18/02/2022 – Smart working: finalmente ci si accorge della inutile burocrazia delle comunicazioni obbligatorie. Varrà anche per la PA?

 Tra le conseguenze della cancellazione dello smart working “emergenziale” nella PA ve n’è stata una, in particolare, molto amica della burocrazia bizantina e, simmetricamente, esiziale per qualsiasi concetto di efficienza e semplificazione: il ripristino del sistema parossistico delle comunicazioni degli accordi individuali al Ministero del Lavoro.

Nel periodo emergenziale si era andati, invece, verso una modalità molto semplificata e massiva di inoltro delle comunicazioni, che vale ancora solo per i datori privati e solo fino al 31 marzo.

Per quanto il lavoro agile resti ancora sotto molti aspetti un oggetto misterioso e, soprattutto, agli occhi di molti, ed in particolare al Governo, uno strumento del quale diffidare, i fatti sono chiari: molte aziende non vi rinunceranno anche cessato l’allarme pandemia. Per una ragione molto semplice, anche se fin qui negata da una narrazione troppo orientata a descrivere il lavoro agile come un ufo eccentrico: l’organizzazione del lavoro migliora, i costi della logistica si riducono, il ricorso al cloud e ad applicativi in rete induce alla remotizzazione delle attività, i tempi operativi si conciliano meglio con quelli dei lavoratori e della clientela, le spese per utenze aziendali si pongono sotto controllo.

Le imprese, quindi, non hanno nessuna intenzione di intraprendere la stessa crociata contraria al lavoro agile invece ancora in corso per la PA, ben foraggiata dai media.

Pertanto, le imprese chiedono al Ministero del lavoro di eliminare esattamente quegli aspetti di burocrazia inutile, che attualmente vessano le PA, come appunto le comunicazioni obbligatorie secondo lo schema a suo tempo immaginato per attuare le previsioni dell’articolo 23 della legge 81/2017.

Per capirsi, la comunicazione richiede la compilazione di una scheda nell’applicativo messo a disposizione dal Ministero del lavoro, coi seguenti campi/informazioni:

  • dati del lavoratore:
  • codice fiscale
  • cognome
  • nome
  • comune di nascita
  • data di nascita
  • dati del rapporto di lavoro
  • data inizio
  • tipo di rapporto
  • PAt Inail
  • voce di tariffa Inail
  • dati accordo individuale di lavoro agile
  • data sottoscrizione
  • tipo smart working
  • data inizio
  • data fine
  • upload del file contenente l’accordo sottoscritto.

Ha un senso, tutto ciò e, soprattutto, allegare i file degli accordi che, ovviamente, mai nessuno avrà modo e tempo di leggere?

Domanda retorica: no. Questo sistema di comunicazione è talmente inutile da essere stato accantonato per oltre un anno, senza alcuna conseguenza giuridica tecnica, egregiamente sostituito dalle modalità semplificate.

A Roma sembra si siano resi conto dell’assurdità di queste comunicazioni. Nell’articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore a firma di Giorgio Pogliotti , Claudio Tucci “Lo smart working resta semplificato” del 16 febbraio, cui fa eco quello del 17 febbraio su Repubblica di Rosaria Amato “Smart working regole più semplici dal primo aprile”, si informa che il Ministro Orlando ha intenzione di consentire alle imprese comunicazioni semplificate anche dopo la scadenza dell’emergenza e quindi a partire dall’1.4.2022.

Gestire con il sistema descritto sopra milioni di rapporti di lavoro agile (stimati tra i 5 e gli 8 milioni) e le loro modifiche è semplicemente impensabile: si impegnerebbero energie lavorative delle aziende a scopi meramente comunicazionali di un istituto, il lavoro agile, che è semplicemente e puramente una modalità di esecuzione del rapporto, non un rapporto specifico di lavoro.

Le comunicazioni obbligatorie hanno lo scopo di rendere noti eventi come la costituzione dei rapporti di lavoro, le trasformazioni connesse trasformazioni e cessazioni, oltre che le tipologie, così da tenere aggiornati i dati del mercato e i fascicoli dei lavoratori e permettere l’attivazione delle politiche attive e passive.

Una modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, quale lo smart working, a valenza interamente riservata al solo rapporto tra datore e lavoratore e privo di qualsiasi ricaduta sul mercato (non si costituisce un nuovo rapporto, nè lo si trasforma, nè lo si cessa, nè scattano ammortizzatori o politiche attive) non richiederebbe nessuna comunicazione, a ben vedere.

