14/03/2020 – Cosa rischia chi infrange le regole poste dall’emergenza Coronavirus: disamina di tutti i reati contestabili.

Cosa rischia chi infrange le regole poste dall’emergenza Coronavirus: disamina di tutti i reati contestabili.
 Giuseppe Ferlisi 99 – (Avvocato)
 
Con i clamorosi provvedimenti che, di fatti, limitano i diritti costituzionali di libertà dell’individuo in nome della salute pubblica e della sicurezza dei consociati, il cittadino comune viene investito di numerose responsabilità penali nell’assolvilmento delle proprie attività quotidiane.
 venerdì 13 marzo 2020
 
Sommario: 1. dPCM 9 Marzo e 11 Marzo 2020, introduzione; 2. Art. 650 c.p, mancata esecuzione ordine di autorità; 3. Art. 495 c.p. falsa autocertificazione; 4.  Art. 438 c.p., reato di epidemia; 5. Art. 337 c.p. resistenza a pubblico ufficiale; 6. Art. 452 c.p.: delitti colposi contro la salute pubblica; 7. Altri reati astrattamente applicabili alla diffusione consapevole del Covid-19; 8. Conclusione.
1. d.PCM 9 Marzo 2020 – 11 Marzo 2020
Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri varato in data 9 marzo 2020 ed in vigore dal giorno successivo sino al 3 aprile prossimo, ha – come noto – varato misure molto restrittive rispetto alle libertà individuali, sottoponendo a precisi limiti gli spostamenti dei cittadini.

Sono in sostanza state allargate a tutto il territorio nazionale le misure varate con il dPCM del 8 Marzo 2020.

L’ultimo dPCM, quello dell’11 Marzo, non ha inciso di molto negli spostamenti quotidiani dei singoli cittadini, quanto piuttosto ha azionato il cd. lockdown, che restringe le attività commerciali che possono continuare legittimamente ad esercitare l’attività.

Il presente elaborato non vuole riportare tutte le norme contenute nei predetti dPCM, né rispondere in maniera pedissequa ai singoli comportamenti consentiti in concreto e non; sono riportati in a mezzo dei collegamenti i testi in gazzetta ufficiale di tutti i dPCM citati e e qui la F.A.Q. ufficiale dal sito www.governo.it.

In tale elaborato intendiamo, piuttosto, affrontare ed analizzare le fattispecie di reato al quale ogni cittadino incorre allorquando vìola in tutto od in parte le rigide restrizioni del Decreto.

Come noto, tale provvedimento storico ha imposto regole molto rigide volte ad evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori, come pure all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da:

1) comprovate esigenze lavorative,

2) situazioni di necessità,

3) motivi di salute, rimanendo sempre garantito il ritorno al domicilio.

Dette circostanze devono essere attestate attraverso l’autodichiarazione disponibile sul portale istituzionale del Viminale (clicca qui per scaricare il modulo).

Inoltre, nel tentativo di chiarificare le cose, oltre alla F.A.Q., sono state diffuse le direttive impartite dal Ministero degli Interni Dott.ssa Lamorgese ed indirizzato alle Prefetture.

E’ chiara una cosa: per garantire al meglio l’ordine pubblico, se qualcosa può cambiare, in negativo, fino al 25 marzo, non saranno più tanto le regole restrittive, anche perché il loro scostamento verso una maggior radicalizzazione presenta margini oramai risicati, bensì l’applicazione e l’interpretazione delle stesse regole.

Insomma, nei primi giorni si potrà trovare maggiore elasticità perché, anche sociologicamente, misure così drastiche non possono essere applicate rigorosamente nei primi giorni; tuttavia, è altrettanto lecito presupporre che con il passare dei giorni si vada verso una maggiore rigorosità.

Per tutti questi motivi, non può che consigliarsi il buon senso e, volendo fare riferimento ai principi più puri del nostro ordinamento, la bona fide.

Si può “scendere il cane”, si può fare la spesa, si può anche comprare una lampadina o un cavo HD ad esempio, si può fare il tragitto per andare al tabaccaio o all’edicola (ovviamente, tutto questo, con le disposizioni in atto al momento) e sicuramente nessuno sarà richiamato se nel tragitto dovesse sostare per ammirare uno scorcio di cielo per qualche minuto.

