07/12/2023 – L’abuso del diritto nell’assemblea di società di capitali: massimario ragionato.

Sommario 1. L’abuso del diritto in materia societaria: gli elementi costitutivi della fattispecie; 2. Rassegna giurisprudenziale: la casistica in tema di abuso della regola di maggioranza; 3. [Segue] La casistica sull’abuso della minoranza; 4. Il sindacato giudiziale sulle delibere viziate da abuso del diritto.

                

1.      L’abuso del diritto in materia societaria: gli elementi costitutivi della fattispecie.

Come si vedrà nel prosieguo della presente indagine, l’abuso del diritto nell’assemblea di società di capitali può assumere le forme dell’abuso di maggioranza oppure di minoranza.

In una delle più recenti pronunce della Corte di cassazione in materia, la sentenza del 1° giugno 2021, n. 15276, riguardante, in particolare, l’abuso della maggioranza, i Giudici di Piazza Cavour affermano: “L'”abuso” nell’esercizio del diritto di voto da parte del socio (dominante o tiranno) che espone all’obbligo del risarcimento del danno deve essere ravvisato nella violazione da parte del socio di maggioranza del limite imposto – alla altrimenti legittima ed esclusiva strumentalità dell’esercizio del diritto di voto al perseguimento dell’interesse personale e proprio del socio – dal rispetto del “principio di buona fede” ex art. 1375 c.c. che deve, sempre, essere osservato anche durante la fase di esecuzione del contratto sociale.” [1].

La menzionata pronuncia è intervenuta a settanta anni di distanza dalla sentenza, viceversa, più remota che è dato rinvenire in analoga tematica, la sentenza 12 maggio 1951, n. 1177, ove il giudice di legittimità affermava: “nel giudicare sull’impugnazione di una deliberazione assembleare di società per azioni da parte di azionisti dissenzienti, il giudice non si deve limitare a sindacarne la legittimità formale, ma può esaminare la situazione finanziaria della società, per stabilire se siano da considerarsi o meno fraudolenti e lesivi degli interessi della minoranza i provvedimenti deliberati dall’assemblea.”[2].

Orbene, nelle pagine che seguono verrà esaminata l’applicazione ermeneutica della dottrina dell’abuso del diritto nell’assemblea di società di capitali[3]; saranno prese in considerazione le interpretazioni giurisprudenziali le quali hanno progressivamente dato corpo ad un’ampia casistica di genere[4]; infine, sarà esaminato il sindacato giudiziale sull’abuso del diritto in materia societaria, vale a dire la violazione del principio di correttezza e di buona fede in executivis nonché la lesione dei diritti fondamentali dei soci coinvolti nell’adozione della deliberazione assembleare[5].

Prima di approfondire i profili delineati, occorre tuttavia premettere alcune considerazioni di base, le quali consentono di inquadrare con maggiore precisione la tematica in corso di esame.

Ritiene la recente giurisprudenza di merito, infatti, che “L’abuso della maggioranza presuppone un conflitto fra soci e l’esercizio del diritto di voto in assemblea da parte del socio di maggioranza con lo scopo di ledere l’interesse degli altri soci senza che vi sia alcun interesse sociale all’adozione della deliberazione […]”[6].

Nello specifico, dunque, può affermarsi che l’abuso del diritto nelle assemblee di società di capitali sussista ogniqualvolta, attraverso un uso distorto e strumentalizzato del principio maggioritario, si sia pervenuti all’adozione di una delibera assembleare dolosamente preordinata ad assecondare interessi della maggioranza non in linea con la causa del contratto di società e lesivi delle prerogative dei soci di minoranza.

In particolare, sul cd. “abuso di maggioranza”, “[…] si richiama il principio di diritto, secondo cui ogni socio persegue, nell’esercitare i suoi diritti sociali, propri interessi ed è libero di esercitare il proprio voto come meglio crede. Si configura abuso di maggioranza solo allorquando l’esercizio del voto da parte della maggioranza avviene allo scopo di ledere l’interesse della minoranza. Diversamente, la divergenza di voto fra soci è fisiologia della vita sociale”[7].

In senso non dissimile a quanto da ultimo riportato, gli estremi dell’abuso del diritto potranno rinvenirsi in tutti i casi in cui la minoranza azionaria, attraverso l’esercizio scorretto dei propri diritti, abbia piegato il procedimento assembleare a comportamenti ostruzionistici e paralizzanti la vita societaria, tra i quali, ad esempio, il reiterato voto contrario[8].

Sul punto, i giudici civili ricostruiscono gli estremi del c.d. “abuso di minoranza” affermando che: “una “strumentalità” del diritto statutariamente riconosciuto alla minoranza – id est il suo abuso – sussiste solo quando la società alleghi e provi che la defezione dei soci ha avuto come scopo la lesione dei diritti o interessi sociali dei soci di maggioranza o della società, scopo di cui può costituire indizio il perseguimento, da parte degli stessi soci minoritari, di propri interessi extrasociali.”[9].

Le caratteristiche principali dell’abuso del diritto in assemblea risiedono, dunque, in generale, nell’adesione di una parte dei membri della società ad un progetto vessatorio della restante parte dell’azionariato, progetto perseguito, nel caso di abuso della maggioranza, attraverso la strumentalizzazione del criterio maggioritario e, nel caso di abuso della minoranza, attraverso lo sfruttamento delle prerogative attribuite a tali soci a tutela della propria posizione[10].

Ciò premesso, occorre evidenziare che, nell’ambito dell’ordinamento civilistico italiano, non si rinviene una prescrizione normativa che sanzioni espressamente la descritta fattispecie. tuttavia, nonostante l’assenza di un riferimento legislativo, l’annullabilità delle delibere assembleari viziate da abuso del diritto è oramai pacifica in dottrina e in giurisprudenza[11].

Sintetizzando, sul punto, l’orientamento delle Corti di primo grado: “L’abuso  o eccesso di potere è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società – per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale – ovvero sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli”.[12].

L’annullabilità della delibera rappresenta, dunque, il rimedio deputato alla risoluzione dei conflitti endosocietari ove essi si traducano in una contrapposizione tra soci di maggioranza e soci di minoranza destinata a ripercuotersi sulle scelte sociali compiute attraverso il procedimento collegiale.

Occorre, quindi, chiedersi come il vizio dell’abuso del diritto, estraneo al novero delle censure di legittimità che permettono di esperire l’azione di annullamento della delibera in ragione della mancanza di una espressa previsione normativa, possa ugualmente rientrare nel sistema dei vizi che importano la patologia delle decisioni dell’assemblea, sub specie violazione di legge, ai sensi degli articoli 2377-2379ter c.c.[13].

Ciò avviene, in particolare, in assenza di ogni riferimento testuale, attraverso la teorica dell’abuso del diritto, consacrata dalla Corte di cassazione in numerose pronunce[14], teorica che consente di porre alla base del funzionamento dell’assemblea di società di capitali un vero e proprio presidio a tutela degli azionisti: quest’ultimo è formato, come si vedrà meglio nei paragrafi seguenti, dall’esecuzione del contratto societario secondo buona fede e correttezza di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c..

Il divieto di abuso del diritto, infatti, è da tempo ritenuto principio immanente al diritto delle obbligazioni, in attuazione dell’articolo 2 della Costituzione: posto a monte il riconoscimento di un diritto soggettivo in capo al contraente, egli non può esercitarlo a detrimento dei diritti della propria controparte, le cui prerogative nell’ambito del vincolo contrattuale devono essere tutelate alla luce del dovere generale di correttezza e buona fede di cui ai disposti civilistici da ultimo citati[15].

