14/11/2022 – DL aiuti-quater: idea di stop all’obbligo di avvalersi delle centrali di committenza per appalti affidabili direttamente

Il sistema che obbliga i comuni non capoluogo ad aggregarsi o a servirsi di centrali di committenza è una sciocchezza evidente.

Da anni tutte le maggioranze si sono accodate ad un’idea, quella di ridurre da “30.000 a 30” le stazioni appaltanti, figlia di un malinteso modo di concepire la “spending review” o la politica “anticorruzione”, portata avanti a suon di slogan dai paladini di un sistema di riorganizzazione della PA che può funzionare solo in laboratorio a gravità zero o nelle aule di qualche convegno, nelle quali illustrare le bellissime idee dell’Iperuranio amministrativo.

Poi, c’è la realtà. Che è fatta di sostanza. Pensare che i comuni non capoluogo per gli appalti Pnrr possano avvalersi del sistema dell’affidamento diretto, simbolo indiscusso di modalità semplici di individuazione del contraente, però dovendo passare attraverso le centrali di committenza è di per sè una contraddizione in termini. Si finisce solo per allungare la filiera operativa degli appalti.

E’ da ricordare che i fautori della riforma delle province, anzi della loro abolizione, sostennero quell’altra solenne sciocchezza, purtroppo portata avanti fino alle conseguenze estreme del caos istituzionale, motivandone la necessità, tra l’altro, con la giustificazione della necessità di ridurre appunto i segmenti decisionali lungo i quali di dipanavano le procedure. Giustificazione del tutto infondata e prova della profondissima sommarietà con la quale i suoi autori attivarono quella devastante riforma: le province non erano per nulla un ulteriore passo amministrativo delle procedure burocratiche dei comuni.

Paradossalmente, a province distrutte, il meccanismo testardo e sordo della concentrazione degli appalti, ha portato al paradossale esito di considerare, ora, le province tra le centrali appaltanti alle quali i comuni non capoluogo debbono rivolgersi anche per gli appalti di piccola portata del Pnrr: così allungando l’iter amministrativo.

Dopo mesi di attivazione del Pnrr, dopo che si è certificata l’inidoneità del sistema nel suo complesso a poter davvero realizzare nei tempi ristretti previsti le attività, anche a causa della previsione di progetti obsoleti tirati fuori in fretta e furia dai cassetti senza nemmeno la cura di aggiornare prezzi e tecniche, ci si è accorti che la stretta sulle stazioni appaltanti non è per nulla una scelta saggia.

Certo, lo slogan secondo il quale è necessario che le stazioni appaltanti siano “qualificate”, composte, cioè, da uffici tecnici dotati di mezzi e soprattutto di personale competente e qualificato è molto affascinante: come non condividerlo?

Ma, la soluzione alla carenza di personale qualificato non si reperisce solo ed esclusivamente mediante strumenti di esternalizzazione. Per il Pnrr si è pensato ai “1000 esperti”. Esperti di cosa e in base a quale esperienza sul campo amministrativo, non si è ancora capito. Ma si è capito molto bene la loro scarsissima utilità, inversamente proporzionale al clamore mediatico.

Altra soluzione di esternalizzazione è, appunto, l’obbligo di utilizzare centrali di committenza, stazioni uniche appaltanti e soggetti aggregatori: si sposta, cioè, dall’ente ritenuto non qualificato la competenza a gestire le gare verso enti, invece, qualificati.

Salvo prendere atto che tali enti non hanno le spalle abbastanza larghe per poter reggere l’urto di una quantità di affidamenti per conto di altri enti delle dimensioni che appunto un imbuto mirante a far passare per la parte stretta di poche decine o centinaia di enti qualificati, decine di migliaia di fabbisogni di altri enti, non può assolutamente assicurare con efficacia.

Dunque, la cruda realtà ha fatto capire che così non è possibile proseguire e lo schema di decreto “aiuti quater” intende limitare l’obbligo incombente sui comuni non capoluogo di avvalersi delle centrali di committenza per i progetti Pnrr solo per gli affidamenti per importi superiori alle soglie degli affidamenti diretti: per i lavori fino a 150 mila euro e per servizi e forniture fino a 139 mila euro.

Un primo, ancestrale, segno di resa alla realtà. Purtroppo, si insiste, invece, col resto, come il trastullo del simulatore della qualificazione negli enti, insistendo sulla strada senza uscita della riduzione delle stazioni appaltanti.

Una pervicacia nel perseguire un obiettivo fallace: prima o poi le centrali di committenza dovranno mettere in coda le opere richieste. I sindaci, alzando spallucce e congiungendo le mani, dovranno spiegare ai propri cittadini che l’asfaltatura, la scuola, il riassetto, il recupero saranno fatti quando la centrale Tizia avrà tempo e modo, mostrando il ticket contenente il numerino della coda.

L’inchiodamento arriverà certamente, prima o poi, esattamente come accaduto con le opere passibili di affidamento del Pnrr. Ma, ovviamente, mai che si capisca la necessità di intervenire prima e di lasciare le idee da laboratorio nei laboratori.

Centrali di committenza e soggetti aggregatori sono utilissimi. Quel che è sbagliato è un sistema di obbligo ad utilizzarli. Per rendere efficiente l’offerta di questi enti nel “mercato” delle stazioni appaltanti, occorre che detti soggetti mostrino la convenienza ad avvalersene, determinata dalla capacità di un’esternalizzazione completa e la velocità nell’attivarsi e garantire la realizzazione delle opere.

Le stazioni appaltanti debbono essere messe nelle condizioni di valutare l’opportunità di avvalersi delle centrali, o di considerare invece la possibilità di fare da sè, qualora ciò risulti più celere, utile, controllabile e meno macchinoso.

Il sistema obbligatorio si mostra da sempre particolarmente complesso: occorrono convenzioni che poi spesso sono amorfe, con competenze incerte e spesso inventate e tutta la regolazione dei rapporti tra chi progetta, chi segue la gara, chi si interessa dell’esecuzione, chi prende il Cup, chi invece il Cig, di quale ente sia il Rup, di quale altro il direttore dei lavori, sono complicazioni operative che vale la pena affrontare solo di volta in volta, ma non portare a sistema.

Il vero rimedio? Consentire alle stazioni appaltanti di rinforzarsi, non assumendo “esperti” per altro con contratti precari, come prevede la normativa Pnrr, ma con un serio allargamento delle dotazioni, un investimento, quindi, nel personale qualificato ed un ulteriore investimento in trattamenti economici adeguati. Non solo: con un ripensamento serio alla griglia delle responsabilità. Non si tratta per nulla della paura della firma, ma della certezza che qualsiasi tecnico o amministrativo che si cura di appalti ha di trovarsi, se lavora nella PA, in una situazione paradossale, preso tra le pressioni politiche finalizzate a violare o derogare a qualsiasi norma, le impuntature di Authority intente solo a riempire di adempimenti e minacciare sanzioni, le azioni spesso troppo formalistiche delle varie giurisdizioni, l’assenza totale di una stanza di compensazione, composta da soggetti preposti ad un controllo preventivo terzo. Tutte pressioni che, a parità o addirittura con trattamento economico inferiore, nel privato (ove gli stress non mancano, ma sono finalizzati ai risultati, non ai formalismi) non ci sono.

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