Ciò che è importante è praticare la buona fede, quindi andare a fare la spesa al supermercato vicino e non a quello all’altro capo della città con la buona scusa, né andarci in gruppo o fermarsi comunque per strada.

Se si rispettano le norme, applicandole con buona fede, probabilmente non si andrà incontro a nessuna delle conseguenze penali che tale elaborato intende riassumere.

Non può che porsi una considerazione al lettore: in questo momento le forze di polizia e di sicurezza non hanno certo interesse ad elevare denunce o attuare misure cautelari, ma sicuramente lo faranno se necessario.

Può essere, questa, una buona occasione per riflettere sui diritti fondamentali di cui usufruiamo ogni giorno, apprezzare quelli più piccoli, e riflettere sugli elevati standard raggiunti – in termini di profondità di tutela dei singoli diritti – dalla cultura giuridica odierna.

Importante evidenziare una cosa: il rinvio e la menzione dei limiti a cui era soggetta solo parte dell’Italia settentrionale ha provocato una discussione circa la mobilità tra città diverse o nella città; ebbene non vi è alcuna differenza: anche in città ci sono i medesimi limiti e gli stessi comprovati motivi per giustificare l’uscita.

2. Art.  650 c.p.: mancato dell’ordine di un’autorità
L’articolo 4 del dPCM 8 marzo, al comma II testualmente recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale, come previsto dall’art. 3, comma 4, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6”.

E tale sanzione viene confermata anche dai successivi decreti, da ultimo quello recentissimo del 11 marzo 2020.

Pertanto, tutti gli obblighi ivi contenuti sono sanzionati a mezzo del reato contravvenzionale di cui all’art. 650 c.p. trattandosi di misure varate per motivi di igiene e sicurezza pubblica.

L’art. 650 c.p. è compreso nel Libro III (Delle contravvenzioni in particolare), Titolo I, Capo I, Sezione I (Delle contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica) del nostro codice penale.

Esso statuisce: “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a 3 mesi o con l’ammenda fino a duecentosei euro”.

Prima di entrare nell’analisi della fattispecie, è utile riassumere il significato stesso di contravvenzione e la sua differenza rispetto ai delitti: ai questi ultimi seguono le pene dell’ergastolo, della reclusione e della multa; alle contravvenzioni, invece, quelle dell’arresto e dell’ammenda.

Oltre alla pena detentiva (arresto) e pecuniaria (ammenda) possono essere previste per le contravvenzioni specifiche pene accessorie (art. 19 c.p.) quali la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte, ai sensi dell’art. 35 c.p. ovvero la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, ai sensi dell’art. 35-bis c.p.

Inoltre, l’art. 42, comma 2 c.p., al comma 4 dispone che “nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”, tali assunti fanno discendere la non configurabilità del tentativo.

Sotto l’aspetto pratico, le contravvenzioni possono essere estinte prima del giudizio mediante oblazione, prevista dagli articoli 162 e 162-bis c.p., non applicabili ai delitti; i termini per la prescrizione, previsti dall’art. 157 c.p., invece, sono ovviamente più brevi e non si applica a tali fattispecie l’istituto della recidiva.

Il bene giuridico tutelato dalla disposizione è la polizia di sicurezza, rientrante in un’accezione lata di ordine pubblico, la cui lesione viene sanzionata a seguito dell’inosservanza di un provvedimento legalmente dato dalle autorità avente il potere di imporre o vietare una certa condotta, limitando pertanto la libertà di autodeterminazione dell’individuo.

La norma rientra tra le cd. norme penali in bianco, ossia quelle norme il cui precetto viene individuato attraverso la combinazione con una norma di rango inferiore alla legge, in questo caso un Decreto.

Usando la locuzione chiunque, il soggetto attivo del reato è il destinatario del provvedimento legalmente dato dall’autorità; nel caso di specie, trovando applicazione su tutto il territorio italiano, sarà passibile di denuncia da parte del personale di sicurezza ogni cittadino sorpreso a vietarne i numerosi precetti.

Tra i soggetti attivi rientrano anche i legali rappresentanti di una persona giuridica, fra i quali, ad esempio, i proprietari degli esercizi aperti al pubblico che operano il commercio in divieto della distanza minima di 1 mt.