È proprio alla luce di siffatta teoria che è possibile sostenere che: “Per la mancata partecipazione del socio all’assemblea, così come per il voto, non è prevista alcuna motivazione o giustificazione; l’esercizio di tali diritti è, tuttavia, da contenersi nei limiti della buona fede”[16].

L’esercizio scorretto del voto del socio è, dunque, censurabile in virtù della clausola generale di correttezza e di buona fede in executivis, ovverosia nell’esecuzione del contratto, regola che, come anticipato, in materia societaria, assurge vero e proprio a limite funzionale alla discrezionalità di cui gode la maggioranza nell’adottare le scelte più opportune all’esecuzione del contratto di società, scelte le quali non possono pregiudicare i diritti soggettivi degli altri soci e che possono essere annullate nel momento in cui risultino prevaricatrici e pregiudizievoli[17].

Da quanto sinora premesso, emerge, in particolare, che, in caso di abuso della maggioranza,  il confine tra la discrezionalità manageriale e la tutela dei diritti dei soci venga segnato dalla divergenza tra la causa concreta della decisione assembleare e i diritti soggettivi dei soci coinvolti nell’adozione della stessa, divergenza giustificata da un intento meramente vessatorio o emulativo il quale deve aver causato un effettivo pregiudizio per la società[18].

Sostengono i giudici civili: “L’abuso della maggioranza presuppone un conflitto fra soci e lesercizio del  diritto  di  voto in assemblea da parte del socio di maggioranza con lo scopo di ledere linteresse degli altri soci senza che vi sia alcun interesse sociale alladozione della deliberazione [… ].”[19].

Nei fatti, anche se l’opposizione minoritaria all’adozione delle delibere assembleari rappresenta un elemento ben preventivato nell’ambito del procedimento assembleare[20], nell’esecuzione del contratto di società secondo correttezza e buona fede può rinvenirsi un confine, che si erge direttamente rispetto all’azione discrezionale della maggioranza, e a cui presidio sono poste le citate previsioni degli articoli 2377-2379ter c.c., oltre il quale la decisione adottata non può apparire altro che lesiva delle prerogative degli azionisti di minoranza[21].

Lo stesso per tutti i casi in cui, viceversa, sia la minoranza a strumentalizzare i propri diritti di convocazione dell’adunanza e di intervento all’intralcio della corretta gestione dell’impresa societaria, esercitando gli stessi esclusivamente per perseguire obiettivi disgregatori della compagine sociale[22]: è infatti pacifico che “Una minoranza qualificata di soci può legittimamente richiedere che la decisione di nomina dell’amministratore sia assunta con metodo assembleare. La mancata partecipazione all’assemblea e il mancato esercizio di voto da parte del socio non necessitano di alcuna motivazione o giustificazione; tuttavia, l’esercizio di tali diritti deve avvenire nei limiti della buona fede […].”[23].

Nel caso di abuso della minoranza, in particolare, gli estremi dell’abuso del diritto riguarderanno la divergenza tra lo scopo pratico per cui l’ordinamento societario riconosce i diritti di convocazione ed intervento assembleari e le effettive ragioni che spingono la minoranza ad avanzare le proprie richieste, divergenza che si traduce, ad esempio, in domande di convocazione non sufficientemente motivate o del tutto irrazionali[24].

A livello probatorio, al fine di accedere all’annullamento della delibera da parte del giudice adito, nonché al fine di accedere al riconoscimento della tutela risarcitoria da accordarsi per i soci lesi, occorrerà provare l’animus nocendi dei soci maggioritari; il danno prodotto alla residua parte dell’azionariato; e, infine, il nesso causale tra fatto e danno: “[…] L’onere di provare che il socio di maggioranza abbia abusato del proprio diritto di voto grava sul socio di minoranza che assume l’illegittimità della deliberazione.” [25].

 

  1. Rassegna giurisprudenziale: la casistica in tema di abuso della regola di maggioranza.

Premesso quanto sinora riportato e venendo ad un’esegesi della casistica giurisprudenziale in tema di abuso della regola di maggioranza, è opportuno precisare che l’analisi seguente è funzionale, per un verso, ad individuare le operazioni societarie in relazione alle cui deliberazioni sia stata proposta azione di annullamento, con ciò evidenziando come tali fattispecie si prestino ad un utilizzo distorsivo ad iniziativa della maggioranza azionaria; per altro verso, anticipando quanto si dirà in tema di sindacato giudiziale sull’abuso del diritto nelle assemblee di società di capitali[26], l’analisi seguente è funzionale a tratteggiare i profili essenziali del bilanciamento d’interessi che l’interprete è chiamato a compiere, in sede di azione di annullamento della delibera, tra la tutela dei diritti dei soci di minoranza e la discrezionalità imprenditoriale nella gestione societaria.

Sia consentito sin d’ora anticipare i risultati dell’analisi, dal momento che essi appaiono necessari a porre in rilievo alcune peculiarità dei giudizi di annullamento delle delibere viziate da abuso del diritto.

Anzitutto, la declaratoria di annullabilità della deliberazione viziata passa attraverso l’assolvimento dell’onere della prova, del quale si è detto, il quale si basa, anche e soprattutto, sulla complessità della vicenda fattuale che, come susseguitasi nel tempo, dovrebbe risultare già di per sé rivelatrice di comportamenti vessatori della maggioranza[27].

Non a caso, nelle pronunce di merito è sovente dato leggere: “Pertanto, affinché possa configurarsi il vizio denunciato, la delibera dell’assemblea deve apparire da indizi univoci risultanti dal suo contenuto estrinseco, come il risultato di una intenzionale attività preordinata unicamente e fraudolentemente al perseguimento di interessi divergenti da quelli societari e lesivi dei diritti sociali della minoranza.” [28].

Secondariamente, l’azione di annullamento passa anche attraverso l’identificazione dei diritti soggettivi, patrimoniali o amministrativi, dei soci di minoranza, che risultino effettivamente compromessi dalla decisione adottata[29].

In merito, sostengono i giudici di primo grado: “Ai fini dell’invalidità per abuso od eccesso di potere della delibera di aumento di capitale di una s.p.a., la lesione dei diritti del socio di minoranza deve emergere sia sotto il profilo soggettivo – intenzionalità del pregiudizio e consapevolezza del socio di maggioranza di poter sfruttare una situazione di illiquidità del socio minoritario – sia sotto il profilo oggettivo – reale illiquidità del socio di minoranza, sproporzione rilevante tra la sua situazione finanziaria e l’importo da sottoscrivere, nonché sussistenza di un motivo pretestuoso per l’aumento di capitale; in assenza delle predette condizioni la mera situazione di difficoltà finanziaria del socio non costituisce motivo per declarare l’illegittimità della delibera.[30].

Proseguendo, la casistica giurisprudenziale che di seguito si propone mostra, questa volta in stretta attinenza all’oggetto del sindacato giudiziale sulle deliberazioni assembleari, l’assenza di una concezione gerarchica degli interessi sociali, cui fa da corollario l’inesistenza di un principio che imponga la preminenza dell’interesse alla massimizzazione del profitto societario a detrimento dei diritti delle minoranze, i quali divengono, per ciò solo, indisponibili da parte della maggioranza, restandone circoscritta la rinunciabilità soltanto ad iniziativa dei soci stessi[31].

