19/07/2019 – Società “in house”: solo se prevista per legge è consentita la partecipazione di soci privati

Società “in house”: solo se prevista per legge è consentita la partecipazione di soci privati

12Giu, 2019
Il Consiglio di Stato, con il Parere n. 1389/2019, restringe le ipotesi in cui è possibile ritenere ammissibile la partecipazione dei privati tra i soci di una Società “in house”: solamente quando la partecipazione è prescritta da una legge nazionale.
1) Il quesito posto dalla Regione Piemonte:
Con specifico riferimento all’affidamento del “Servizio idrico integrato”, ma con argomentazione replicabile anche in altri Settori, la Regione Piemonte avanza il dubbio in ordine alla possibile partecipazione dei privati alle Società “in house”.
Il dubbio sollevato nasce dal fatto che l’art. 149-bis, comma 1, del Dlgs. 152/2006, come modificato dall’art. 1, comma 615, Legge n. 190/2014 (“Codice Ambiente”), prevede che l’affidamento diretto del “Servizio idrico integrato” “può avvenire a favore di Società interamente pubbliche, in possesso dei requisiti prescritti dall’ordinamento europeo per la gestione ‘in house’, comunque partecipate dagli enti locali ricadenti nell’ambito territoriale ottimale”. Con ciò palesando una possibile contraddizione tra la specifica individuazione di Società interamente pubbliche ed il possesso dei requisiti prescritti dall’ordinamento europeo che consentono invece la partecipazione di privati nella Società “in house” a determinate condizioni.
In tal senso depone il “Testo unico in materia di Società a partecipazione pubblica” ed il “Codice dei contratti pubblici”.
Il Consiglio di Stato, nell’affrontare il tema sottoposto, effettua preliminarmente una ricostruzione dell’evoluzione della disciplina sugli affidamenti della gestione del “servizio pubblico” per poi esaminare l’istituto della Società “in house”, la sua matrice comunitaria ed i requisiti che ne caratterizzano la natura.
2) La gestione dei ‘servizi pubblici’
Con la Legge n. 142/1990 (“Ordinamento delle Autonomie locali”) sono state individuate 5 tipologie organizzative:
1) la gestione in economia, nei casi in cui non è opportuno per le modeste dimensioni del servizio e l’esiguità del valore della prestazione creare un’autonoma Azienda o una Spa;
2) l’Azienda speciale dotata di autonomia operativa, gestionale, contabile e statutaria;
3) la Società mista a capitale pubblico-privato;
4) la concessione a terzi (provvedimento fiduciario che consente l’affidamento diretto senza l’espletamento di una gara);
5) l’Istituzione, per “servizi di rilevanza non economica”, Organismo strumentale dell’Ente pubblico dotato di autonomia, ma privo di propria personalità giuridica.
Nel 2000, il Tuel ha regolato i “servizi pubblici locali” all’art. 113. In seguito alle modifiche operate dal Dl. n. 135/2009, l’art. 113 Tuel è diventato norma di riferimento in materia di proprietà delle reti e delle infrastrutture e della loro gestione mentre la gestione ed erogazione del servizio fu disciplinata dall’art. 23-bis Dl. n. 112/2008. Articolo che venne abrogato a seguito del Referendum popolare del giugno 2011.
A distanza di qualche tempo, con l’art. 4 del Dl. n. 138/2011, il Legislatore adeguò la disciplina dei “servizi pubblici locali di rilevanza economica” ai Principi informatori sanciti a livello europeo, prevedendo come regola generale che gli Enti Locali avrebbero dovuto liberalizzare le attività economiche.
La norma è stata tuttavia dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con Sentenza n. 199/2012, che l’ha ritenuta elusiva dell’esito del Referendum del 2011.
Per effetto della Sentenza n. 199/2012 si è quindi creato nuovamente un vuoto normativo sui “servizi pubblici locali”.