Per quanto riguarda la persona offesa, invece, è “la collettività nel cui interesse l’ordine deve essere adempiuto”.

Venendo, invece, alla dimensione soggettiva, ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 650 c.p.,è sufficiente la mera colpa, come per tutte le contravvenzioni; tuttavia sia la giurisprudenza di legittimità1 che quella di merito hanno statuito un requisito di intenzionalità alla base dell’omissione, che renda evidente l’intenzione dell’agente di non osservare – senza giustificazione l’ordine impartito.2

Circa la consumazione, questa si verifica allorquando – sia in caso di obbligo di fare o di non fare – il cittadino non conformi la sua condotta al comando; la condotta si ritiene permanente ed inizierà a decorrere dalla scadenza del termine fissato dall’autorità o, in difetto, nel termine in cui il soggetto sarebbe stato in grado di obbedire.

Dalla lettera della norma, tuttavia, si nota una clausola di sussidiarietà data dalla locuzione salvo che il fatto costituisca un più grave reato; pertanto nel presente elaborato saranno trattate le varie fattispecie di reato che possono realizzarsi in questi giorni e fino al prossimo 25 marzo.

Sicuramente tale locuzione pone innanzitutto un principio: non sarà possibile applicarsi tutti i reati diversi che costituiscono titolo speciale rispetto all’art. 650 c.p. (a mero titolo di esempio, artt. 651, 652,659) , ponendo allo stesso tempo un limite verso il basso con la sua punizione (arresto e ammenda).

Viene da se che altri reati, a titolo diverso, e non menzionati, posso ben realizzarsi nella situazione italiana odierna.

3. Art. 495 c.p.: falsa autocertificazione
Cominciamo con il dire una cosa importante: se non si ha la stampante a casa, se le cartucce sono esaurite, se chiuderanno tutti i possessori di una fotocopiatrice, si deve rimanere tranquilli.

Infatti, il modello scaricabile qui potrà essere fornito, per essere compilato, anche dagli stessi agenti controllori e andrà compilato alla loro presenza.

Il modello recente presenta un piccolo, ma fondamentale, cambiamento rispetto a quello fornito due giorni fa, di cui forniamo il pdf in allegato: l’ultimo modello rilasciato non presenta più il richiamo all’art. 76 del DPR n. 445/2000.

Questo perché i modelli rilasciati in prima battuta non tenevano conto della Sentenza della Suprema Corte di Cassazione3, per cui la presentazione di dichiarazione sostitutiva con contenuto ideologicamente falso, in forza dell’obbligo di dichiarare il vero sancito dall’art. 76 d.P.R. n. 445/2000, integra comunque il reato di cui all’art. 483 c.p.

Tale articolo si rubrica “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”, prevedendo la reclusione fino a due anni della condotta volta ad attestare falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.

Tuttavia non può certo considerarsi pubblico un atto come quello dell’autocertificazione; per questo è stata riportata direttamente la dicitura con l’indicazione dell’art. 495 c.p., derubricato Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri.

Esso punisce chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona prevedendo una pena di reclusione da 1 a 6 anni.

Tale disposizione tutela la pubblica fede, bene giuridico leso da ogni comportamento idoneo ad alterare la buona fede, per tornare a ciò che è stato menzionato nell’apertura di questo elaborato.

Come intuito, basta la minaccia, e quindi il pericolo di violare la pubblica fede per consumare il reato, pertanto da definire di pericolo.

Il soggetto passivo, il ricevente della dichiarazione, deve essere un pubblico ufficiale.

Ergo, a tal proposito, non potrà essere contestato tale reato, ad esempio, per dichiarazioni rilasciate al personale della protezione civile.

L’agente di sicurezza, quindi, potrà sottoporre a verifica il contenuto della dichiarazione, riscontrando quanto affermato e, nel caso di mancato riscontro, contestare l’art. 495 c.p.