Le tendenze ermeneutiche analizzate ritengono, ad esempio, in tema di distribuzione degli utili e di diritto d’opzione che: “Si tratta proprio di stabilire se la delibera assunta dall’organo assembleare fosse non solo conforme a diritto, ma anche a quanto previsto nello statuto in tema di distribuzione degli utili maturati nell’anno: a tal fine, rileva osservare che la responsabilità degli amministratori consegue non solo in caso di mancato o inesatto adempimento dei doveri loro imposti dalle norme, ma anche dalla mancata osservanza del regolamento contenuto nell’atto costitutivo, che cristallizza i principi di funzionamento interno dell’organizzazione sociale.”[32]; e che “laddove la legge prevede la deliberazione che sacrifichi il diritto di opzione, anche se al solo scopo di azzerare fraudolentemente la partecipazione del socio alla società, dovendosi ritenere che in quest’ultimo caso sia configurabile un eccesso di potere, inteso come violazione del canone di buona fede nell’esecuzione dei rapporti contrattuali, al quale consegue l’annullabilità dell’atto.[33].

Ritornando a quanto anticipato in esordio, occorre, innanzitutto, partire dalla circostanza per la quale l’oggetto di numerose pronunce giudiziarie in tema di abuso del diritto coincide con l’aumento, la riduzione ed il contestuale reintegro del capitale sociale (articoli 2438, 2446 e 2447 c.c.); con lo scioglimento anticipato della società (articolo 2484 c.c.); con la mancata distribuzione degli utili (articolo 2433 c.c.): fattispecie in cui l’esercizio del potere discrezionale della maggioranza, apparentemente connesso alle scelte gestionali della società, sia stato in realtà piegato alle intenzioni fraudolente del gruppo di comando.

Un primo, nutrito, gruppo di pronunce giurisprudenziali ha avuto ad oggetto le delibere di aumento del capitale sociale, adottate ai sensi dell’art. 2438 c.c.[34]: si tratta, in particolare, del caso in cui la maggioranza azionaria, a fronte di un supposto – ma non effettivo – bisogno finanziario della società, nella consapevolezza che i soci di minoranza non possano sottoscrivere ulteriori azioni, anche senza sovrapprezzo, deliberi l’aumento del capitale sociale mirando alla diluizione della partecipazione delle minoranze, unicamente al fine di determinare l’esclusione definitiva dei soci[35].

Quindi, “La deliberazione di una assemblea societaria avente ad oggetto l’aumento del capitale, se frutto dell’intento del socio di maggioranza di realizzare non già l’interesse sociale ma quello personale di uno dei soci (fattispecie relativa alla mancanza di liquidità del socio di minoranza tale da impedirgli di sottoscrivere l’aumento, così da diluirne la partecipazione sociale) è viziata perché non presa in conformità dell’art. 2377 c.c., ma in violazione del principio di correttezza, da intendersi come comportamento leale, tale da non far prevalere interessi personali, estranei al rapporto sociale, per danneggiare gli altri soci.”[36], sostengono i giudici di prime cure.

Nei casi in discorso, il confine tra la discrezionalità societaria nel deliberare l’aumento di capitale e la tutela delle minoranze assembleari, posto l’interesse di queste ultime a mantenere la redditività delle proprie partecipazioni, è parso estremamente labile[37]: l’aumento del capitale sociale è, anzitutto, decisione d’opportunità, da potersi prendere ogniqualvolta la società avverta il bisogno di liquidità finanziaria, cui cerca di ricorrere evitando l’indebitamento esterno, così come l’opposizione del socio di minoranza è esigenza fisiologicamente connessa alla sua posizione nell’ambito della compagine e, nei fatti, anche ratio giustificatrice del principio maggioritario in sede collegiale[38].

Ciononostante, “La deliberazione di aumento di capitale è annullabile per abuso di potere e violazione del principio di correttezza nei rapporti fra i soci, ove essa risulti adottata, in assenza di valide ragioni economiche, allo scopo evidente di conculcare i diritti di partecipazione della minoranza. La sospensione dell’efficacia della delibera può essere disposta nonostante l’avvenuta esecuzione della stessa, con effetto limitato alla salvaguardia della posizione corporativa dei soci di minoranza.[39].

La casistica mostra che l’azione di annullamento della delibera, in tali casi, abbia avuto esito positivo soltanto in seguito alla prova, fornita alla stregua della vicenda fattuale come susseguitasi nel tempo, dell’atteggiamento vessatorio della maggioranza ai danni dei restanti soci, comportamento del quale la delibera assembleare andava a rappresentare soltanto un ulteriore, illegittimo, tassello[40], non essendo sufficiente ricavare la prova dell’abuso alla stregua della semplice diseconomia od estemporaneità della deliberazione ovvero del disincentivo per i soci di minoranza[41]

Quindi: “Sulla base delle considerazioni svolte, la pretesa attorea non può che essere qualificata come azione di annullabilità di delibera viziata da eccesso di potere; quanto a tale pretesa, così qualificata, essa va rigettata in quanto non vi è alcuna prova specifica agli atti di un accordo dei soci di maggioranza diretto a concentrare nelle proprie mani la disponibilità del capitale sociale, con conseguente riduzione della partecipazione percentuale dei soci di minoranza; né alcuno degli elementi sintomatici addotti da parte attrice può considerarsi una significativa prova del vizio denunciato. Pertanto, è del tutto irrilevante e non significativo il dato denunciato della omessa indicazione dell’aumento del capitale sociale nell’ordine del giorno comunicato per la convocazione dell’assemblea straordinaria, risultando palesemente agli atti che l’aumento del capitale è espressamente inserito nella convocazione di cui trattasi.[42].

Dicasi lo stesso per il caso in cui vi sia da provvedere in sede cautelare: “Ricorrono i presupposti richiesti ex art. 2378 c.c. ai fini della sospensione dell’esecuzione della delibera assembleare impugnata, sia sotto l’aspetto del “fumus boni iuris”, come preordinazione dell’aumento di capitale all’estromissione del socio di minoranza, sia per quanto riguarda il “periculum in mora”, poiché, pur avendo già avuto attuazione, la delibera continua a manifestare una  perdurante efficacia come diretta incidenza rispetto all’organizzazione societaria e alle posizioni dei soci.” [43].

Un secondo gruppo di casi in cui le minoranze azionarie hanno denunciato l’abuso del diritto di voto espresso dai soci di maggioranza in assemblea, ricomprende le decisioni di riduzione del capitale sociale di cui all’art. 2447 c.c., ove deliberate sulla base di bilanci non veritieri o falsati, al solo scopo di azzerare la partecipazione azionaria della minoranza[44].

L’art. 2447 c.c., come noto, provvede in merito al caso in cui la società registri, nella propria situazione finanziaria, una perdita la cui entità causi la diminuzione del capitale sociale al di sotto del minimo stabilito all’art. 2327 c.c., prevedendo la convocazione senza indugio dell’assemblea – ad iniziativa degli amministratori o dei sindaci, nel caso di inerzia dei primi – al fine di deliberare la riduzione ed il contestuale reintegro del capitale in misura superiore al minimo di legge.