In attuazione degli artt. 16 e 19 della Legge n. 124/2015, recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche”, è stato deliberato dal Consiglio dei Ministri il 20 gennaio 2016 uno “Schema di Dlgs. recante ‘Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale’”. Tuttavia, tale Schema di Dlgs. non è stato mai approvato in via definitiva.
Oggi la disciplina è affidata ai Principi dell’ordinamento UE, alla Direttiva sulle concessioni ed a quelli affermati dalla Corte di Giustizia UE, nonché a specifiche disposizioni interne in materia di “servizi pubblici”:
  1. a) l’art. 113 del Tuel per la disciplina della proprietà e della gestione delle reti,
  2. b) l’art. 3-bis del Dl. n. 138/2011 (disciplina gli Ambiti territoriali dei “servizi pubblici locali”);
  3. c) l’art. 34, commi 20-27, Dl. n. 179/2012 (sui “servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica”);
  4. d) l’art. 8 del Dl. n. 1/2012 (disciplina delle Carte dei servizi pubblici).
3) Società ‘in house’
Con l’espressione “in house providing” si fa riferimento all’affidamento di un appalto o di una concessione da parte di un Ente pubblico in favore di una Società controllata dall’Ente medesimo senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica, in virtù della peculiare relazione che intercorre tra l’Ente pubblico e la Società affidataria.
La Società “in house” è una Società dotata di autonoma personalità giuridica che presenta connotazioni tali da giustificare la sua equiparazione ad un “Ufficio interno” dell’Ente pubblico che l’ha costituita, una sorta di longa manus; non sussiste tra l’Ente e la Società un rapporto di alterità sostanziale, ma solo formale. Queste caratteristiche della Società “in house” giustificano e legittimano l’affidamento diretto, senza previa gara, per cui un’Amministrazione aggiudicatrice è dispensata dall’avviare una procedura di evidenza pubblica per affidare un appalto o una concessione.
I requisiti delle Società “in house” sono stati elaborati nel tempo dalla Corte UE.
Secondo la giurisprudenza della Corte, a partire dalla Sentenza Teckal del 1999, le procedure di evidenza pubblica possono escludersi tutte le volte in cui:
1) l’Amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto affidatario un “controllo analogo” a quello operato sui propri servizi interni;
2) il soggetto affidatario realizza la parte più importante della propria attività a favore dell’Amministrazione aggiudicatrice che lo controlla.
I requisiti del citato “in house” sono adesso chiaramente indicati dall’art. 12, paragrafo 1, della Direttiva 2014/24/UE, dall’art. 28, paragrafo 1, della Direttiva 2014/25/UE e dall’art. 17, paragrafo 1, della Direttiva 2014/23/UE.
4) Affidamento ‘in house’ vs procedure di gara: Principio di libera amministrazione
Per lungo tempo è stato ritenuto che i requisiti del cosiddetto “in house providing” dovessero essere interpretati restrittivamente (Consiglio di Stato, Sezione II, Sentenza n. 456/2007; Consiglio di Stato, Sezione V, Sentenza n. 5620/2010; Consiglio di Stato, Sezione I, Sentenza n. 2577/2011). Si rilevava, al riguardo, che il modello “in house”, così come costruito dalla giurisprudenza comunitaria, rappresentava, più che un modello di organizzazione dell’Amministrazione, un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono la previa gara (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 1/2008).
A seguito delle Direttive europee, in materia di appalti (n. 2014/24/UE), di concessioni (n. 2014/23/UE) e sui Settori speciali (n. 2014/25/UE), si è formato e consolidato il Principio che la scelta dell’affidamento diretto alla Società “in house” non costituiva più modello eccezionale, ma modalità alternativa avente pari dignità alle altre forme di affidamento.
E, pertanto, secondo una diversa prospettiva, l’Autorità pubblica, in virtù del Principio di libera amministrazione, può discrezionalmente decidere come devono essere gestiti i “servizi pubblici locali di rilevanza economica” secondo le opzioni possibili (Consiglio di Stato, Sezione V, Sentenza n. 4599/2014; Sezione V, Sentenza n. 257/2015; Sezione V, Sentenza n. 1900/2016).