Resta inteso, come affermato dai giudici di legittimità, che “le altre qualità proprie o dell’altrui persona” così come indicato dall’articolo, sono solo quelle che servono a completare lo stato e l’identità della persona ai fini della sua identificazione. Restano escluse dalla tutela penale le richieste dell’autorità su qualità personali non giustificate dall’esigenza della identificazione ma rivolte ad altri fini. Nel caso di specie l’attestazione relativa allo stato di coabitazione, resa in una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, non integra una qualità personale non connotando i dichiarandi né designandone una qualità strettamente inerente la persona. In caso di sua falsità deve ritenersi sussistente il delitto di cui all’articolo 483 e non quello previsto dall’articolo 495 del Codice Penale.4

Sotto l’aspetto della dimensione soggettiva, il dolo richiesto è quello generico, bastando la coscienza e volontà del fatto previsto dalla norma incriminatrice, consumandosi nel momento in cui viene resa la falsa dichiarazione ed il tentativo, quindi, può configurarsi.5

L’espressivo riferimento alla norma, ci libera il campo dai possibili concorsi apparenti di norme, visto che in tema di falsità potevano aprirsi scenari molto diversi tra loro. 

4. Art. 438 c.p.: reato di epidemia
Il dPCM analizzato sottopone a restrizione radicale chi presenta uno stato febbrile superiore alla temperatura di 37,5; i cittadini, infatti, che presentano tale sintomo hanno l’obbligo di rimanere nella propria abitazione, non potendo uscire dalla stessa.

Così come è sottoposta, ovviamente, a restrizioni ancor più forti chi è stato segnalato quale positivo al Covid-19 a seguito di regolare test del tampone, ai quali non è consentito assolutamente uscire dall’isolamento domiciliare ed è raccomandato di tenersi isolati anche dai propri familiari.

Dalla lettera del Decreto può intuirsi l’enorme differenza rispetto alle prescrizioni per i cittadini non positivi: per i non positivi si usa il verbo evitare, per quelli positivi o comunque con stato febbrile con temperatura superiore ai 37,5 gradi centigradi, si usa il comando dell’obbligo.

E’ intuibile, quindi, che se i non positivi possano incontrare responsabilità penali allorquando non rispettano i motivi inderogabili di uscita, con l’applicazione di reati meno gravi, per i positivi – che hanno restrizioni insindacabili – si presenteranno responsabilità in ordine a reati ben più duri.

Di fatti molti casi di cronaca raccontano di persone con stato febbrile denunciate dai pubblici ufficiali per il reato di epidemia contenuto all’art. 438 del codice penale.

L’art. 438 c.p. rubricato Epidemia apre il Capo II del titolo sesto Dei delitti contro l’incolumità pubblica, tale parte del codice è dedicata a quei delitti di comune pericolo mediante frode, o per meglio dire, quei delitti che comportano un pericolo per la salute definibile pubblico, cioè che interessa la collettività.

Esso statuisce che: “Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo.”

Il bene giuridico tutelato, sottinteso nel dato normativo, è certamente il diritto inviolabile, costituzionalmente garantito all’art. 32 Cost., della salute; intendendosi per salute il benessere psico-fisico dell’individuo o, come nel caso di specie, della collettività.

La norma, utilizzando la locuzione chiunque configura un reato di tipo comune, discutendosi in giurisprudenza se esso sia un delitto di pericolo o se, invece, di danno, disquisendosi quindi intorno alla sua consumazione: se considerato di pericolo, la punibilità si anticipa alla semplice circolazione da positivo, viceversa, se considerato di danno, la punibilità sarebbe ristretta a coloro che in concreto approntano almeno un contagio.

Soffermandosi sul punto, l’evento del reato è un evento tipico, nel senso che consiste in una malattia contagiosa che – per la sua spiccata diffusività – è in grado di infettare, nel medesimo tempo e luogo, una moltitudine di destinatari, caso sicuramente rintracciabile nell’odierna emergenza dettata dal Covid-19 .6

L’evento che ne deriva è quindi, al contempo, un evento di danno e di pericolo, costituendo il fatto come fatto di ulteriori possibili danni, cioè il concreto pericolo che il bene giuridico protetto dalla norma, rappresentato dall’incolumità e dalla salute pubblica, possa essere distrutto o diminuito.7

Per ciò che concerne la condotta, secondo recente giurisprudenza di legittimità, il reato di epidemia non può che essere una condotta commissiva, non potendosi configurare quella colposa a titolo di omissione in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione mediante la diffusione di germi patogeni, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera.8

Facile prevedere che numerosi procedimenti penali si apriranno in caso degli obblighi prescritti dai dPCM analizzati.