Un certo interesse lo si ha solo sul piano statistico, mentre più sfumato è un intento di controllo sulla corretta applicazione (cosa che richiederebbe forze di intervento da parte degli ispettorati del lavoro ad oggi nemmeno sufficienti ad affrontare in modo adeguato fenomeni ben più esposti a rischi).

Dunque, comunicare gli accordi in modo massivo ed estremamente semplice dovrebbe essere un imperativo categorico, specie alla luce dell’esperienza vissuta.

Francamente, appare semplicemente assurdo ed inaccettabile che da ottobre 2021 i datori pubblici sono stati costretti a passare sotto le forche caudine del sistema di comunicazione che, giustamente, i privati pretendono di non dover mai più utilizzare. Forse, è stato uno tra i tanti metodi anche surrettizi per limitare il ricorso allo smart working nella PA. Tuttavia, è da auspicare che al Ministero del lavoro si rendano conto che comunicare gli accordi secondo gli schemi ordinari sintetizzati sopra crea anche nelle amministrazioni pubbliche spreco di energie lavorative, dilapidate in operazioni meramente burocratiche e che si torni a consentire anche ai datori pubblici di comunicare gli accordi in forma semplificata.

Infine, un’annotazione. Col ritorno allo smart working non emergenziale nella PA, nei mesi scorsi si è data moltissima enfasi alla necessità dell’accordo individuale, come elemento qualitativo e di esaltazione della veste appunto contrattuale e consensuale della fattispecie. Tanto è vero che l’accordo è al centro delle condizioni disposte dal DM 8.10.2021 per l’accesso al lavoro agile e come tale è anche al centro dello schema di Ccnl del comparto Funzioni Centrali.

Tuttavia, è inutile negare che anche l’accordo individuale è defatigante e fonte di “burocrazia” nel rapporto tra datore e lavoratore.

Il già citato articolo del Sole 24 Ore mette a nudo la questione e dà conto della circostanza che “lo schema seguito in molti casi dalle parti sociali è quello di firmare accordi collettivi in sede aziendale con la predisposizione di modelli standard facsimile per raccogliere le adesioni dei dipendenti“.

Tradotto, vuol dire che molti datori, in accordo coi sindacati, configurano l’accordo individuale secondo lo schema delle condizioni generali di contratto, previsto dal codice civile, da sottoscrivere per adesione: un po’ quel che tutti facciamo (non sempre rendendoci conto) quando sottoscriviamo i contratti con le compagnie telefoniche o assicurative o anche quando comperiamo beni come elettrodomestici e mobilia.

In questo modo, con il modello standard e l’adesione, le fantasmagoriche intese consensuali individualizzate coi dipendenti praticamente svaniscono e si riducono ad aspetti, certo importanti, ma limitati a quanti giorni di lavoro agile si prevedono entro quale arco di durata dell’accordo; con buona pace, quindi, della negoziazione fantasticata come elemento di ricchezza del sistema. Per altro, molte amministrazioni pubbliche, proprio allo scopo di alleggerire il carico derivante dalla gestione dell’accordo individuale come defatigante sistema di negoziazioni individuali, hanno già per l’appunto organizzato il tutto con lo schema delle condizioni generali e connessa adesione.

Non si sta criticando l’idea. Ci si limita ad evidenziare che legare l’attivazione di una semplice modifica delle modalità della prestazione lavorativa ancorandola a complessi atti negoziali e a bizantini sistemi di comunicazione appartiene ad una cultura dell’adempimento burocratico del quale non si riesce a fare a meno.

Il tutto può essere regolato in maniera molto lineare, come avvenuto nella gestione emergenziale, con forme non obbligatorie: perchè, necessariamente, un accordo? Uno scambio di lettere o anche mail, in base ad una preventiva enunciazione delle disponibilità e dei periodi di smart working da parte del datore lavoro non potrebbero considerarsi più che sufficienti? Limitare l’accordo a situazioni peculiari in cui emergono questioni connesse anche ad esigenze di conciliazione vita-lavoro non sarebbe una semplificazione vera? E non sarebbe più trasparente uscire dalle ipocrisie, senza enunciare  voli pindarici di accordi consensuali, perfettamente aggirabili, consentendo espressamente libertà di forme e modalità negoziali? Staremo a vedere.

 

 

 

 

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