Da segnalare da ultimo il Consiglio di Stato, Sezione V, con Ordinanze 7 gennaio 2019, n. 138 e 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296, ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale originata dal dubbio che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti “in house” a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate (quindi su un piano subordinato ed eccezionale) rispetto alle altre modalità di affidamento, siano compatibili con le pertinenti disposizioni e principi del diritto primario e derivato dell’Unione europea, trattandosi di stabilire se il citato restrittivo orientamento ultradecennale dell’ordinamento italiano in tema di affidamenti “in house” risultasse conforme con i princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea.
5) Società ‘in house’ e Società miste – differenze strutturali:
Il Consiglio di Stato, con il Parere n. 456/2007, ha segnalato che “l’evoluzione giurisprudenziale consente altresì di escludere, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della ‘Società mista’ a quello del modello ‘in house providing’”.
Ciò ha trovato conferma nel Dlgs. n. 175/2016 (Tusp), che ha differenziato le Società “in house”, oggetto di disciplina all’art. 16, e le Società miste a partecipazione pubblico-privato, disciplinate al successivo art. 17.
Emergono dunque notevoli differenze, sia con riferimento alle modalità di affidamento del contratto, sia in relazione al diverso ruolo del socio privato che, nelle Società “in house”, non deve avere un ruolo determinante e che, al contrario, nelle Società miste deve essere determinante, tanto che l’art. 17, comma 2, prescrive per quest’ultimo il possesso dei requisiti di qualificazione previsti da norme legali o regolamentari in relazione alla prestazione per cui la Società è stata costituita.
6) Società ‘in house’ e partecipazione dei privati in ambito comunitario
Uno dei requisiti che hanno originariamente caratterizzato la definizione comunitaria di “in house providing” è stato individuato nella natura integralmente pubblica del capitale della Società controllata, ritenendosi invece non ammissibile la partecipazione anche minoritaria di soci privati (Corte Giustizia CE, Sezione I, Sentenza 11 gennaio 2005, C-26/03; Corte giustizia, Sezione I, Sentenza 19 giugno 2014, C-574/12).
Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato è giunta alle medesime conclusioni, a partire dall’Adunanza plenaria n. 1/2008: “la sussistenza del ‘controllo analogo’ viene esclusa in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato, essendo necessaria la partecipazione pubblica totalitaria: deve pertanto escludersi, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della Società mista a quello del modello ‘in house providing’” (v. anche Consiglio di Stato, Sezione V, Sentenza n. 5079/2014; Consiglio di Stato, Sezione VI, Sentenza n. 2660/2015; Consiglio di Stato, Sezione V, Sentenza n. 4253/2015; Consiglio di Stato, Sezione I, Sentenza n. 1645/2018; Consiglio di Stato, Sezione I, Sentenza n. 2583/2018; Consiglio di Stato, Sezione I, Sentenza n. 883/2019; Consiglio di Stato, Sezione I, Sentenza n. 1645/2018).
Senonché il quadro di riferimento normativo è stato parzialmente modificato dalla Direttiva 2014/24/UE che, se da un lato ha confermato e sottolineato che “l’aggiudicazione di un appalto pubblico senza una procedura competitiva offrirebbe all’operatore economico privato che detiene una partecipazione nel capitale della persona giuridica controllata un indebito vantaggio rispetto ai suoi concorrenti” (32° considerando), dall’altro ha consentito forme di partecipazione di capitali privati, purché sussistano i requisiti di cui all’art. 12, comma 1, lett. c) (“nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata”).
In tal modo sono stati modificati, in parte, i tratti distintivi del modello “in house” (Consiglio di Stato, Commissione Speciale n. 268/2016), ritenendo valido il modello anche in presenza di una partecipazione minoritaria di soci privati in presenza di determinate condizioni.