Una strategia difensiva potrà essere quella di approfondire il dato soggettivo, potendosi per la giurisprudenza attribuire – qualora la diffusione del germe avvenga consapevolmente e quindi con dolo da parte dell’agente – non il reato di epidemia ex art. 438, c.p., bensì quello di lesioni personali gravissime aggravate.9

5. Art. 337 c.p.: resistenza al pubblico ufficiale
Per i cittadini italiani sorpresi, ad esempio, a fuggire dal territorio stesso ovvero non adempiere ad una intimazione delle forze di sicurezza, usando violenza o minaccia, può essere ben applicabile la resistenza a un pubblico ufficiale.

Il legislatore penale colloca tale reato nel libro II del codice penale, nel titolo II (Dei delitti contro la pubblica amministrazione), nel Capo II (Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione).

Esso statuisce che: “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.

Come ogni reato che utilizza la locuzione chiunque deve ritenersi di tipo comune, giacché lo stesso può essere commesso da ogni cittadino italiano nel caso de quo; è un reato di mera condotta a forma libera, ossia realizzato con qualsiasi azione idonea al raggiungimento dello scopo.

Il bene giuridico protetto dalla fattispecie di cui all’art. 337 c.p. è quello della sicurezza, della libertà di azione e della libertà di movimento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di servizio contro specifici atti di opposizione violenta.

Difatti, non è necessario che la condotta violenta ponga in pericolo l’integrità fisica del soggetto passivo, poiché quello in analisi è un reato contro la Pubblica Amministrazione ed è, quindi, sufficiente l’esistenza di una condotta idonea ad impedire l’esecuzione dell’atto di ufficio.

Si ritiene che la materialità del delitto di resistenza al pubblico ufficiale sia integrata pure dalla violenza cd. impropria, la quale, pur non aggredendo direttamente il predetto soggetto, si ripercuote sfavorevolmente nell’esplicazione della relativa funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola.

Attenzione, per rendere la condotta rilevante basta anche una omissione, un atteggiamento, anche implicito, purché percepibile, che impedisca, ostacoli od intralci e comprometta, anche parzialmente o temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto di ufficio o di servizio del p.u. o dell’incaricato di p.u.10

Dalla lettura della norma, tuttavia, può desumersi che l’esecuzione dell’atto da parte del p.u. deve esser almeno iniziata, tale circostanza è ricavabile dall’uso del termine mentre, il quale rende palese la necessaria contestualità tra la resistenza del privato e l’attività del p.u.11

Non volendo di certo suggerire strumenti volti a sottrarsi all’azione del p.u., si evidenzia che la reazione minacciosa o violenza – per essere punibile – deve essere attuata con la finalità di opporsi al compimento del servizio, rimanendo estranea la cd. resistenza passiva o tutte quelle azioni volte a testimoniare un semplice atteggiamento difensivo (buttarsi a terra o rifiutarsi di obbedire). 12

Altra condotta che potrebbe scusare risulta essere quella della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, il quale – eccedendo il proprio mandato di servizio – mette in campo condotte che esorbitino dalle proprie competenze e possibilità.

La dimensione psicologica richiede, utilizzando la locuzione fine il dolo specifico, ossia coscienza e volontà della minaccia o della violenza volta ad impedire l’esecuzione dell’atto da parte del pubblico ufficiale.

Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che l’elemento intenzionale del delitto di resistenza a pubblico ufficiale richiesto sia la coscienza e volontà dell’agente di usare violenza o minaccia per opporsi al soggetto tutelato mentre sta compiendo o si sta adoperando per compiere il proprio atto d’ufficio o di servizio, senza che abbia rilevanza il fatto che la violenza o minaccia cada su cose anziché sulle persone, quando essa sia idonea ad impedire o, comunque, turbare od ostacolare l’attività funzionale del pubblico ufficiale.13

In pratica, è indifferente che la condotta antigiuridica della violenza o della minaccia avvenga ed cada su cose piuttosto che sulle persone.