 “Il problema posto […] può sintetizzarsi nei termini seguenti: se l’assemblea straordinaria di una società per azioni, il cui capitale sia ridotto, per perdite, al di sotto del minimo legale, possa deliberare la riduzione ed il contemporaneo aumento del capitale stesso ad una cifra superiore al detto minimo, rispettando il diritto di opzione dei soci sulle azioni “a pagamento” di nuova emissione ma sacrificando il diritto di opzione di alcuni soci su un aumento di capitale precedentemente deliberato e per il cui esercizio era ancora pendente il termine all’uopo stabilito.”[45].

Procedendo nell’esegesi della casistica giurisprudenziale, talune pronunce di legittimità hanno avuto ad oggetto l’impugnativa di delibere di scioglimento anticipato della società ai sensi adottate ai sensi dell’art. 2484 c.c., ove le stesse risultassero sospettosamente preordinate all’esclusione di membri dalla società, circostanza dedotta, ad esempio, dalla successiva, immediata, ricostituzione dell’ente senza il socio di minoranza[46]: “È annullabile per abuso od eccesso di potere la delibera di scioglimento di una società che, seppur adottata nelle forme legali e con le maggioranze all’uopo prescritte, ed in difetto delle ragioni tipiche previste dagli art. 2377 e 2379 c.c., risulti arbitrariamente e fraudolentemente preordinata al perseguimento da parte dei soci di maggioranza, di interessi divergenti da quelli societari, ovvero lesivi del singolo socio. In tal caso costituisce onere di chi impugna la delibera dimostrare, con idonei mezzi di prova, la sussistenza dell’abuso o dell’eccesso.[47].

In casi di siffatto tenore, la giurisprudenza ha ritenuto che i motivi che potessero aver indotto la maggioranza azionaria ad approvare lo scioglimento della società non fossero sindacabili nel merito, dovendo limitarsi il controllo dell’autorità giudiziaria a verificare la sussistenza in concreto di almeno una delle cause che, ai sensi dell’articolo 2484 c.c., legittimassero l’operazione, a nulla valendo che la stessa non rispondesse alle complementari esigenze della minoranza dissenziente ovvero ad un presunto interesse della società alla sua conservazione[48].

In merito, i Giudici di Piazza Cavour hanno sostenuto che: “La deliberazione di scioglimento di una società dai soci nelle forme legali e con le maggioranze all’uopo prescritte, può essere annullata, in difetto delle ragioni tipiche previste dagli art. 2377-2379 c.c., per abuso od eccesso di potere, nelle ipotesi in cui risulti arbitrariamente e fraudolentemente preordinata al perseguimento, da parte di soci di maggioranza, di interessi divergenti da quelli societari, ovvero alla realizzazione di scopi lesivi del singolo partecipante, mentre, al di fuori di tali ipotesi, resta preclusa ogni possibilità di sindacato giurisdizionale in ordine ai motivi che hanno indotto la maggioranza dei soci ad adottare deliberazioni siffatte. Tuttavia, in queste ipotesi, costituisce preciso onere di chi impugna la deliberazione dimostrare, con idonei mezzi di prova, la sussistenza dell’abuso o dell’eccesso di potere denunziato, perché possa dispiegarsi il predetto sindacato del giudice.[49].

Fattispecie altrettanto problematica, oggetto di talune decisioni sia di merito che di legittimità, è quella della deliberazione di mancata distribuzione degli utili tra i soci, in assenza di una ragione che effettivamente ne giustificasse l’accantonamento a riserva: in tali casi, le Corti hanno più volte ritenuto che “Rientra nei poteri dell’assemblea la facoltà di disporre la ripartizione degli utili ovvero di destinarli ad altro impiego o di differirne la distribuzione. L’illegittimità della decisione con cui si dispone di non distribuire gli utili è ravvisabile soltanto se riconducibile a iniziative della maggioranza finalizzate all’acquisizione di posizioni di vantaggio a danno degli altri soci.[50].

Non solo, ma è stato sovente affermato che l’onere della prova gravante sull’attore investisse anche la ratio dell’accantonamento degli utili a riserva, posta a monte la circostanza che il diritto alla distribuzione di cui all’articolo 2433 c.c., è prerogativa che spetta a tutti i soci e che non può in alcun modo essere sacrificata, soprattutto in luogo del conseguimento e consolidamento di una posizione di potere da parte della maggioranza in danno dei restanti soci: “Anche nelle società a responsabilità limitata (nel vigore della disciplina dettata dal codice civile del 1942, anteriormente alla riforma di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) non è configurabile un diritto del socio agli utili senza una preventiva deliberazione assembleare in tal senso, rientrando nei poteri dell’assemblea – in sede approvativa del bilancio – la facoltà di disporne l’accantonamento o il reimpiego nell’interesse della stessa società, sulla base di una decisione censurabile solo se propria di iniziative della maggioranza volte ad acquisire posizioni di indebito vantaggio a danno degli altri soci cui sia resa più onerosa la partecipazione.[51].

Al di là di siffatte ipotesi, si riscontrano decisioni in tema di concordato fallimentare e di nomina di un nuovo Consiglio di amministrazione immediatamente precedente all’acquisto parcellizzato, risultante da patto parasociale non comunicato, di pacchetti azionari di società quotata oggetto di O.P.A.[52].

Il primo caso, in particolare, riguarda l’abuso della regola di maggioranza nel voto espresso dal comitato dei creditori, funzionale all’avvio della procedura ex articolo 125 L.F., ove esso abbia determinato modalità di risoluzione della crisi d’impresa basate su un’eccessiva sproporzione tra effetto espropriativo della procedura fallimentare ed obbligazioni assunte dal fallito[53].

Sul punto la giurisprudenza di legittimità è apparsa decisa nell’affermare che: “Il principio dell’abuso del diritto – fondato sulla tutela degli strumenti predisposti dal nostro ordinamento nei limiti in cui il loro impiego è conforme alle finalità perseguite, senza procurare a chi li utilizza un vantaggio ulteriore e nei confronti di chi li subisce un danno maggiore rispetto a quello strettamente necessario – pur essendo applicabile allo strumento concordatario, non è individuabile nella violazione della par condicio creditorum, sia che nella proposta non siano state previste classi di creditori, sia che queste manchino.[54].

A parere della giurisprudenza, il Tribunale investito del giudizio di omologa sul concordato fallimentare, in seguito ad opposizione presentata dal fallito ai sensi dell’articolo 129, comma 3, L.F., deve verificare che esso sia ispirato ad un effettivo ed equo contemperamento di interessi tra diritti dei creditori e del debitore. Ove risulti che l’accordo con i primi vada a pregiudicare sensibilmente quella porzione di patrimonio che rimarrebbe indenne dalla procedura, imponendo al debitore un sacrificio ed un danno eccessivo rispetto a quanto sarebbe sufficiente a soddisfare i creditori, il Tribunale adito può rifiutare l’omologa dell’accordo[55]: si ritiene, sul punto che “Il controllo demandato al tribunale in sede di omologazione del concordato fallimentare, nell’ipotesi di opposizione da parte del fallito (destinata ad evitare che l’accordo tra i creditori ed il terzo finisca per espropriare i propri beni in misura sproporzionata rispetto alle obbligazioni contratte) deve essere ispirato ai principi normativi che disciplinano il processo di esecuzione forzata nonché agli insegnamenti della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, diretti ad impedire la rottura dell’equilibrio tra interesse generale al pagamento dei creditori del fallimento e quello del ricorrente al rispetto dei suoi beni nonché la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo.[56].

Con riferimento all’azione di invalidità della delibera di nomina di un nuovo consiglio di amministrazione, di poco precedente un acquisto concertato di pacchetti azionari di società quotata oggetto di O.P.A., previsto in un patto parasociale non comunicato né pubblicato[57] – operazione già sanzionata alla luce degli articoli 105, comma 2, 106, comma 3, l. a) e 109 T.U.F, dalla CONSOB – la giurisprudenza ha ritenuto di dover annullare la delibera di nomina degli amministratori e di sostituire il nuovo c.d.a. con un curatore speciale ex articolo 78 c.p.c., stante a monte una situazione di conflitto d’intessi tra l’azionariato complessivamente considerato ed il presidente del c.d.a. medesimo[58]. Ebbene: “In caso di impugnazione di delibera assembleare mediante la quale si è provveduto alla nomina dei componenti il Consiglio di amministrazione della società stessa, sussiste un conflitto d’interesse tra il soggetto rappresentato, la società, e il soggetto rappresentante, il Presidente del consiglio stesso, che legittima alla nomina di un curatore speciale ai sensi e per gli effetti dell’art. 78 c.p.c.”,  e ancora “Per la configurabilità del conflitto di interessi ex art. 78 comma 2 c.p.c. è sufficiente che i rispettivi interessi del rappresentante e del rappresentato siano anche solo potenzialmente antitetici, dovendosi compiere la relativa verifica in astratto ed ex ante in relazione alla oggettiva esistenza della materia del contendere.”[59].

Concludendo, alle ipotesi sopra considerate, si aggiungono quelle di delibere modificative dello statuto societario relativamente alla riformulazione dei criteri di determinazione del valore della partecipazione del socio in caso di recesso, o di abbassamento dei quorum dell’assemblea straordinaria necessari all’azione di responsabilità contro gli amministratori o, proseguendo nella casistica, di inserimento di una clausola di prelazione impropria e contestuale esclusione del diritto di recesso ex art. 2437, comma 1, l. e), c.c.[60]:

Circa il caso di delibere modificative dello statuto societario relativamente alla riformulazione dei criteri di determinazione del valore della partecipazione del socio in caso di recesso, le pronunce di merito intervenute in materia ritengono che: “È legittima e non contrasta con alcuna norma imperativa la deliberazione dell’assemblea straordinaria che introduca nello statuto una disciplina convenzionale del diritto di recesso che individui criteri per la liquidazione della quota migliorativi rispetto alla previsione normativa”; “È annullabile per abuso di potere la deliberazione con la quale il socio di maggioranza modifichi lo statuto della società introducendo un criterio di determinazione del valore delle azioni del socio recedente diverso da quello legale, qualora tale delibera sia stata adottata nell’imminenza dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 6 del 2003 al solo scopo di impedire il verificarsi della causa di recesso di cui al nuovo art. 2437, lettera f), c.c. e l’applicazione dei criteri di liquidazione della quota previsti dall’art. 2437 ter c.c..[61].

 

  1. La casistica giurisprudenziale sull’abuso della minoranza.

La casistica giurisprudenziale in tema di abuso della minoranza conferma che la fattispecie comprende, prevalentemente, le ipotesi di abuso del diritto di voto in assemblea, quali la reiterata manifestazione di voto contrario (c.d. “minoranza di blocco”), nonché, ove indirizzate a generare la paralisi dell’attività sociale, le ipotesi di abuso degli strumenti di tutela attribuiti ai soci di minoranza a presidio della propria posizione: in particolare, rientrerebbero in tale ultima categoria, l’abbandono dell’assemblea in sede deliberante; l’esercizio scorretto del diritto di intervento in assemblea; l’eccesso nel diritto di discussione[62].

I presupposti dell’abuso della minoranza sono stati già da tempo delineati nelle pronunce delle corti di merito e, a far da cornice agli orientamenti pretori, da definirsi certamente granitici in merito, vi è l’idea secondo la quale l’abuso della minoranza si basi sulla finalizzazione delle prerogative di tali soci ad un obiettivo differente rispetto alla reale ratio dei diritti sociali loro attribuiti, ovverosia la propria tutela rispetto all’assunzione delle decisioni da parte di chi detiene la prevalente parte del capitale sociale [63].

In tema di abuso del diritto di voto sub specie reiterata manifestazione di voto contrario (minoranza di blocco), ad esempio, risulta che la giurisprudenza di merito ritenga: “Per potersi qualificare come abusivo il voto contrario del socio di minoranza a una delibera di aumento di capitale non è sufficiente che l’aumento di capitale fosse giustificato o giovevole per la società, ma è necessario che il socio abbia scorrettamente esercitato il diritto di voto, sconfinando in un arbitrio dannoso per gli altri soci e per la società.“[64].

Passando in rassegna i precedenti emerge plasticamente, dunque, come la reiterata manifestazione di voto contrario possa rappresentare una violazione degli articoli 1175 e 1375 c.c. e, quindi, del canone di buona fede e correttezza, e ipoteticamente condurre alla paralisi dell’organo collegiale ove essa nasconda un intento di sabotaggio e di intralcio allo svolgimento dell’attività assembleare: nei casi più gravi tale circostanza può portare, impedendo il raggiungimento dei quorum necessari alla valida costituzione dell’assemblea, ovvero, attraverso la continua espressione di un voto negativo, impedendo l’adozione delle decisioni, anche allo scioglimento della società per impossibilità di funzionamento dell’assemblea (articolo 2484, c. 1, n. 3, c.c.)[65].

Sull’abuso degli strumenti di tutela attribuiti ai soci di minoranza (abbandono dell’assemblea in sede deliberante; esercizio scorretto del diritto di intervento in assemblea; eccesso nel diritto di discussione), invece, i giudici di primo grado si sono di recente espressi affermando che; “Qualora venga eccepita la natura abusiva dell’esercizio, da parte della minoranza, delle prerogative statutarie riconosciutele, è onere della società dimostrare la strumentalità di siffatto esercizio e, quindi, di provare che la minoranza ha agito allo scopo di ledere diritti o interessi sociali dei soci di maggioranza o della società; rispetto a siffatta dimostrazione, ha valore indiziario il perseguimento, da parte dei soci di minoranza, di interessi extrasociali.”[66].

In merito, può anzitutto affermarsi che il perseguimento di interessi extrasociali richiami di sicuro alla mente il conflitto di interesse, il quale risulta conseguentemente applicabile anche alla fattispecie di abuso della minoranza: “Perché sussista un vizio della delibera rilevante ex art. 2373 c.c., occorre che vi sia un rapporto di incompatibilità tra l’interesse della società e quello del socio tale per cui, approvata la delibera (o in caso di delibera negativa: rigettata la proposta di delibera), l’interesse della società verrebbe sacrificato e quello del socio verrebbe soddisfatto.”[67].

Anche all’ipotesi di abuso della minoranza, quindi, può estendersi quanto ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità in materia di conflitto d’interesse: “Ai fini dell’annullamento per conflitto di interessi ai sensi dell’art. 2373 c.c., è essenziale che la delibera sia idonea a ledere l’interesse sociale, inteso come l’insieme di quegli interessi che sono comuni ai soci, in quanto parti del contratto di società, e che concernono la produzione del lucro, la massimizzazione del profitto sociale [ ovverosia del valore globale delle azioni o delle quote ], il controllo della gestione dell’attività sociale, la distribuzione dell’utile, l’alienabilità della propria partecipazione sociale e la determinazione della durata del proprio investimento. Pertanto, si ha conflitto di interessi rilevante quale causa di annullabilità delle delibere assembleari quando vi è, di fatto, un conflitto tra un interesse non sociale e uno qualsiasi degli interessi che sono riconducibili al contratto di società.[68]”.

Ciò detto, è ora possibile soffermarsi sul tema dell’abuso del diritto alla convocazione dell’assemblea ex articolo 2367 c.c., dal momento che la casistica in materia risulta particolarmente interessante.

Occorre premettere che il legislatore della riforma del diritto societario del 2003, prendendo atto delle pronunce intervenute sul tema, ha previsto, al comma 2 del disposto normativo da ultimo citato, a proposito dell’intervento suppletivo del Tribunale adito nell’inerzia degli organi sociali, ovvero in caso di rifiuto della convocazione espresso da questi ultimi, che “il tribunale, sentiti i componenti degli organi amministrativi e di controllo, ove il rifiuto di provvedere risulti ingiustificato, ordina con decreto la convocazione dell’assemblea, designando la persona che deve presiederla”[69].

In particolare, il caso è quello in cui, convocata l’assemblea su richiesta dei soci, a norma dell’articolo 2367 c.c., gli amministratori abbiano negato la seduta poiché, a fronte di una valutazione di merito della richiesta avanzata, essa sia apparsa meramente dilatoria ed ostruzionistica, preordinata esclusivamente ad ostacolare il corretto svolgimento della vita societaria[70].

È pacifico in dottrina che a fronte della richiesta di convocazione ex articolo 2367 c.c. gli amministratori possano valutare, non soltanto la correttezza formale della stessa e, dunque, la sussistenza di tutti i presupposti richiesti dalla legge, ma possano spingersi ad un’analisi del merito della richiesta avendo, pertanto, il potere di respingerla nel caso di infondatezza[71].

Optando per questa soluzione, la giurisprudenza riconosce da tempo che: “La norma prevista dall’art. 2367 c.c. deve interpretarsi in senso compatibile con la tutela dell’interesse sociale ed in modo da prevenire il rischio che venga assunta una deliberazione viziata sin dall’origine del procedimento di convocazione, riconoscendo che va negata l’esistenza di un diritto del socio di minoranza alla convocazione dell’assemblea quando vi sia il fondato sospetto che il rimedio prescelto venga strumentalmente impiegato in danno della società e per finalità contrastanti con quelle garantite dalle prescrizioni di legge. Ne consegue che gli amministratori hanno il dovere di non accedere a richieste che possano risultare illegittime, immotivate o inutilmente ripetitive e pretestuose o che possano con probabilità dare vita a situazioni e deliberazioni capaci di recare danno alla società.” [72].

Agli amministratori spetta, dunque, il dovere di valutare se gli argomenti posti alla base della richiesta abbiano urgenza di essere trattati e, in caso di risposta affermativa, quale urgenza li accompagni, ben potendo respingere la richiesta ricevuta se essa si riveli esclusivamente idonea ad intralciare la gestione societaria: il diritto di convocazione dell’assemblea, in definitiva, quando non sia diretto a realizzare lo scopo per il quale esso è stato attribuito al proprio titolare, dunque tutelare la voice dei soci, può essere censurato quale esecuzione in mala fede del contratto societario se ne venga dimostrata la strumentalizzazione a fini dilatori o di mero disturbo[73].

Non a caso, la giurisprudenza ritiene che “Il dovere di convocare l’assemblea, che fa carico agli amministratori nel caso previsto dall’art. 2367 c.c., non rappresenta un’automatica necessaria conseguenza della formulazione della richiesta di convocazione stessa da parte della minoranza qualificata, ma sorge nel solo caso in cui i temi sui quali si sollecitano il dibattito e la votazione appartengono alla competenza dell’assemblea e non ineriscono ad interessi illeciti o impossibili.[74].”

 

  1. Il sindacato giudiziale sulle delibere viziate da abuso del diritto.

Da quanto riportato ai precedenti paragrafi, emerge che il sindacato giudiziale sull’abuso del diritto in materia societaria si innesti su due proposizioni principali: la prima, inerente la verifica circa la violazione dei doveri di correttezza e buona fede ai sensi degli articoli 1175 e 1375 c.c.; la seconda inerente l’identificazione del diritto di minoranza leso in caso di abuso del principio maggioritario.

Certamente, il sindacato giudiziale si caratterizza anzitutto per essere un giudizio di legittimità deputato a verificare, in concreto, se il voto espresso dal socio in assemblea abbia violato o meno il principio di correttezza e di buona fede e se abbia leso o meno i diritti degli altri soci: è opinione pacifica, infatti, che l’esame giudiziale della deliberazione impugnata non possa spingersi sino al merito delle scelte societarie adottate con la delibera stessa.

Dunque, “Il giudice non controlla l’opportunità o la convenienza della delibera impugnata, ma deve stabilire solo che essa sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell’organo deliberante” [75].

Sebbene, quindi, il giudizio in punto di validità del deliberato assembleare investa molteplici profili, tutti oggetto dell’onere probatorio a carico dell’attore che impugna la delibera, esso non può mai travalicare il confine della discrezionalità imprenditoriale, elemento, quest’ultimo, posto a primigenio fondamento delle iniziative e delle scelte operative e gestionali della società[76].

Nei fatti, come emerso dall’analisi dottrinale ed interpretativa sinora condotta, l’abuso di maggioranza o l’abuso di minoranza sono fattispecie estremamente complesse che esigono una prova non semplice: la prova dell’abuso, infatti, coinvolge, in particolare, le intenzioni fraudolente della maggioranza o della minoranza, circostanza che determina il vizio causale della delibera, al di là della correttezza formale e della apparente validità della decisione medesima[77].

Dunque, l’autorità giudiziaria, sebbene non possa estendere il proprio sindacato al merito della delibera, può, e deve, in ogni caso, verificare che sia provata la mancanza di “congruità dell’atto rispetto all’intenzione di chi lo compie”[78], condizione che sussiste quando la maggioranza azionaria non abbia agito anche a tutela dei diritti della propria controparte di minoranza nonché quando la minoranza azionaria abbia sfruttato i propri diritti a scopo vessatorio.

Trattandosi di un indagine che, inevitabilmente, finisce per incardinarsi sull’esame degli interessi in gioco nel deliberato impugnato (interessi della compagine societaria, interessi della maggioranza e interessi della minoranza), è necessario tracciare una linea di confine tra ciò che il giudice possa effettivamente valutare ai fini dell’azione di annullamento e ciò che, invece, possa propriamente definirsi discrezionalità imprenditoriale e che, come tale, deve essere esente da ogni valutazione di merito.

In proposito, può leggersi nella giurisprudenza dei Tribunali: “Sussiste il profilo dell’abuso o eccesso di potere, quando la decisione risulti arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci maggioritari per perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero per ledere i diritti del singolo partecipante (come nel caso in cui lo scioglimento sia indirizzato soltanto all’esclusione del socio), mentre, all’infuori di tali ipotesi, resta preclusa ogni possibilità di sindacato in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla suddetta decisione.”[79].

Conseguentemente, si comprende come l’esame giudiziario della decisione impugnata, funzionale all’eventuale annullamento della stessa in quanto viziata da abuso del diritto debba, in definitiva, risolversi in un esame della lesione dei diritti sociali coinvolti nella decisione sociale, rimanendone, viceversa, estranea qualunque eccezione in punto di ponderazione della opportunità e della convenienza della decisione adottata rispetto all’economia della gestione sociale[80].

È proprio nelle menzionate discrezionalità e convenienza, infatti, che consiste la discrezionalità imprenditoriale, alla quale è connessa l’operatività del principio di maggioranza il quale, a sua volta, nell’ambito del diritto societario, è di per sé funzionale alla formazione della volontà sociale, processo, quest’ultimo, entro cui il dissenso della minoranza rappresenta un fisiologico ingranaggio e il quale consente, in estrema sintesi, di imporre la scelta raggiunta dalla maggioranza dei soci[81].

È chiaro, dunque, che il gioco “rischio-interessi” di cui sono parte la maggioranza e la minoranza societarie rappresenti un vero e proprio limite interno al sindacato giudiziale sull’abuso del diritto in materia societaria: se ne deduce che tale sindacato potrà avere ad oggetto esclusivamente i comportamenti della maggioranza che, del tutto estranei al contesto di riferimento, risultino prevaricatori e lesivi dei diritti di minoranza, ciò comportando un danno effettivo alla stessa[82].

Sono questi ultimi, infatti, i comportamenti che non possono definirsi espressivi di discrezionalità imprenditoriale.

Non mancano nella giurisprudenza di merito pronunce che meglio riassumono quanto sinora riportato: “In caso di rifiuto da parte degli amministratori di società per azioni di provvedere alla convocazione dell’assemblea richiesta dai soci ai sensi dell’art. 2367 cod. civ., il tribunale deve verificare soltanto l’esistenza di alcuni profili formali e sostanziali, quali la legittimazione del socio richiedente, la correttezza procedurale dell’istanza, l’assenza di abuso manifesto e la liceità e la possibilità di deliberare sugli argomenti indicati dal socio[83].

Appare dunque chiaro come, l’opportunità e la convenienza di quanto deliberato nel procedimento assembleare, possano però in ogni caso rappresentare il mezzo attraverso il quale desumere il vizio denunciato, ma non lo scopo ultimo del sindacato giudiziale, che si arresta laddove non sia stato dimostrato che il comportamento di cui si deduce l’illegittimità rientri in un più ampio disegno dei soci, vessatorio dei diritti dei restanti azionisti, non finalizzato al conseguimento dello scopo sociale e, dunque, estraneo alla causa del contratto di società.

Il confine tra discrezionalità imprenditoriale e abuso del diritto, infatti, è labile, se considerato in generale e senza riferimenti a tutte le specifiche circostanze del caso concreto, come dimostra, del resto, anche l’analisi ermeneutica condotta nel paragrafo precedente e, conseguentemente, l’oggetto dell’indagine giudiziale può, come evidente, apparire non perfettamente delineabile.

È sinora emerso infatti che, sebbene sia, ad oggi, un punto fermo dell’ordinamento giuridico il principio in base al quale la delibera viziata da abuso del diritto possa essere annullata, la prassi delle Corti ha sovente associato al riscontro del vizio soprattutto la verifica di una situazione di palese conflittualità tra i soci, rinvenendo in quest’ultima un importante indice probatorio del vizio medesimo[84]: pertanto, l’oggetto del sindacato giudiziale sull’abuso del voto si innesta prevalentemente su una prima proposizione fondamentale, ovverosia l’esercizio scorretto ed in mala fede dell’omonimo diritto.

Il giudice sarà chiamato, in definitiva, a circoscrivere la propria indagine a tale profilo, vale a dire che il voto espresso dal socio in assemblea sia stato esercitato in conformità ai principi di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. e che non sia derivato danno alcuno ai soci di minoranza: quindi, il voto sarà stato esercitato in buona fede se la scelta operativa adottata dalla maggioranza abbia imposto ai diritti soggettivi dei soci di minoranza un sacrificio proporzionale alla causa concreta della delibera che contiene la menzionata scelta[85].

Viceversa, risulteranno contrarie all’interesse sociale le delibere che riproducano una delle figure sintomatiche della violazione del dovere di buona fede in executivis, già elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza civilistica: assumeranno primario rilievo l’inosservanza dei doveri di avviso e di informazione della controparte; l’inosservanza dei doveri di  cooperazione; l’inosservanza dei doveri di salvaguardia e di tutela nella realizzazione dei propri e degli altrui interessi contrattuali.

Ad esempio, circa i diritti d’informazione, la giurisprudenza sostiene che “Il diritto di richiedere il differimento dell’assemblea di una società per azioni ha natura potestativa, in quanto serve ad assicurare ai soci una maggiore informazione sui temi all’ordine del giorno e può determinare in caso di mancato rinvio, l’annullabilità della delibera adottata. Tale qualificazione giuridica del diritto, tuttavia, non comporta l’assoluta insindacabilità della dichiarazione d’insufficienza informativa, fondante la richiesta, essendo configurabile, come limite esterno al suo esercizio, l’abuso del diritto nell’ipotesi in cui la richiesta sia stata dettata da un fine, in concreto, del tutto incoerente rispetto a quello per il quale la relativa facoltà è attribuita dalla norma codicistica.[86]”.

Così definita la prima delle due proposizioni entro cui si articola la valutazione del giudice, occorre aggiungere, a questo punto dell’esame giudiziario, la seconda imprescindibile proposizione, cui è stato più volte accennato: a sugello dell’annullabilità della deliberazione, riscontrato il comportamento scorretto del socio, occorrerà espletare anche la verifica circa il danno subito dai soci di minoranza.

In tal senso, il giudice dovrà appurare se la disciplina normativa dettata a tutela della voice delle minoranze azionarie e dei singoli soci delle società di capitali sia stata o meno lesa dalla deliberazione fraudolenta[87].

Egli passerà in rassegna, quindi, in base alla vicenda concretamente verificatasi e posta alla sua attenzione, il catalogo delle posizioni soggettive a tutela delle minoranze assembleari per verificarne la lesione.

Suddetto catalogo il quale si compone di varie fattispecie a seconda del tipo di società di capitali che viene in rilievo, fattispecie sintetizzabili come di seguito riportato.

Nell’ambito delle società per azioni, la prima prerogativa la cui lesione dovrà essere verificata dal giudice è quella del principio di eguaglianza degli azionisti di cui all’articolo 2348 c.c., il quale sancisce la parità di tutti gli azionisti sottoscrittori di determinate porzioni del capitale sociale, ai quali spettano pari diritti d’intervento nella gestione societaria, diritti finalizzati alla conservazione del valore del proprio conferimento e della quota di potere gestionale derivante dal numero di azioni possedute[88].

Con il disposto codicistico da ultimo citato, si coordinano l’articolo 2373 c.c., in tema di conflitto d’interesse, così come le norme in tema di percezione dei dividendi (articolo 2433 c.c.), di variazione del capitale sociale (articoli 2438 e 2445 ss. c.c.), di recesso del socio (articolo 2437 c.c., di recente modificato dal D.Lgs. 2 marzo 2023, n. 19), di scioglimento della società (articolo 2484 c.c.), di diritto alla convocazione dell’assemblea (articolo 2367 c.c.), di intervento (articolo 2370 c.c.), di ispezione (articolo 2422, comma 1, c.c.) dalle quali è possibile trarre la rilevanza di particolari categorie di interessi – alla massimizzazione del profitto sociale – e di particolari categorie di diritti dei soci – alla remunerazione del proprio apporto di capitale; alla conservazione della redditività di quest’ultimo; alla determinazione del grado di rischio e di durata della partecipazione alla vita sociale – che non possono mai essere compressi dall’adozione delle deliberazioni assembleari, neanche in nome della discrezionalità societaria[89].

