19/05/2023 – L’efficacia del giudicato amministrativo e la decorrenza dei termini per impugnare il provvedimento lesivo.

Abstract

Il presente scritto mira ad analizzare l’importante sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4/2019, con particolare riguardo ai profili concernenti l’efficacia del giudicato amministrativo e la decorrenza dei termini per impugnare il provvedimento lesivo.

Nella risoluzione del caso di specie, l’Autorità giudicante ha chiarito come il giudicato amministrativo abbia di regola effetti limitati alle parti del giudizio e non produca effetti a favore dei cointeressati che non abbiamo tempestivamente impugnato l’atto lesivo. I casi di giudicato con effetti ultra partes sono eccezionali e si giustificano in ragione dell’inscindibilità degli effetti dell’atto o dell’inscindibilità del vizio dedotto.

Inoltre, il termine per impugnare il provvedimento amministrativo decorre dalla piena conoscenza dell’atto e dei suoi effetti lesivi, non assumendo rilievo al fine di differire il dies a quo di decorrenza del termine decadenziale, l’erroneo convincimento soggettivo dell’infondatezza della propria pretesa, né potrebbe invocarsi l’istituto del prospective overruling per giustificare la perdurante applicazione di un orientamento interpretativo non espressione di un diritto vivente, perché sviluppatosi in un arco temporale di pochi mesi e perché fondato su premesse processuali e conclusioni sostanziali che presentano profili di contrarietà a consolidati indirizzi giurisprudenziali di segno opposto, specie quando l’irretroattività della nuova esegesi avrebbe l’effetto di sacrificare la legittima aspettativa di un’amplia platea di soggetti controinteressati, producendo così effetti in danno degli stessi.

Sommario: 1. Il fatto – 2. Le questioni giuridiche – 3. Le sopravvenienze normative e la natura giuridica del decreto di aggiornamento delle graduatorie – 4. Il contesto del Decreto ministeriale n. 235/2014 – 5. Gli effetti della sent. n. 1973/2015 – 6. Il valore non ex se abilitante del diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002 – 7. Effetti temporali dei principi di diritto della sentenza n. 11 del 2017 ed istituto prospective overruling – 8. Conclusioni.

 

  1. Il fatto

Il ricorrente impugnava il d.m. 12 giugno 2017, n. 400, riguardante le procedure per l’aggiornamento e l’integrazione delle graduatorie ad esaurimento (GAE) per il personale docente ed educativo relative al triennio 2014-2017, poi prorogato al 2019, lamentandone l’illegittimità nella parte in cui non consentiva l’inserimento nelle GAE dei soggetti in possesso di diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002.Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio accoglieva il ricorso. Per ottenere la riforma di detta sentenza, proponeva appello il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca.

 

  1. Le questioni giuridiche

In sede di appello, la Sesta Sezione, con ordinanza, rimetteva all’Adunanza plenaria sette questioni di diritto, al fine di sollecitare una rimeditazione dei principi di diritto espressi dalla sentenza n. 11 del 2017.

Le prime tre vertevano sulla natura giuridica dei decreti ministeriali che disciplinano gli aggiornamenti della GAE e, in particolare, sulle conseguenze derivanti dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 1973 del 2015 che, accogliendo il ricorso di alcuni diplomati magistrali, aveva annullato il d.m. n. 235 del 2014, nella parte in cui non consentiva il loro inserimento in graduatoria.

Il quarto quesito atteneva al merito della controversia e concerneva il valore legale del diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002. In particolare, la Sezione rimettente sosteneva che l’art. 15, comma 7, d.P.R. n. 323 del 1998, nel riconoscere il valore abilitante del diploma magistrale, implicherebbe la possibilità di un reclutamento diretto, senza bisogno della laurea in scienze della formazione e senza bisogno di alcun ulteriore percorso abilitante.

Il quinto e il sesto quesito riguardavano gli effetti derivanti, sull’attualità dell’interesse azionato in giudizio, da due novità normative successive alla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 11 del 2017, e cioè, rispettivamente, l’art. 26, comma 6, d.lgs. 13 aprile 2017, n. 62 – che ha previsto che a partire dal 1 settembre 2018 cessano di avere efficacia le disposizioni del d.P.R. 323 del 2018 – e l’art. 4, d. l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96, che ha stabilito (comma 1- ter) che i posti dei docenti vacanti e disponibili nella scuola primaria e dell’infanzia è coperto, per il 50% attingendo alla GAE e per almeno il restante 50% (se non di più, in caso di esaurimento delle GAE) attraverso lo scorrimento delle graduatorie di merito delle procedure concorsuali ivi indicate alle lettere a), b) e c).

