20/03/2018 – Irregolarità nei mandati di pagamento: condannato il Segretario comunale per autoliquidazione di somme non dovute

Irregolarità nei mandati di pagamento: condannato il Segretario comunale per autoliquidazione di somme non dovute

 

Secondo la Corte è corretta l’imputazione di falso ideologico e di peculato.

Un Segretario comunale in servizio presso un Comune calabrese veniva tratto a giudizio, per essersi appropriato di somme di denaro attraverso l’emissione di mandati di pagamento che presentavano causali prive di qualsiasi riscontro contabile ed amministrativo.

La vertenza ha tratto origine dall’iniziativa del revisore dei conti del Comune, il quale, ha dato notizia di irregolarità riscontrate nei mandati di pagamento emessi. Il revisore avrebbe accertato che detti mandati risultavano accreditati sul conto corrente bancario personalmente intestato all’alto burocrate, che in qualità di responsabile del servizio finanziario, oltre che di segretario comunale, aveva sottoscritto in suo favore decine di mandati, per il complessivo importo lordo di quasi duecentomila euro, riferito ad un periodo di sei mesi. Di questa somma – giustificata poi con argomentazioni da ritenersi infondate (“arretrati”, indennità varie, ecc.) – solo una minima parte risultava essere dovuta.

Sia in primo grado che in appello l’imputato veniva condannato per falso ideologico e per peculato. Da qui il ricorso per cassazione nel quale la difesa ha criticato la sentenza di secondo grado responsabile, a suo dire, vuoi dell’erronea qualificazione come falso ideologico in atto pubblico della contestata falsificazione dei mandati di pagamento (giacché, in presenza di una condotta di autoliquidazione di somme non dovute, ricorrerebbe, al più, la fattispecie di reato di cui all’art. 480 Cod. pen., vale a dire falso in certificazioni), vuoi dell’illogicità della stessa pronuncia in relazione alla mancata ricorrenza già dell’elemento oggettivo del reato di peculato relativo alla appropriazione di un bene pubblico, in quanto la contestata appropriazione era avvenuta sì per finalità diverse da quelle specificatamente previste, ma pur sempre nell’ambito delle attribuzioni del ruolo istituzionale svolto dall’agente pubblico.

La Suprema Corte, V Sezione penale, con sentenza del 6 marzo 2018, ha respinto il ricorso e confermato la condanna già irrogata.

Sul primo motivo i giudici di legittimità hanno ritenuto che nessun dubbio poteva residuare, sulla correttezza giuridica della addebitabilità all’imputato del delitto di falso ideologico, così come contestato nel capo di imputazione, atteso che il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo può investire le attestazioni, anche implicite, contenute nell’atto nonché i presupposti di fatto giuridicamente rilevanti ai fini della parte dispositiva dell’atto medesimo, che concernano fatti

compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale, ovvero altri fatti dei quali l’atto è destinato  a  provare  la  verità.

In ordine alla seconda censura, la Corte ha ricordato che l’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione va individuato con riferimento alle modalità di acquisizione del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene. Infatti, in tema di peculato, la nozione di possesso di denaro deve intendersi non solo come comprensiva della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del denaro e di conseguire quanto poi oggetto di appropriazione: ne consegue che l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale che si comporti uti dominus nei confronti di danaro del quale ha il possesso in ragione del suo ufficio, e la sua conseguente appropriazione, possono realizzarsi anche nelle forme della disposizione giuridica, del tutto autonoma e libera da vincoli, del danaro stesso, indisponibile in ragione di norme giuridiche o di atti amministrativi.

In questo senso i giudici di Piazza Cavour hanno condiviso la tesi evincibile nella sentenza della Corte distrettuale, la quale ha evidenziato che, per un verso, l’agente si era appropriato delle somme corrispondenti alle indennità retributive non dovute avendone già la disponibilità per ragione del suo ufficio e, dunque, senza aver ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi delle stesse.

Fonte: Massimario G.A.R.I.

Rodolfo Murra

(18 marzo 2018)

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto