19/02/2019 – Danno da ritardo anche per i procedimenti avviati d’ufficio

Danno da ritardo anche per i procedimenti avviati d’ufficio

Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 15/01/2019 n° 358

La vicenda in esame ha per oggetto una richiesta del risarcimento danni da ritardo ex art. 2-bis L. n. 241/1990.

In particolare, gli originari ricorrenti ebbero a richiedere l’accertamento e la declaratoria dell’illegittimità del silenzio serbato a seguito del procedimento avviato su loro istanza, volto ad ottenere l’emanazione della determinazione interministeriale ai fini del riconoscimento della posizione di comando, con la corresponsione della relativa indennità, ex art. 13, co. 3, DPR 18 giugno 2002, n. 164; l’accertamento e la declaratoria dell’obbligo delle intimate amministrazioni, di concerto tra loro, di adottare la determinazione interministeriale di cui all’articolo citato, entro un termine non superiore a trenta giorni, con nomina di commissario ad acta per il caso di perdurante inerzia; l’annullamento e/o la disapplicazione di eventuali atti ostativi; la condanna dell’amministrazione intimata al risarcimento dei danni tutti, per equivalente.

La condotta causativa del danno era individuata dai ricorrenti nell’omissione della corresponsione dell’indennità di comando, previa emanazione della determinazione ministeriale; tali fatti avrebbero obbligato l’amministrazione al risarcimento del danno, richiesto per equivalente, da quantificarsi nell’ammontare delle quote corrispondenti a ratei dell’indennità non percepiti.

Il T.a.r. accoglieva il ricorso relativamente alla declaratoria di illegittimità del silenzio, poiché il termine di conclusione del procedimento spirava senza un atto di riscontro. Tuttavia, riteneva di non doversi pronunciare sulla fondatezza della pretesa sulla base del seguente principio: secondo l’art. 31, comma 3, del c.p.a., il Giudice, con riguardo alla azione avverso il silenzio, può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata, o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’Amministrazione. Il G.A., non potendo sostituirsi all’Amministrazione negli accertamenti e nelle scelte ad essa riservati, non può infatti, in nessun caso, “pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”, come dispone il comma 2 dell’art. 34 del c.p.a, come nel caso di specie.

Successivamente, i ricorrenti depositavano un’istanza di prelievo con la quale –chiedevano fissarsi l’udienza per la definizione del giudizio anche con riferimento alla proposta domanda risarcitoria, posto che l’eventuale accoglimento della domanda risarcitoria avrebbe consentito ai ricorrenti di ottenere un ristoro – anche solo parziale – del danno economico patito a causa dell’ultradecennale ritardo nell’emissione del provvedimento interministeriale che riconosceva loro il diritto all’indennità.

A ciò (e nonostante la prima sentenza fosse pronunciata come definitiva) è seguita l’ulteriore fase del giudizio, conclusasi con la sentenza, impugnata nella presente sede dai ricorrenti in I grado, non soddisfatti della pronuncia favorevole ottenuta.

Il Consiglio di Stato rigettava l’appello (sentenza 15 gennaio 2019, n. 358) per i motivi che seguono.

Al fine di meglio individuare una corretta soluzione alla presente controversia, veniva evidenziata dal Collegio una discrasia tra quanto oggetto delle due pronunce del primo giudice (rispetto alle domande ad esso rivolte) e quanto ora forma oggetto del presente giudizio di appello, per il tramite dei motivi di impugnazione proposti.

Sebbene gli appellanti avessero qualificato l’azione come “risarcitoria”, riferendola agli artt. 2-bis, co. 1, L. n. 241/1990 e 30, co. 4, Cpa, da un lato affermavano che essi “hanno lamentato un danno cagionato dal ritardo” (pag. 22 app.); dall’altro come sia “ormai chiarito che il diritto all’indennità preesistesse al provvedimento ricognitivo del 10 luglio 2015 e che quest’ultimo si sia limitato alla mera individualizzazione mediata degli aventi titolo, attuata, cioè, attraverso l’individuazione degli uffici”.

Ragionava il Collegio sul fatto che, se il presupposto della difesa di parte ricorrente è da individuarsi nella sussistenza di un loro diritto a ricevere l’indennità, direttamente costituito dalla norma (art. 13, co. 3, DPR n. 164/2002), e il “provvedimento” dell’amministrazione avrebbe solo natura ricognitiva, ne conseguirebbe allora che ciò che l’azione veniva impropriamente definita risarcitoria, costituendo invece un’azione di condanna al pagamento di quanto dovuto dalla data di insorgenza del diritto di credito dei pubblici dipendenti e della contestuale obbligazione pecuniaria pubblica a carico dell’amministrazione; pertanto l’eventuale “danno” si configurava solo come evenienza ulteriore derivante dal ritardato adempimento dell’obbligazione.

Ed è sulla scorta di questo assunto che il Tar ha riconosciuto l’illegittimità del silenzio, con conseguente obbligo dell’amministrazione a pronunciarsi entro un termine indicato. Pertanto coerentemente non ha ritenuto di pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, cioè sulla sussistenza del diritto dei ricorrenti a ricevere l’indennità con conseguente condanna dell’amministrazione al pagamento, implicitamente rigettando la relativa domanda e nonché la derivante liquidazione.

In questa prospettazione, rilevava il Collegio che la posizione giuridica di diritto soggettivo patrimoniale veniva costituita dal provvedimento dell’amministrazione; sussistendo prima della sua emanazione solo una posizione di interesse legittimo in capo a soggetti che assumono di poter essere beneficiati dall’esercizio del potere discrezionale da parte dell’amministrazione medesima, all’emanazione del provvedimento (il decreto interministeriale).

Ma tali premesse conducevano proprio ad escludere la sussistenza di un “diritto” a percepire l’indennità fin dall’origine del rapporto e, conseguentemente ad escludere altresì la sussistenza di una lesione (e quindi del diritto al risarcimento del danno) di una posizione non ancora costituita.

Per quanto precede giustamente il primo Giudice aveva ritenuto di non poter accogliere la domanda riferita alla corresponsione delle indennità antecedenti al decreto interministeriale.

Quindi coerentemente la sentenza impugnata aveva riconosciuto la sussistenza di un danno, ma poiché l’indennità era stata corrisposta, potevano essere risarciti solo i danni conseguenti al ritardo con cui l’amministrazione ha riscontrato la domanda dei ricorrenti (determinandosi tali danni negli interessi al tasso legale su quanto corrisposto, incrementato della rivalutazione monetaria nei termini indicati).

Alla luce di quanto sopra, Il Consiglio di Stato riteneva infondati i motivi d’appello.

Inoltre, rifletteva ulteriormente sull’infondatezza dell’appello, per altre e concomitanti ragioni.

Come è noto, l’art. 2-bis L. n. 241/1990 prevede due distinte ipotesi di risarcimento del danno:la prima, afferente al “danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine del procedimento” (art. 2-bis, co. 1, l. n. 241/1990); la seconda afferente al danno derivante di per sé dal fatto stesso di non avere l’amministrazione provveduto entro il termine prescritto, nelle ipotesi e alle condizioni previste (art. 2-bis, co. 1-bis).

L’art. 2-bis, co. 1, prevede la possibilità di risarcimento del danno da ritardo/inerzia dell’amministrazione nella conclusione del procedimento amministrativo, solo ove la condotta inerte o tardiva dell’amministrazione sia stata causa di un danno prodotto nella sfera giuridica del privato che, con la propria istanza, ebbe a dare avvio al procedimento amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 29 settembre 2016, n. 4028).

Ne consegue che debba essere provato (secondo i criteri di cui all’art. 2043 c.c., nel cui alveo deve essere ricondotta la domanda) che il danno prodottosi nella sfera giuridica del privato deve essere riconducibile, secondo la verifica del nesso di causalità, al comportamento inerte ovvero all’adozione tardiva del provvedimento conclusivo del procedimento, da parte dell’amministrazione. (cfr. Sezioni unite civili, ordinanza 17 dicembre 2018, n. 32620 – Consiglio di Stato Adunanza Plenaria 4 maggio 2018 n. 5).

A tal proposito, veniva richiamata la citata l’Adunanza plenaria, che riconosceva il danno da ritardo “a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento”, ricollegandolo alla “lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale” e subordinandolo, comunque, a rigorosi oneri di allegazione e prova dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità.

Tale ricostruzione presuppone di regola la natura imprenditoriale del soggetto che assume essere stato leso dal ritardo dell’amministrazione nell’emanazione del provvedimento, dovendosi invece ritenere che, negli altri casi, sia indispensabile la prova della spettanza del bene della vita cui si ricollega la posizione di interesse legittimo (Cons. Stato, sez. IV, 6 novembre 2018 n. 6266; Sez. VI, 2 maggio 2018, n. 2624, Sez. IV, 17 gennaio 2018, n. 240, 23 giugno 2017, n. 3068, 2 novembre 2016, n. 4580, 6 aprile 2016, n. 1371).

Alla luce di quanto sopra, perché, dunque, possa parlarsi di una condotta della Pubblica Amministrazione causativa di danno da ritardo, oltre alla concorrenza degli altri elementi costitutivi della responsabilità ex art. 2043 c.c., occorre che esista, innanzi tutto, un obbligo dell’amministrazione di provvedere entro un termine definito dalla legge a fronte di una fondata posizione di interesse legittimo ad ottenere il provvedimento tardivamente emanato, come spiega ilcomma 1 dell’art. 2, l. n. 241/1990: “ove il provvedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio . . .”, ovvero nei casi in cui il procedimento debba essere avviato di ufficio (e, dunque, vi sia l’obbligo di concluderlo).

Nel caso in specie non si riteneva ricorrere alcuno dei due presupposti innanzi indicati, poiché nessuna delle norme di riferimento impone alla Pubblica Amministrazione un termine per l’avvio obbligatorio del procedimento volto all’individuazione dei titolari di comando.

D’altra parte, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (tra le molte, Cons. Stato, sez. IV, 5 agosto 2014, n. 4174; 6 aprile 2012, n. 2049; 2 febbraio 2012, n. 610), aveva già avuto modo di affermare che l’individuazione degli ufficiali e sottufficiali che espletano funzioni di comando, presupposto indefettibile ai fini della corresponsione dell’indennità supplementare di comando di cui al più volte menzionato art. 10, non discendesse direttamente dalla suddetta legge, ma passasse attraverso un atto di normazione secondaria, che si esplicava mediante un provvedimento amministrativo di natura costitutiva e non meramente ricognitiva.

Ne discende che fintanto che non vi sia stata l’adozione del previsto decreto interministeriale di adozione, non poteva sorgere, in capo ai soggetti preposti agli uffici individuati, il diritto di credito inerente l’indennità in esame. Né, a maggior ragione, in difetto di posizione soggettiva costituita, poteva sussistere un danno da ritardo.E ciò anche in ulteriore considerazione della mancata previsione di un termine entro il quale l’amministrazione avrebbe dovuto adottare l’atto di ricognizione.

Per quanto sopra dedotto l’appello veniva rigettato.

(Altalex, 18 febbraio 2019. Nota di Riccardo Bianchini)

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