Da ultimo, il settimo quesito riguardava la possibilità di modulare nel tempo gli effetti temporali dei principi di diritto enunciati dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 11 del 2017, limitandone l’efficacia al futuro, in applicazione dell’istituto del c.d. prospective overruling, come delineato dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 13 del 2017.

 

  1. Le sopravvenienze normative e la natura giuridica del decreto di aggiornamento delle graduatorie

L’Adunanza Plenaria procedeva nella risoluzione delle questioni prospettatele evidenziando anzitutto che le sopravvenienze normative sopra richiamate non determinavano la sopravvenuta carenza di interesse rispetto ai ricorsi dei diplomati magistrali, dal momento che l’inserimento nelle GAE, sebbene di per sé non sufficiente per partecipare al concorso straordinario di cui alla lett. b) del citato comma 1-ter dell’art. 4 d.l. 87/2018 (che richiede anche lo svolgimento, nel corso degli ultimi otto anni scolastici, di almeno due annualità di servizio specifico, anche non continuative, su posto comune o di sostegno, presso le istituzioni scolastiche statali), nondimeno consentirebbe ai diplomati magistrali di rientrare nel canale di reclutamento dei docenti della scuola primaria e dell’infanzia, che avviene appunto attingendo dalle GAE. Il che, come affermato dai giudici di Palazzo Spada, “rende palese l’utilità perseguita attraverso i ricorsi e, di riflesso, la persistenza dell’interesse al ricorso”.

Ciò chiarito, l’attenzione è stata quindi rivolta alla questione relativa alla natura giuridica dei decreti di aggiornamento delle graduatorie (in particolare del d.m. n. 235 del 2014).

Nel caso sottoposto all’esame dell’Adunanza Plenaria, l’ordinanza di rimessione sosteneva che i decreti di aggiornamento avessero natura normativa. La Sesta Sezione deduceva quindi l’efficacia erga omnes della sentenza n. 1973 del 2015, con conseguente nullità per violazione del giudicato dei successivi decreti ministeriali reiterativi del medesimo vizio. In subordine, metteva in luce come tale annullamento avrebbe dovuto avere quantomeno l’effetto di rimettere in termini i diplomati magistrali per impugnare i successivi decreti ministeriali di aggiornamento (nella specie il d.m. 400/2017), anche se non avevano previamente impugnato il d.m. n. 235/2014.

Una ricostruzione ermeneutica che, però, come statuito nella pronuncia in esame, non veniva condivisa dal Consiglio di Stato. Come emergerebbe chiaramente dal tenore letterale, il d.m. n. 235/2014 disciplinerebbe, infatti, i criteri di massima per la permanenza, l’aggiornamento e la conferma dell’inclusione di coloro che sono già iscritti nella graduatoria, rivolgendosi, pertanto, ad una categoria chiusa di soggetti determinati o, comunque, facilmente determinabili. Criteri di aggiornamento che, per di più, come chiarito dalla Plenaria, avrebbero efficacia limitata nel tempo, valendo solo per il triennio 2014-2017. Da simili caratteristiche si dovrebbe perciò giungere a sostenere una incompatibilità dell’atto con l’ipotizzata natura normativa, dal momento che mancherebbero gli stessi elementi essenziali della norma giuridica, quali l’astrattezza, la generalità e l’innovatività.