Potrebbero incorrere in tale reato i cittadini italiani, ad esempio, che si rifiutino con violenza di consegnare i documenti nei controlli ordinari volti all’applicazione del dPCM succitato ovvero coloro che non si fermano all’alt posto da possibili posti di controllo o blocco.

Non solo, al suddetto reato è applicabile astrattamente il concorso di persone, tale che sia sufficiente persino la spontanea intesa volta a raggiungere il fine predetto e quindi, a titolo esemplificativo, la possibilità che tutti i passeggeri di un’automobile sfuggita all’Alt possano incorrere nel compimento del reato de quo.14

Bisogna pur menzionarsi il caso della fuga, che può verificarsi, ad esempio, non fermandosi ad un controllo della volante conducendo la propria automobile.15

Ebbene, il requisito di reato e minaccia ci fa propendere per una generale esclusione di una fuga a piedi, restando invece punibile quella menzionata, come la forzatura di un posto di blocco.

Restano da analizzarne alcuni aspetti procedurali: trattasi di un reato procedibile d’ufficio, di competenza del Tribunale in composizione monocratica (art. 33 ter c.p.p.), la misura pre-cautelare dell’arresto è facoltativa, mentre il fermo indiziano di delitto non è consentito, è applicabile la declaratoria di non punibilità del fatto.

6. Art. 452 c.p.: delitti colposi contro la salute pubblica
L’art. 452 c.p. recita Chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 438 e 439 è punito con la reclusione da tre a dodici anni, prevedendo poi una pena edittale più grave per gli altri reati puniti con la pena dell’ergastolo, ed una misura più attenuata – da 6 mesi a 3 anni – per quelle con pena reclusiva.

La norma, inoltre, si preoccupa di punire anche la dimensione colposa, quasi a scanso di equivoci, allargando la punizione attraverso il rimando agli articoli 440, 441, 442, 443, 444 e 445 ed ai quali si applicano le pene ivi rispettivamente stabilite ridotte da un terzo a un sesto.

Si è di fronte, quindi, ad una norma omnicomprensiva, e la punizione colposa di altri reati non deve sorprendere, visto che a mezzo di tale locuzione, è entrata sotto l’ombrello della punibilità colposa i reati elencati, tutti a protezione della salute pubblica, considerata nella sua dimensione di insieme di condizioni di igiene e sicurezza della vita e della salute della collettività.

Come intuibile, la salute pubblica è un bene giuridico fondamentale nell’ordinamento, discendendo da questo l’anticipazione della punibilità al mero pericolo astratto.

Attenzione merita l’indagine circa l’astratta configurabilità di tale reato a mezzo di disastro, principio giuridico di formazione giurisprudenziale e di grande lavoro negli ultimi anni.

In ambito sanitario, esso potrebbe ricomprendere ogni dinamica offensiva e diffusiva, non preventivamente misurabile e controllabile, che non risulta circoscrivibile nella specifica direione verso esiti predeterminati.

Per capire cosa si intenda per disastro, bisogna passare partire da una definizione sistematica partendo da quanto il legislatore ha già definito quale disastro, contenuto nei Capi I e III, Titolo VI, Libro II, del codice penale.

Qui, viene in rilievo il pericolo comune quale pericolo astratto per la vita o l’incolumità di una pluralità indeterminata di consociati ed ha come ratio una anticipatissima tutela in nome della prevenzione, della diffusività del dano e delle vittime potenziali.

Risultano decisivi i modi e gli effetti del danno, che deve presentare – per potersi applicare tale fattispecie ad una epidemia come il coronavirus – i caratteri tipici del disastro, quali complessità ed estensione, oltre ad essere diffuso.

E’ chiaro che, vista la non conoscenza attuale né della velocità di propagazione del contagio né precisamente i suoi modi, sarà molto difficile vedere contestato il disastro sanitario ad un cittadino italiano, finanche positivo al tampone da Covid-19.

Qualunque responsabilità penale, difatti, assume quale assioma la diligenza dell’uomo comune, e non può certo immaginarsi una consapevolezza di un disastro per un cittadino ordinario.

A questo si aggiunga che si dovranno comunque indagare gli effetti, e quindi appurare che in concreto vi sia stata un contagio così diffuso riconducibile al possibile reo positivo al tampone, con ogni problema che questo comporto in sede istruttoria per la pubblica accusa.