  1. 1 – La partecipazione dei privati nella Società ‘in house’ deve essere prescritta da una norma specifica
In attuazione della Direttiva 2014/24/UE, l’art 5, comma 1, lett. c), del Dlgs. n. 50/2016 (“Codice dei Contratti”), ha previsto che nella persona giuridica controllata non vi debba essere “alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.
Successivamente l’art. 16, comma 1, del Dlgs. n. 175/2016 (“Testo unico sulle Società a partecipazione pubblica”), ha stabilito che “le Società ‘in house’ ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle Amministrazioni che esercitano su di esse il ‘controllo analogo’ o da ciascuna delle Amministrazioni che esercitano su di esse il ‘controllo analogo’ congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla Società controllata”.
Tra le 2 normative emerge una evidente differenza semantica (previste-prescritte) che ha fatto ritenere ad una prima lettura che fosse sufficiente una partecipazione meramente consentita (prevista).
Secondo il Consiglio di Stato tale interpretazione si scontra invero con 2 fondamentali criteri esegetici.
Quando 2 norme hanno pari rango deve prevalere quella successiva.
Il Tusp (Dlgs. n. 175/2016) – che richiede la prescrizione normativa – si pone quale equiordinato alla precedente disciplina del “Codice dei Contratti” (Dlgs. n. 50/2016), ma prevalente in quanto lex posterior.
D’altro canto, l’espressione “prescritta” è esattamente quella contenuta nella Direttiva comunitaria.
Occorre quindi che, a livello interno, la partecipazione sia “prescritta”, e non meramente consentita, perché:
– la Direttiva usa il termine “prescritte”, e non semplicemente “previste”;
– i considerando n. 32 della Direttiva “Appalti” e n. 46 della Direttiva “Concessioni” espressamente affermano la necessità di una partecipazione non facoltativa ma obbligatoria, in ragione di valutazioni effettuate dal Legislatore interno;
– anche l’analisi comparativo-linguistica della Direttiva, fondamentale ai fini dell’indagine del suo significato letterale, conferma il significato forte dell’impiego del termine “prescritta” (Corte dei conti, Sezione controllo Campania, Deliberazione n. 108/2016).
A tali esiti del resto è giunto anche questo Consiglio di Stato con il Parere Commissione Speciale n. 968/2016, secondo cui la norma europea “non ha inteso autorizzare in generale la partecipazione dei privati ma ha rinviato alle specifiche disposizioni di legge che le ‘prevedono’. Tale forma di rinvio deve però essere fatto a disposizioni di legge che ‘prescrivono’ e dunque impongono la partecipazione e non anche a quelle che genericamente ‘prevedono’ la partecipazione”.
  1. La normativa che prescrive la partecipazione dei privati nella ‘in house’ deve essere di rango nazionale
Il Consiglio di Stato conclude il suo Parere precisando le ragioni per cui la normativa che prescrive la partecipazione dei privati debba essere di livello nazionale e non regionale.
La diversa formulazione della disposizione del “Codice degli Appalti” (“forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale”) rispetto a quella del “Testo unico sulle Società a partecipazione pubblica” (“ad eccezione di quella prescritta da norme di legge”) potrebbe far insorgere il dubbio se fonti diverse da quelle statali – quali quelle regionali – possano prevedere l’ingresso dei privati.
In senso favorevole si era espresso il Consiglio di Stato nel Parere n. 2583/2018 – su quesito proposto dalla stessa Regione Piemonte – che peraltro riguardava la specifica materia del Turismo che – come è noto – appartiene alla competenza “esclusiva” delle Regioni a Statuto ordinario.
In via generale invece, anche alla luce del canone ermeneutico sopra detto secondo cui i requisiti del modello “in house providing” costituendo un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, devono essere interpretati restrittivamente – la disciplina sulle Società “in house” appartiene alla potestà esclusiva del Legislatore nazionale, trattandosi di materia attinente alla concorrenza. Quindi non v’è spazio per la legislazione regionale.
di Giuseppe Girlando

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