A ciò è stato aggiunto che la natura normativa troverebbe smentita anche nella forma e nel procedimento di approvazione del d.m., che non è quello dei regolamenti ministeriali di cui all’art. 17, comma 4, l. 23 agosto 1988, n. 400. Un decreto ministeriale che, oltre a non recare la denominazione “regolamento”, non veniva sottoposto al parere del Consiglio di Stato, né al visto della Corte dei conti, né previamente comunicato al Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ragionando per assurdo, laddove il d.m. avesse natura normativa, si tratterebbe di un “atto normativo non regolamentare”, il che, però, porrebbe seri dubbi di legittimità, alla luce del tradizionale e condivisibile orientamento in base al quale il Governo o i Ministri non possano esercitare la funzione normativa con una procedura diversa da quella prevista dall’art. 17 l. n. 400 del 1988, specie in assenza di una previsione legislativa specificamente derogatoria (cfr. Ad. Plen. 4 maggio 2012, n. 9). Passando allora a considerare ulteriori categorie giuridiche entro cui poter correttamente inquadrare l’atto de quo, l’Adunanza Plenaria affermava che il d.m. n. 235 del 2014 non fosse neppure un atto amministrativo generale, che comunque si caratterizzerebbe per la generalità dei propri destinatari, intesa nell’unico modo compatibile con la natura “concreta” dell’atto amministrativo generale, ovvero come indeterminabilità dei destinatari ex ante, ma non ex post. Il decreto in oggetto, al contrario, si rivolgeva a destinatari già noti al momento della sua adozione, ossia a tutti coloro e solo a coloro che sono già inseriti nelle GAE. Dunque, trattandosi di un atto amministrativo che si rivolge a un gruppo delimitato di soggetti, l’Organo giudicante sosteneva che “lo si [potesse] qualificare come atto amministrativo “collettivo”, per distinguerlo sia dall’atto amministrativo generale (i cui destinatari sono indeterminabili ex ante), sia da quello plurimo in senso stretto (che è solo la sommatoria di più provvedimenti individuali che si fondono in un atto unico)”.

Come già chiarito dalla sentenza n. 11 del 2017, questo, però, non escluderebbe una sua qualificazione anche in termini di atto amministrativo di macro-organizzazione, come tale idoneo a radicare la giurisdizione amministrativa (cfr. Sez. Un., ordinanza14 dicembre 2016, n. 25840).

 

  1. Il contesto del Decreto ministeriale n. 235/2014

A questo punto, delineando con sempre maggior dettaglio il contesto normativo e giurisprudenziale in cui si inseriva il contenzioso giunto al proprio scrutinio, i Giudici di appello evidenziavano come il d.m. n. 235 del 2014 “non cont[enesse], a rigore, alcuna disposizione lesiva o escludente nei confronti dei diplomati magistrali non inseriti nelle GAE”. Il decreto dettava criteri e procedure per aggiornare le graduatorie, non rivolgendosi quindi a coloro che, per qualsiasi motivo, non erano stati ivi inseriti. Ne conseguiva che i ricorrenti avrebbero dovuto far valere il diploma magistrale partecipando ad almeno una delle varie procedure bandite dal Ministero per l’inserimento nelle graduatorie (permanenti prima e ad esaurimento poi), ed eventualmente, a fronte del mancato accoglimento della domanda presentata, avrebbero potuto far valere le loro ragioni impugnando tempestivamente il provvedimento con cui si era negato detto inserimento. Ipotesi che non si era, però, verificata nel caso di specie, in cui i ricorrenti, nella convinzione di non aver titolo all’inserimento in base al solo diploma magistrale, non avevano mai partecipato alle procedure bandite per l’inserimento nelle graduatorie.

Tuttavia, quando la Seconda Sezione Consultiva del Consiglio di Stato (parere n. 3813 in data 11 settembre 2013) aveva riconosciuto in motivazione efficacia abilitante ex se allo stesso diploma magistrale, si apriva una diversa prospettiva di tutela.

Tali ricorsi, non essendoci un atto lesivo da impugnare (visto che nessuna domanda era mai stata presentata), sono stati allora proposti contro i decreti ministeriali di “aggiornamento” della graduatoria: il d.m. 235 del 2014 (il primo aggiornamento dopo il parere del Consiglio di Stato del 2013) e il d.m. 400 del 2017, di cui si rivendica l’autonoma impugnabilità, anche da parte dei diplomati che non hanno gravato il precedente d.m. 235 del 2014.

Tuttavia, l’Adunanza Plenaria criticava fortemente questo tipo di iniziativa processuale, “fondata su presupposti che, se fossero accettati, darebbero vita a risultati paradossali, forieri di una grave incertezza, e, soprattutto, contrastanti con i principi fondamentali della giustizia amministrativa. Sarebbe, nella sostanza, come ammettere che chi non ha mai partecipato ad una procedura lato sensu concorsuale possa direttamente insorgere contro (neanche la graduatoria, ma) il provvedimento che dispone l’aggiornamento (o lo scorrimento) della graduatoria, pretendendo di esservi inserito, ed assumendo come dies a quo del termine per proporre il ricorso la data di pubblicazione della sentenza favorevole ottenuta da qualche altro soggetto nelle sue stesse condizioni. Con l’aggravante, nel caso delle graduatorie ad esaurimento, che queste vengono aggiornate periodicamente, il che implica che ogni successivo aggiornamento determinerebbe la riapertura dei termini per ricorrere”.

 

  1. Gli effetti della sent. n. 1973/2015

La sentenza della Sesta Sezione n. 1973 del 2015 aveva annullato il d.m. n. 235 del 2014, accogliendo il ricorso proposto da alcuni diplomati magistrali (ante a.s. 2001/2002) ai fini dell’inserimento nelle GAE.

Sul punto, l’Adunanza Plenaria, con la pronuncia n. 4/2019, statuiva sin da subito come questa sentenza non avesse in alcun modo prodotto effetti erga omnes.

Lo stesso dispositivo di quella pronuncia di annullamento si premurava, infatti, di specificare che gli effetti dell’annullamento operavano solo a vantaggio di coloro che avevano proposto il ricorso. Un profilo già evidenziato dalla sentenza n. 11 del 2017 (par. 23).

Ciò troverebbe conferma nella non secondaria considerazione che le successive sei sentenze che avevano dato seguito all’indirizzo inaugurato dalla pronuncia n. 1973 del 2015, avevano sempre, in dispositivo, annullato il d.m. n. 235 del 2014, e sempre specificando che l’annullamento era circoscritto ai ricorrenti.

Inoltre, come scritto dalla Plenaria, apparirebbe altresì evidente “che non avrebbe senso annullare, in sei distinte occasioni, un decreto ministeriale già annullato con effetti erga omnes; né avrebbe senso gravarlo, visto che l’annullamento con effetti erga omnes lo toglie per sempre dal mondo del diritto, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse dei successivi ricorsi proposti”.

A ciò si aggiunga che l’efficacia erga omnes della sentenza di annullamento del d.m. n. 235 del 2014 andrebbe esclusa anche alla luce di ulteriori argomenti, fondati sui principi generali del processo e strettamente connessi al tema dei limiti soggettivi del giudicato amministrativo.

Sotto questo profilo, la pronuncia oggetto di analisi in questa sede chiariva che in assenza di norme ad hoc nel Codice del processo amministrativo, il giudicato amministrativo risulta sottoposto alle disposizioni processuali-civilistiche, “per cui il giudicato opera solo inter partes, secondo quanto prevede per il giudicato civile l’art. 2909 c.c.”.

I casi di giudicato amministrativo con effetti ultra partes sarebbero, quindi, eccezionali e troverebbero la propria giustificazione in ragione dell’inscindibilità degli effetti dell’atto o dell’inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l’indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l’esistenza di un legame altrettanto indivisibile fra le posizioni dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile – logicamente, ancor prima che giuridicamente – che l’atto annullato possa continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato.

Utilizzando tale criterio, dottrina e giurisprudenza hanno negli anni individuato alcune eccezionali ipotesi di estensione ultra partes degli effetti del giudicato; una estensione spesso dipendente da una pluralità di fattori concorrenti, fra i quali rileva non solo la natura dell’atto annullato, ma anche, cumulativamente, il vizio dedotto, nonché il tipo di effetto prodotto dal giudicato della cui estensione si discute. Più nel dettaglio, secondo l’orientamento tradizionale, gli effetti inscindibili del giudicato amministrativo possono dipendere: a) in alcuni casi (ma raramente), solo dal tipo di atto annullato; b) altre volte, più frequenti, sia dal tipo di atto annullato, sia dal tipo di vizio dedotto; c) altre volte ancora, dal tipo di effetto che il giudicato produce e di cui si invoca l’estensione.

A titolo esemplificativo, si riporta come producano effetti ultra partes l’annullamento di un regolamento, l’annullamento di un atto plurimo inscindibile, l’annullamento di un atto plurimo scindibile se il ricorso viene accolto per un vizio comune alla posizione di tutti i destinatari e l’annullamento di un atto che provvede unitariamente nei confronti di un complesso di soggetti.

In tutti questi casi, tuttavia, l’inscindibilità riguarderebbe solo l’effetto di annullamento (l’effetto caducatorio), perché è solo rispetto ad esso che viene a crearsi quella situazione di incompatibilità logica che un atto inscindibile possa non esistere più per taluno e continuare ad esistere per altri.

Diverso è, invece, il discorso per ciò che concerne gli ulteriori effetti del giudicato amministrativo (di accertamento della pretesa, ordinatori, conformativi). Secondo un risalente e consolidato orientamento interpretativo gli effetti di accertamento della pretesa e, consequenzialmente a tale accertamento, quelli ordinatori/conformativi opererebbero sempre solo inter partes, essendo soltanto le parti legittimate a far valere la violazione dell’obbligo conformativo o dell’accertamento della pretesa contenuto nel giudicato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 1° dicembre 2017, n. 5634; Cons. Stato, sez. VI, 5 dicembre 2005, n. 6964).

Calandosi nel caso di specie, i Giudici precisano che le (sette) sentenze del Consiglio di Stato che avevano accolto i ricorsi contro il d.m. n. 235 del 2014, sebbene recassero un dispositivo formalmente di annullamento, “in realtà non annulla[va]no alcunché, ma accertavano la pretesa dei ricorrenti all’inserimento nelle GAE, con i conseguenti effetti conformativi nei confronti del MIUR”. Si tratterebbe, quindi, di sentenze non propriamente caducatorie, ma additive/ordinatorie, fondate sull’accertamento della fondatezza della pretesa di ottenere l’iscrizione in graduatoria. In altri termini, il decreto ministeriale n. 235 del 2014, non veniva caducato, neanche in parte, dalle sentenze in esame, né avrebbe potuto esserlo, in quanto il suo contenuto era diretto esclusivamente a disciplinare la posizione di quanti erano già inseriti in graduatoria, senza recare alcuna previsione escludente sui requisiti di accesso alle GAE. Non a caso il d.m. è stato annullato (genericamente) “nella parte in cui non consente ai ricorrenti l’inserimento nelle GAE”. Genericamente, nel senso che non è stata individuata alcuna specifica disposizione escludente. Né tale previsione escludente avrebbe potuto essere individuata, per la semplice ragione, dice la Plenaria, “che essa non era contenuta nel decreto impugnato, che non è (e non era) l’atto lesivo della pretesa azionata dai ricorrenti”. A ciò si aggiunga che mentre normalmente la questione dell’inscindibilità degli effetti del giudicato di annullamento si pone nei confronti degli altri destinatari degli effetti dell’atto annullato, in questo caso l’inscindibilità veniva invocata rispetto a soggetti estranei all’ambito soggettivo di applicazione del d.m., e cioè rispetto a tutti i titolari di diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002 e non inseriti nelle GAE e, quindi, non interessati ai criteri di aggiornamento disciplinati dal decreto.

I Giudici di Palazzo Spada, escludendo quindi l’efficacia erga omnes delle sentenze di “annullamento” (recte: additive) del d.m. n. 235 del 2014 e, conseguentemente, evidenziando l’infondatezza anche della tesi secondo cui i successivi decreti ministeriali di aggiornamento sarebbero stati nulli per violazione del giudicato, nella parte in cui reiterano il vizio del d.m. già annullato, chiarivano come simili interventi giudiziali producessero piuttosto un effetto sostanziale di accertamento della pretesa all’inserimento e, di conseguenza, determinassero un effetto additivo/conformativo. Un giudicato che dunque, a prescindere dalla natura giuridica dei decreti ministeriali, non si estenderebbe a soggetti diversi dagli originari ricorrenti.

A completezza del ragionamento illustrato, si riportava anche l’infondatezza dell’ulteriore tesi secondo cui la sentenza di annullamento del d.m. n. 235 del 2014 avrebbe avuto quanto meno l’effetto di determinare la rimessione in termini rispetto all’impugnazione del d.m. n. 400 del 2017 (oggetto del giudizio de quo) rispetto a tutti coloro che intendevano far valere il loro diploma magistrale per l’inserimento in graduatoria, anche se essi non avevano impugnato tempestivamente i precedenti d.m. di aggiornamento.

Secondo l’Adunanza Plenaria, una simile conclusione non potrebbe trovare accoglimento.

Si deve anzitutto tenere presente il principio del processo amministrativo secondo cui il dies a quo per impugnare decorre dalla piena conoscenza dell’atto lesivo. Pur permanendo incertezze in merito al se ed ai termini in cui in materia possa rilevare la conoscenza e/o la conoscibilità (oltre che della lesività) anche delle ragioni di illegittimità, in ogni caso non sarebbe mai stato sostenuto, né in dottrina né in giurisprudenza, che il termine per impugnare possa addirittura essere differito alla pronuncia di almeno una sentenza che accerti tali illegittimità. Riconoscere al giudicato di annullamento l’effetto di rimettere in termini tutti i cointeressati che non hanno tempestivamente impugnato significherebbe, infatti, pretermettere ineludibili esigenze di certezza, portando alla negazione di istituti cardine del diritto processuale amministrativo, primo fra tutti quello dell’inoppugnabilità dell’atto non tempestivamente gravato.

