordine di servizio in violazione dell’art. 369 cpc o a riprodurne per intero il contenuto impendendo in tal modo a questa Corte anche di valutarne, come affermato dal ricorrente, la sua riferibilità a tutti i dirigenti o il suo contenuto motivazionale congruo e idoneo a spiegare le ragioni dell’assegnazione del D. ad altro incarico al fine di escludere il carattere ritorsivo

evidenziato dai giudici di merito. Il ricorrente si limita a riprodurre le sue delibere, a ribadire che si trattava di mera rotazione di incarichi senza, invece provvedere a contestare i passaggi motivazionali della sentenza.

Con il quarto motivo il Comune denuncia vizio di motivazione circa l’esistenza e quantificazione del danno. Rileva che nella fattispecie mancava del tutto la prova del danno e che ciò nonostante sia il Tribunale sia la Corte d’appello avevano quantificano il danno senza dare conto della concreta e circostanziata dimostrazione della sua effettività. Secondo il ricorrente la Corte aveva omesso del tutto di valutare che il principio della rotazione degli incarichi non solo era legittimo ma assicurava una professionalità flessibile all’interno della pubblica amministrazione. Circa la quantificazione del danno rileva che esso era sproporzionato rispetto alla durata dell’incarico e non teneva conto che il danno derivante dalla diffusione a mezzo stampa di eventi legati alle vicende lavorative del dirigente avrebbe dovuto essere unicamente ristorato dalle testale giornalistiche.

Con il quinto morivo denuncia vizio di ultra petizione per avere la Corte d’appello fatto riferimento al danno esistenziale senza che vi fosse un’ allegazione circa l’effettività del danno esistenziale non potendo sussistere in re ipsa ed anzi non avendo il ricorrente neppure chiesto di essere risarcito del danno esistenziale con la conseguenza che il giudice si è pronunciato oltre i limiti del petitum.

Le censure, congiuntamente esaminate stante la loro connessione, sono infondate.

La Corte, premesso che con il ricorso introduttivo il ricorrente aveva chiesto la liquidazione del danno patrimoniale e non patrimoniale, ha rilevato con riferimento al primo la minore entità dell’indennità di posizione percepita ed, a riguardo, ha sottolineato che lo stesso Comune, riconoscendo una minore indennità di posizione ai servizi demografici aveva attribuito una minore “caratura ad un servizio meno importante risolvendosi ciò in un trattamento deteriore”. Quanto al secondo ha sottolineato l’aspetto fondamentale della lesione della sfera non patrimoniale nelle fuorviami finalità perseguite dal provvedimento di revoca dell’incarico presso i servizi finanziari concretatosi in un demansionamento del dirigente, nel clamore suscitato dalle critiche rivolte dal sindaco al dirigente, nell’ampia diffusione data, a livello locale, al provvedimento di assegnazione ad altro incarico, nel conseguente forte discredito professionale. Sulla base di tali elementi la Corte ha ravvisato la lesione massima dell’immagine professionale dal momento che il dirigente era stato ingiustamente rimosso dalla funzione apicale rispondente alla sua qualifica di ragioniere capo per essere assegnato a settore di minor rilievo. Le censure del ricorrente sono, pertanto, infondate in quanto la Corte ha dato ampia motivazione della sussistenza del danno con decisione che appare conforme ai principi fissati da questa Corte che ha affermato che “in caso di revoca illegittima di un incarico dirigenziale da parte del datore di lavoro pubblico, costituiscono profili rilevanti, ai fini del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, le ragioni dell’illegittimità del provvedimento di revoca, le caratteristiche, la durata e la gravità dell’attuato demansionamento, la frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione e le eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro e comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale”.(cfr Cass n. 687/2014, 28274/2008).

La Corte si è attenuta ai principi fissati da questa Corte specificando, poi, circa la quantificazione del danno, i criteri utilizzati che hanno fatto riferimento alla retribuzione e alla durata dell’assegnazione all’ufficio di minor rilievo.

Infine circa il quinto motivo non risulta dalla sentenza impugnata il richiamo al danno esistenziale di cui si duole il ricorrente e, dunque, tale motivo appare non pertinente rispetto al contenuto della sentenza impugnata: la doglianza sul regime delle spese è conseguentemente travolta.

Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio liquidate in € 100,00 per esborsi ed € 6.000,00 per compensi professionali, oltre IVA, C.P. 15% per spese generali.

 

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