19/05/2021 – La Consulta ribadisce la necessità del requisito statale della “doppia conformità” in materia di regolarizzazione di difformità edilizie: sent. n.77/2021 Corte Cost.

Introduzione

La Corte Costituzionale con la sentenza n.77/2021 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge regionale Veneto n. 50/19 per contrasto con la normativa statale di principio della materia «governo del territorio», contenuta nel d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost..[1]

 

La pronuncia in esame, nell’ambito della competenza concorrente Stato-Regioni in materia di governo del territorio e dei conseguenti limiti della legge regionale derivanti dai principi stabiliti a livello statale, si pone in linea con la precedente giurisprudenza costituzionale formatasi in tema di condono edilizio.[2] Invero, la potestà legislativa regionale dev’essere esercitata nel rispetto dei principi stabiliti con legge dello Stato, i quali presentano un duplice carattere: da un lato, sono ontologicamente elastici, dall’altro, si presentano strutturalmente rigidi.

 

Il quadro normativo

Occorre prendere le mosse dalla normativa statale e regionale di riferimento, al fine di comprendere la problematica affrontata dalla Consulta con la sentenza in analisi.

 

I principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato in materia edilizia sono contenuti nel d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (T.U. edilizia). In particolare, l’art. 31 del T.U. edilizia stabilisce che gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, sono sanzionati con l’obbligo di ripristino –rimozione o demolizione- dell’opera abusiva realizzata.

 

L’art. 33 della l. cit. specifica che gli interventi e le opere di ristrutturazione edilizia di cui all’art.10, devono essere rimossi o demoliti e gli edifici devono essere resi conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi. La «parziale difformità» è esclusa solo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2% delle misure progettuali, ai sensi dell’art. 34, comma 2-ter, t.u. edilizia.

 

Infine, gli artt. 36 e 37 t.u. edilizia consentono il rilascio di un titolo edilizio in sanatoria solo in presenza del requisito della cosiddetta doppia conformità, ossia solo se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della sua realizzazione, sia al momento della presentazione della domanda.[3][4]

 

Ciò detto in merito al quadro normativo statale, è necessario procedere all’analisi della normativa regionale introdotta e oggetto di censura. La Regione Veneto, con la legge 23 dicembre 2019, n. 50 (Disposizioni per la regolarizzazione delle opere edilizie eseguite in parziale difformità prima dell’entrata in vigore della legge 28 gennaio 1977, n. 10 “Norme in materia di edificabilità dei suoli”),[5] in un’ottica di recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, ha consentito la regolarizzazione amministrativa delle parziali difformità edilizie risalenti nel tempo.

 

La normativa regionale ha fatto rientrare nell’ambito applicativo della disciplina anche le difformità consistenti in “un aumento fino a un quinto del volume dell’edificio e comunque in misura non superiore a 90 metri cubi” ovvero “un aumento fino a un quinto della superficie dell’edificio e comunque in misura non superiore a 30 metri quadrati” (art.2, l.r. n. 50, del 23 dicembre 2019).

 

In merito alle modalità di regolarizzazione delle difformità, questa avviene mediante la presentazione di una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) e previo pagamento delle sanzioni pecuniarie, fatti salvi gli effetti civili e penali dell’illecito e fermo restando il pagamento del contributo di costruzione, ove dovuto (art.2, comma 3, l.r. cit.).

 

Secondo il ricorrente Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, le appena esaminate disposizioni regionali avrebbero consentito la conservazione del patrimonio edilizio esistente anche se abusivo, sostituendo la sanzione demolitoria con quella pecuniaria al di fuori dei casi tassativi stabiliti dagli artt. 31 e 33 t.u. edilizia, concernenti, rispettivamente, gli interventi edificatori o le ristrutturazioni in assenza di permesso di costruire, in totale difformità dallo stesso o con variazioni essenziali. Inoltre, la misura delle difformità volumetriche o di superficie suscettibili di regolarizzazione superava il limite previsto dall’art. 34, comma 2-ter, t.u. edilizia. Infine, l’impugnato art. 2 della l.r. cit. avrebbe determinato un ampliamento delle ipotesi condonabili previste dalla legislazione statale, ammettendo la regolarizzazione amministrativa delle (parziali) difformità edilizie mediante la presentazione di una SCIA.

 

Pertanto, tali norme, secondo la prospettazione del ricorrente, contrasterebbero con gli artt. 36 e 37 t.u. edilizia, che consentono il rilascio di un titolo edilizio in sanatoria solo in presenza del requisito della cosiddetta doppia conformità, ovvero solo se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della sua realizzazione, sia al momento della presentazione della domanda.

 

Secondo la tesi della resistente Regione Veneto, invece, la competenza legislativa statale in ordine alla disciplina dei principi generali in materia non comportava necessariamente che spettasse sempre e comunque allo Stato la competenza a disciplinare qualsiasi ipotesi di regolarizzazione edilizia, anche quando si tratti di una mera ipotesi di fiscalizzazione dell’illecito edilizio. Invero, in tale ultima ipotesi, si tratterebbe di una forma di regolarizzazione amministrativa di difformità modeste, ispirata a criteri di ragionevolezza, circoscritta nel tempo e conforme alle regole di principio fissate dal legislatore statale; sicché sarebbe rientrante nell’ambito della competenza riconosciuta alle Regioni nella materia governo del territorio. La qualificazione quale “mera fiscalizzazione dell’illecito” sarebbe dimostrato, secondo la resistente, dal fatto che non venivano rimosse le conseguenze degli abusi sul piano civile e penale.

 

La soluzione offerta dalla Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale prende le mosse dal tenore letterale delle norme impugnate, rilevando che, nel caso di specie, “il pagamento delle sanzioni pecuniarie non è di per sé sufficiente a consentire la «regolarizzazione amministrativa» delle opere edilizie eseguite in parziale difformità dal titolo, occorrendo anche la presentazione di una SCIA. L’effetto sostanziale delle norme impugnate, pertanto, non è circoscritto all’esclusione della sanzione demolitoria – sostituita da quella pecuniaria, seppur con salvezza degli «effetti civili e penali dell’illecito» (art. 2, comma 3, della legge regionale impugnata) – ma si estende al rilascio di un diverso titolo abilitativo. La combinazione di queste due conseguenze, quindi, produce, per tutti gli immobili oggetto di disciplina, gli effetti di una sanatoria straordinaria[6] (sentenza n. 233 del 2015), che si differenzia, in quanto tale, dall’istituto a carattere generale e permanente del «permesso di costruire in sanatoria», disciplinato dall’art. 36 t.u. edilizia.”

 

Pertanto, la Consulta evidenzia che le norme regionali impugnate, non solo consentono di mantenere la disponibilità dell’immobile abusivo senza alcun obbligo di ripristino dello status quo ante, ma prevedono anche che il titolo originario, stabilito dal legislatore statale, sia sostituito dal nuovo titolo, conseguente alla presentazione della SCIA.

 

La Corte Costituzionale ha ritenuto all’uopo richiamare la propria giurisprudenza formatisi in tema di condono edilizio, secondo la quale “spettano alla legislazione statale, oltre ai profili penalistici (integralmente sottratti al legislatore regionale: sentenze n. 49 del 2006, n. 70 del 2005 e n. 196 del 2004), le scelte di principio, in particolare quelle relative all’an, al quando e al quantum, ossia la decisione sul se disporre un titolo abilitativo edilizio straordinario, quella relativa all’ambito temporale di efficacia della sanatoria e infine l’individuazione delle volumetrie massime condonabili (sentenza n. 70 del 2020; nello stesso senso, sentenze n. 208 del 2019, n. 68 del 2018 e n. 73 del 2017)”. Solo nel rispetto di tali scelte di principio, competono poi alla legislazione regionale l’articolazione e la specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale.[7]

 

In particolare, ha precisato che “costituisce principio fondamentale della materia governo del territorio la verifica della cosiddetta “doppia conformità” di cui al menzionato art. 36 t.u. edilizia, in base al quale «il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda». Si tratta, infatti, di un adempimento «finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità».”[8][9][10]

 

La Consulta ha dunque concluso che, anche nei casi in cui l’attività sia subordinata alla presentazione di SCIA, la normativa statale di principio impone il duplice accertamento di conformità. Nello specifico, tale accertamento è necessitato sia nel caso in cui la segnalazione riguardi opere già compiute, sia in quello di opere in corso di esecuzione. Ne consegue che, anche in relazione a tutti gli interventi oggetto di SCIA in sanatoria, dev’essere attestata la conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia al momento della realizzazione e a quello della successiva segnalazione.