Inoltre, nel caso oggetto del presente giudizio, i Giudici di appello evidenziavano come, anche a voler immaginare una riapertura dei termini in conseguenza della sentenza n. 1973 del 2015, rimarrebbe il fatto che vengono in rilievo ricorsi proposti ben oltre la scadenza del termine di sessanta giorni dalla pubblicazione della sentenza di annullamento n. 1973 del 2015. I ricorsi sono stati proposti in primo grado, infatti, nel 2017, cioè circa due anni dopo il giudicato di annullamento di cui alla sentenza n. 1973 del 2015. “Ritenere la tempestività di tali ricorsi significherebbe, pertanto, attribuire al giudicato di “annullamento” del d.m. n. 235 del 2014 un effetto di differimento sine die del termine per impugnare, il che rappresenta, all’evidenza, una conclusione priva di qualsiasi giustificazione sul piano logico, ancor prima che giuridico”.

 

  1. Il valore non ex se abilitante del diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002

Pur riconoscendo preliminarmente la presenza di profili di manifesta irricevibilità del ricorso proposto dall’originaria ricorrente, l’Adunanza Plenaria procede comunque nel suo riesame, alla luce della particolare importanza delle questioni di merito ad essa sottoposte.

La Sesta Sezione aveva sostenuto la tesi, fatta propria anche dall’originaria ricorrente, secondo cui il diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002 avrebbe ex se valore abilitante all’insegnamento presso la scuola primaria e dell’infanzia, consentendo, quindi, ai soggetti che ne sono titolari di ottenere l’inserimento nelle GAE. A sostegno di questa conclusione, era stata invocata, come novità rispetto al quadro normativo su cui si era già pronunciata l’Adunanza Plenaria n. 11 del 2017, la previsione contenuta nell’art. 4, comma 1-quinquies, lett. b) del d.l. n. 87/2018, che, nel disciplinare i requisiti di accesso al concorso straordinario per il reclutamento dei docenti della scuola primaria e dell’infanzia, prevede che ad esso possano partecipare, oltre ai laureati in scienze della formazione, “i possessori di diploma magistrale con valore di abilitazione o analogo titolo conseguito all’estero e riconosciuto in Italia ai sensi della normativa vigente, conseguiti, comunque, entro l’anno scolastico 2001/2002, purché i docenti in possesso dei predetti titoli abbiano svolto, nel corso degli ultimi otto anni scolastici, almeno due annualità di servizio specifico, anche non continuative, su posto comune o di sostegno, presso le istituzioni scolastiche statali, valutabili come tali ai sensi dell’art. 11, comma 14, della legge 3 maggio 1999, n. 124”. La tesi non veniva però condivisa dall’Adunanza Plenaria, che ribadiva piuttosto il principio di diritto secondo cui il valore legale del diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002 poteva essere riconosciuto solo in via “strumentale”, nel senso, di consentire a coloro che lo avevano conseguito di partecipare alle sessioni di abilitazione o ai concorsi pur se privi del diploma di laurea in scienze della formazione, istituito con d.P.R. 31 luglio 1996, n. 471.

Tale conclusione si fonderebbe, anzitutto, sul dato testuale dell’art. 15, comma 7, d.P.R. 23 luglio 1998, n. 323, e troverebbe ulteriore sostegno nell’argomento sistematico e teleologico. Il significato da attribuire al riferimento che l’art. 15, comma 7, fa al “valore abilitante” del diploma magistrale, sostiene la Plenaria, non può, infatti, che essere quello specificato dallo stesso comma 7, nel periodo immediatamente successivo, dove chiarisce che tale valore abilitante si esaurisce nella possibilità di partecipare (senza necessità di conseguire anche il diploma di laurea) all’abilitazione all’insegnamento ex art. 9, comma 2, della legge n. 444/1968, nonché ai concorsi ordinari per titoli ed esami a posti di insegnante nella scuola materna e nella scuola elementare.

Ciò implicherebbe che il valore legale del diploma magistrale possa essere riconosciuto solo nei limiti previsti dalla disciplina transitoria in esame, che avrebbe quindi mostrato di tenere in debito conto la posizione di chi avesse conseguito il titolo del diploma magistrale precedentemente alla riforma operata con la legge 19 novembre 1990, n. 341 e non fosse già immesso in ruolo alla data di entrata in vigore del d.m. 10 marzo 1997, consentendogli la partecipazione a procedure selettive riservate ai fini del conseguimento di un titolo idoneo a consentire l’iscrizione nelle graduatorie.