7. Altri reati astrattamente applicabili alla diffusione consapevole del Covid-19
E’ bene evidenziare che l’autore si muove in un terreno praticamente sconosciuto, con assenza o quasi di una qualsiasi forma di giurisprudenza di merito.

Può, tuttavia, ritenersi, che sicuramente sono applicabili ai casi di specie tutte i delitti colposi contro la salute pubblica, ivi compresi i reati di lesioni o tentate lesioni volontarie (art. 582 c.p.).

Per questo, ad esempio, chi ha sintomi legati al coronavirus e non si pone in isolamento, ed infetta persone anziane o comunque soggetti a rischio causandone la morte, l’imputazione potrebbe finanche trasformarci in omicidio doloso, pena la reclusione non inferiore a 21 anni, poiché muovendosi con la consapevolezza del rischio – o ancora peggio, con la consapevolezza della positività (al momento ci sono circa 3mila persone in isolamento domiciliare in seguito a diagnosi positiva) – di contagiare altre persone causandone lesioni, e nei casi più gravi, la morte.

D’altronde quello che abbiamo descritto (accettazione del rischio) è la descrizione del dolo eventuale, titolo soggettivo richiesto dal reato di omicidio.

Tutto questo se, anche a seguito del clamore mediatico e storico della patologia Covid-19, ad essa possa assimilarsi tutta la giurisprudenza riscontrata per i casi di diffusione consapevole dell’aids.

Si evidenzia, inoltre, che per tali reati è astrattamente applicabile anche la dimensione soggettiva, più larga, della colpa cosciente, al quale potrebbero soggiogare coloro i quali – nelle condizioni prima descritte – continuano a lavorare ed avere rapporti sociali o lavorare senza prendere precauzioni o avvisarle, senza avvertire coloro con i quali si ha avuto contatto negli ultimi giorni, causando il rischio di contagiare altre persone.

8. Conclusione

Non per ribadire quanto già detto, ma proprio l’eccezionalità del momento e la contemporanea assoluta novità delle norme messe in campo, hanno posto problemi interpretativi importanti, tale che – al fine di discernere i comportamenti legittimi e non – il Ministero degli interni ha diffuso ulteriori informazioni a riguardo.

Ad esempio, comunicando con una nota, a firma del Capo Gabinetto, che tra le comprovate esigenze primarie non rinviabili, rientra a pieno titolo, oltre l’esigenza alimentare, anche le uscite legate alla gestione quotidiana degli animali e la possibilità di fare sport o attività motoria (si può camminare) all’aperto, purché rispettando la distanza di 1mt.

Alleghiamo anche questa in PDF alla presente o ne suggeriamo il link.

Concludendo la rassegna, difficilmente saranno sostenibili in giudizio – anche ai danni di positivi in violazione dell’obbligo di isolamento, figurarsi a carico di chi viola le prescrizioni in tema di mobilità – di reati quali epidemia o lesioni gravissime, potendo però immaginare un aumento considerevole di contravvenzioni ex art. 650 c.p. e reati di falso.

Per non incorrere in alcun reato basterà mettere in pratica il concetto di buona fede, insomma, niente furbizie.

Note e riferimenti bibliografici
  1. Cass. Sez. I, 11 marzo 1995, n. 2398;
  2. Trib. Palermo, 25 novembre 2006, n. 2994;
  3. Cass. Sez. V, n. 32859/2019;
  4. Cassazione n. 10342/1996
  5. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 7232 del 24 maggio 1990
  6. Cass. Sez. I, n. 48014/2019;
  7. Trib. Trento, 16.7.2004;
  8. Cass. Sez. IV, n. 9133/2018;
  9. Cass. Sez. I, n. 48014/2019
  10. Cass. pen. n. 7061/1996
  11. Cass. pen. n. 37749/2010
  12. Cassazione penale, Sezione VI sentenza 06 novembre 2012 n. 10136);
  13. Cassazione penale, sezione VI, sentenza del 27 maggio 1986 nr. 4325);
  14. Cass. pen. n. 32906/2007;
  15. Cass. pen. n. 41936/2006;
* Come riferimento bibliografico, l’Autore si è servito delle circolari del ministero degli interni in allegato pdf alla presente.

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