 

Nel caso di specie, invece, con la SCIA prevista all’art. 2, comma 3, della l.r. cit, il soggetto interessato attesta la conformità dell’opera alla normativa regionale sopravvenuta in vigore al momento della segnalazione, ma non anche alla disciplina vigente al momento della realizzazione dell’intervento.

 

[1] Corte Cost., sent. n. 77, del 24 marzo 2021, disponibile qui https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do

 

[2] Per un approfondimento sul condono edilizio e la differenza tra commerciabilità e regolarità urbanistica, vedi G. Mazzoni, “Commerciabilità degli immobili e regolarità urbanistica: problemi applicativi circa la “sanabilità”, gennaio 2018, disponibile qui https://www.iusinitinere.it/commerciabilita-degli-immobili-regolarita-urbanistica-problemi-applicativi-circa-la-sanabilita-6749

 

[3] Articolo 36, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380:

 

Accertamento di conformità.

 

In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 23, comma 01, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.

Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16. Nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso.

Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.”

[4] Art. 37, d.P.R. 6 giugno 2001, n.380:

 

Interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività e accertamento di conformità

 

La realizzazione di interventi edilizi di cui all’articolo 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi e comunque in misura non inferiore a 516 euro.

Quando le opere realizzate in assenza di segnalazione certificata di inizio attività consistono in interventi di restauro e di risanamento conservativo, di cui alla lettera c) dell’articolo 3, eseguiti su immobili comunque vincolati in base a leggi statali e regionali, nonché dalle altre norme urbanistiche vigenti, l’autorità competente a vigilare sull’osservanza del vincolo, salva l’applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti, può ordinare la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile ed irroga una sanzione pecuniaria da 516 a 10329 euro.

Qualora gli interventi di cui al comma 2 sono eseguiti su immobili, anche non vincolati, compresi nelle zone indicate nella lettera A dell’articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, il dirigente o il responsabile dell’ufficio richiede al Ministero per i beni e le attività culturali apposito parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al comma 1. Se il parere non viene reso entro sessanta giorni dalla richiesta, il dirigente o il responsabile dell’ufficio provvede autonomamente. In tali casi non trova applicazione la sanzione pecuniaria da 516 a 10329 euro di cui al comma 2.

Ove l’intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della presentazione della domanda, il responsabile dell’abuso o il proprietario dell’immobile possono ottenere la sanatoria dell’intervento versando la somma, non superiore a 5164 euro e non inferiore a 516 euro , stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all’aumento di valore dell’immobile valutato dall’agenzia del territorio.

Fermo restando quanto previsto dall’articolo 23, comma 6, la segnalazione certificata di inizio attività spontaneamente effettuata quando l’intervento è in corso di esecuzione, comporta il pagamento, a titolo di sanzione, della somma di 516 euro. 6. La mancata segnalazione certificata di inizio attività non comporta l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all’intervento realizzato, l’applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 36.”

[5] Legge regionale della Regione Veneto, 23 dicembre 2019, n. 50, disponibile qui https://www.veneto2050.it/legge-50-2019/

 

[6] Corte Cost., sent. n. 233, del 2015: “Esula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della sanatoria» oppure, ancora, di «allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto stabilito dalla legge dello Stato>>. A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria straordinaria per il solo territorio regionale”.

 

[7] Corte Cost., sent. n.73, del 22 febbraio 2017

 

[8] Corte Cost., sent. n.232, del 26 settembre 2017

 

[9] Corte Cost., sent. n. 107, del 4 aprile 2017

 

[10] Corte Cost., sent. n. 101, del 22 maggio 2013

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