Del resto, qualora si riconoscesse, invece, al diploma magistrale in esame un valore abilitante assoluto, a prescindere da qualsiasi successiva idoneità conseguita partecipando alle procedure concorsuali o alle sessioni di abilitazione, si verrebbe a creare, a favore dei relativi possessori, un ingiustificato privilegio. Come già evidenziato dalla sentenza n. 11 del 2017, sin dalla loro originaria configurazione le graduatorie permanenti (poi trasformate in graduatorie ad esaurimento) erano riservate a docenti che vantassero un titolo abilitante ulteriore rispetto al titolo di studio: il superamento di un concorso per titoli ed esami oppure il superamento di una sessione riservata d’esami per coloro che avessero prestato servizio per almeno 360 giorni a decorrere dall’a.s. 1994-1995.

Gli interventi normativi succedutesi nel tempo, pur ampliando la platea dei soggetti legittimati ad iscriversi, avevano, comunque, sempre fatto riferimento a categorie di docenti muniti di un titolo abilitante ulteriore rispetto al titolo di studio.

Non si spiegherebbe altrimenti neppure la ragione per la quale il legislatore aveva previsto, riservandolo proprio ai titolari di diploma magistrali conseguiti entro l’a.s. 2001/2002, specifiche procedure selettive finalizzate al conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento. Risultava e risulta evidente, infatti, che, se il diploma magistrale avesse avuto valore abilitante assoluto ex se, tali procedure sarebbero risultate inutili (il che significherebbe anche vanificare lo sforzo di quanti, invece, vi hanno partecipato, conseguendo, appunto, un titolo ulteriore).

A ciò si aggiunga un’ulteriore precisazione. La previsione di cui all’art. 1 d.l. n. 97/2014, convertito in legge n. 186/2014, e modificata dalla legge n. 296/2016, alla lett. a) prevede che è sufficiente per accedere alla graduatoria il titolo abilitante comunque posseduto. La disposizione in esame non fa, però, alcun riferimento al valore abilitante del solo diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002. Dunque, sosteneva l’Adunanza Plenaria nella pronuncia n. 4/2019, nel momento in cui si esclude (alla luce dell’esegesi del quadro normativo) che il solo diploma magistrale abbia ex se valore abilitante per l’accesso alle GAE, la norma non ha alcuna rilevanza. Essa, invero, non fornisce, ma presuppone la definizione di titolo abilitante, che va, quindi, ricercata altrove. “Si esaurisce, quindi, in una petizione di principio affermare che l’art. 1 del d.l. n. 97 del 2014 avrebbe riconosciuto al diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002 valore abilitante”.  Inoltre, diversamente da quanto sostenuto dall’ordinanza di rimessione, l’art. 1-quinques del d.l. n. 87 del 2018, non aveva riconosciuto valore abilitante ex se al diploma magistrale, ribadendo piuttosto la necessità di superare un concorso per accedere ai posti di insegnamento, inserendosi, quindi, nel solco del principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria n. 11 del 2017 e confermandone la correttezza.

 

 

 

  1. Effetti temporali dei principi di diritto della sentenza n. 11 del 2017 ed istituto prospective overruling

L’ultima questione sollevata dall’ordinanza di rimessione atteneva alla possibilità di differire nel tempo, in applicazione del principio del c.d. prospective ovverruling, gli effetti dei principi di diritto enunciati dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 11 del 2017.

In senso ostativo all’applicazione del prospective overruling, l’Adunanza Plenaria riportava la considerazione per cui in questo caso risultava carente il presupposto fondamentale dell’istituto, ovvero l’esistenza di un orientamento consolidato, costituente diritto vivente, imprevedibilmente modificato dalla nuova esegesi.

Nella pronuncia, si precisa che “l’esegesi imprevedibile, che supererebbe un consolidato diritto vivente, sarebbe semmai quella inaugurata dalla sentenza della Sesta Sezione n. 1973 del 2015, che, fornendo una interpretazione innovativa e originale di consolidati principi processuali, aveva ritenuto che il termine per impugnare un provvedimento legittimo potesse decorrere dal momento di una pronuncia resa in sede giurisdizionale o di ricorso straordinario che accertava l’illegittimità dell’atto”. Peraltro, sarebbe la stessa ricorrente originaria, invocando la rimessione in termini, a riconoscere che, fino al 2015, non era conoscibile l’illegittimità della propria esclusione dalle GAE. Fino a quel momento, quindi, non poteva esistere alcuna aspettativa (se non quella contraria all’inserimento nelle GAE).

L’orientamento inaugurato nell’aprile del 2015 dalla Sesta Sezione non costituisce, però, diritto vivente: a tali fini, infatti, per la Plenaria, non potrebbero ritenersi sufficienti sei sentenze, spesso limitatesi a richiamare, per relationem, l’unico “vero” precedente (cioè la sentenza n. 1973 del 2015), e succedutesi in un breve intervallo temporale di pochi mesi, da aprile 2015 a dicembre 2015 (Cons. St., sez. VI, 21 luglio 2015, n. 3628; 27 luglio 2015, nn. 3673 e 3675; 3 agosto 2015, n. 3788, 10 settembre 2015, n. 4232; 2 dicembre 2015, n. 5439).

Invero, già con l’ordinanza di rimessione 29 gennaio 2016, n. 364, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, mostrando di non condividere l’indirizzo espresso dalla sentenza n. 1973 del 2015, ha sottoposto la questione all’Adunanza Plenaria, che si era pronunciata con la sentenza n. 11 del 2017.

Da ultimo, per quanto concerne il profilo delle ripercussioni socio-economiche che deriverebbero dalla sentenza n. 11 del 2017, anche a non voler considerare che siffatte valutazioni spettino al Legislatore e non al Giudice, non si potrebbe non evidenziare come alla base della fattispecie concreta vi sia un conflitto tra diverse categorie di docenti precari, titolari di interessi fra loro confliggenti: da un lato, quelli titolari del solo diploma magistrale; dall’altro, quelli che, oltre al diploma, hanno superato un concorso o un esame abilitante o, comunque, conseguito la laurea in scienze della formazione. L’Adunanza precisa che consentire ai primi l’accesso alle GAE significherebbe penalizzare i secondi: l’impatto sociale non sarebbe, quindi, unilaterale, ma bilaterale, nel senso che è destinato comunque a verificarsi quale che sia la soluzione che si accolga. E prosegue quindi statuendo che: “Non avrebbe senso allora conservare gli effetti nel tempo di una interpretazione errata (quella sul valore abilitante ex se del diploma magistrale) al fine di evitare ripercussioni sociali che, comunque, si produrrebbero a danno di altri soggetti. E il risultato sarebbe ancora più negativo, perché il prezzo delle ripercussioni sociali evitate (per tutelare una aspettativa illegittima) ai diplomati magistrali senza titoli ulteriori sarebbe il sacrificio delle aspettative (questa volta legittime) dei diplomati magistrali abilitati all’insegnamento in seguito a concorso o dei laureati in scienza della formazione”.

 

  1. Conclusioni

Alla luce delle argomentazioni esposte, accogliendo l’appello proposto dal MIUR, l’Adunanza Plenaria ha quindi avuto modo di fornire anche importanti chiarimenti in materia.

In particolare, come in parte anticipato nei paragrafi che precedono, è stato, anzitutto, messo in evidenza come i casi di giudicato con effetti ultra partes siano eccezionali e troverebbero una propria giustificazione solo in ragione dell’inscindibilità degli effetti dell’atto o dell’inscindibilità del vizio dedotto. 

Inoltre, restando fermo che il termine per impugnare il provvedimento amministrativo decorre dalla piena conoscenza dell’atto e dei suoi effetti lesivi, non rilevando l’erroneo convincimento soggettivo dell’infondatezza della propria pretesa, va escluso che il sopravvenuto annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo possa giovare ai cointeressati che non abbiano tempestivamente proposto il gravame.

Da ultimo, nella pronuncia richiamata si precisa come l’istituto del c.d. prospective overruling non possa invocarsi per giustificare la perdurante applicazione di un orientamento interpretativo non espressione di un diritto vivente, perché sviluppatosi in un arco temporale di pochi mesi e perché fondato su premesse processuali e conclusioni sostanziali che presentano profili di contrarietà a consolidati indirizzi giurisprudenziali di segno opposto, specie quando l’irretroattività della nuova esegesi avrebbe altrimenti prodotto l’effetto di sacrificare la legittima aspettativa di un’amplia platea di soggetti controinteressati, determinando così effetti in danno degli stessi.

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