Nell’ambito delle società a responsabilità limitata, invece, la tutela dei soci di minoranza è sensibilmente più ampia, dal momento che la riforma del diritto societario del 2003 ha inteso potenziare i poteri gestionali dei soci di s.r.l. accordando loro un’ampia partecipazione alla amministrazione della società (si vedano, ad esempio, l’articolo 2475 c.c., di recente modificato dal D.Lgs. 8 novembre 2021, n. 183 o, ancora, l’articolo 2468 c.c., comma 3, ove permette l’attribuzione di particolari diritti di amministrazione a singoli soci) nonché ampi diritti di voice (articolo 2479 c.c., in tema di decisioni dei soci), ampliandosi, dunque, di conseguenza, anche i confini della discrezionalità insindacabile in sede di impugnazione[90].

Nelle società quotate, la tutela dei soci di minoranza è realizzata attraverso strumenti di tutela patrimoniale (quali l’O.P.A. obbligatoria, di cui agli articoli 102-112 TUF; gli obblighi di comunicazione del possesso azionario, di cui all’articolo 120 TUF, modificato dal D.L. 8 aprile 2020, n. 23; limiti agli incroci azionari, articolo 121 TUF), nonché attraverso il riconoscimento in capo ai soci di diritti di ispezione (articolo 2422, comma 1, c.c.), di informazione preassembleare ed in assemblea (articolo 130 TUF), di nomina di un consigliere di minoranza (articolo 148 TUF), prerogative che vanno a formare l’ambito dal quale la discrezionalità della maggioranza può essere estromessa se funzionale alla compressione delle stesse prerogative elencate.

La violazione degli anzidetti disposti avrà certamente causato un danno ai soci di minoranza, circostanza che potrà quindi condurre all’annullamento della delibera pregiudizievole.

In chiusura, occorre riportare che, particolarmente significativo, è in profilo della motivazione della sentenza di annullamento del deliberato, motivazione la quale deve essere tale da permettere l’individuazione “dell’effettiva ratio decidendi che ha portato all’annullamento “in blocco” di tali delibere rende meramente apparente la motivazione della sentenza impugnata.[91]”.

La più recente giurisprudenza di legittimità ritiene, in merito: “Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture.[92]”.

 

 

 

[1] In Giur. It., 2022, 4, con nota di PETRITAJ, La responsabilità della capogruppo e l’abuso del diritto del socio di maggioranza. La pronuncia più recente del Giudice di legittimità, resa non in materia di società di capitali bensì in materia di consorzi, è la sentenza Cass. civ., Sez. Unite, Ord. 30/01/2023, n. 2767: “È applicabile anche ai consorzi tra Comuni l’abuso della regola di maggioranza (altrimenti detto abuso o eccesso di potere) che è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse del consorzio – per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei Comuni di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello consortile – oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei membri maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti a quelli di minoranza “uti singuli”. L’onere di provare che la maggioranza abbia abusato del proprio diritto di voto grava sul consorziato di minoranza che assume l’illegittimità della deliberazione.”. Di recente in dottrina Attanasio, Una particolare ipotesi di abuso della regola della maggioranza: la delibera elusiva di sentenza sfavorevole, in Le Società n. 3/2019, 341; Zammitti, Modificazioni di quorum deliberativi e abuso di maggioranza nella disciplina delle S.R.L., in Le Società, 2019, 6, 675; Morello, Il trasferimento di partecipazioni. Interpretazione e abuso del diritto, in Notariato n. 2/2019, 132; Zammitti, Il principio di correttezza e buona fede come limite all’abuso di maggioranza, in Le Società, 2016, 7, 835; Di Bitonto, Delibere assembleari negative (profili sostanziali e processuali) – Abuso del diritto di voto a carattere ostruzionistico (c.d. “delibere negative”): profilli sostanziali, in Le Società, 2015, 6, 689.

 

[2] In Il Foro Italiano, 1951, con nota di Scialoja, Sui poteri del giudice nel procedimento di impugnazione di deliberazioni assembleari di società (Oss. a sent. Cass., 12 maggio 1951, n. 1177). In dottrina: DALMARTELLO, Limiti obiettivi del diritto della minoranza alla convocazione dell’assemblea, in Riv. Notar., 1956, p. 167-170.

[3] La teorica dell’abuso del diritto nelle società di capitali, cui la letteratura giuridica ha dedicato molta attenzione nel corso del tempo, trae le sue origini, anzitutto, dagli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sul tema dell’abuso del diritto in materia contrattuale, nonché, per ciò che concerne squisitamente il diritto societario, dalle opzioni contrattualistiche della giurisprudenza, la quale, abbandonando progressivamente le opzioni dette “istituzionaliste”, ha ammesso che la tutela del socio di società di capitali rispetto ad abusi del criterio maggioritario o della minoranza riflette, in tutto e per tutto, quella predisposta in materia di divieto di abuso del diritto per il contraente non socio. Si tratta di un’elaborazione la cui genesi è insita nella progressiva e contestuale assimilazione delle due tematiche: per un verso, il definitivo tramonto del principio qui iure suo utitur neminem laedit, per altro verso, il riconoscimento della matrice puramente contrattuale e non istituzionale del fenomeno societario, al quale si impone il rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico quali, ad appunto, la clausola generale di correttezza e buona fede degli artt. 1175 e 1375 c.c.. Siffatto processo di assimilazione ha reso il divieto di abuso del diritto un vero e proprio presidio a tutela dei soci, sia di maggioranza che di minoranza, i cui diritti soggettivi, attribuitigli dall’ordinamento giuridico ai fini della partecipazione alla vita societaria, devono essere esercitati nel pieno rispetto dei principi generali di quest’ultimo e della causa concreta del contratto di società, preservando gli interessi e le prerogative dei restanti membri della compagine. Il tema è oggetto di numerosi contributi dottrinali, tra i fondamentali si segnalano: GALGANO, Qui suo iure, cit.,; ADDIS, Sull’excursus giurisprudenziale del caso Renault, in Obbl. e contr., 2012, n. 4, p. 245 ss.; PINO, L’esercizio del diritto soggettivo e i suoi limiti. Note a margine della dottrina dell’abuso del diritto, in Ragion Pratica, 2005, n. 24, p. 161 ss.; RESCIGNO, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, p. 166 ss.; GAMBARO, Voce Abuso del diritto, in Enc. Giur., Treccani, Roma, 1988.; MARTINES P., Teoria e prassi sull’abuso del diritto, Padova, 2006; NIGRO, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione dalla nozione di buona fede), in Corr. Giur., 2009p. 1577 ss., nota a Cass. civ. 18/09/1988, n. 20106; PAGLIANTINI, Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino, 2010; GAMBINO, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni (Abuso di potere nel procedimento assembleare, Milano, 1987, p. 2 ss; PREITE, L’abuso della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni., Milano, 1992,  p. 113; GALGANO, Contratto e persona giuridica nelle società di capitali, nota a Cass civ., sez. I, 26/10/1995, n. 11151, in Contr. impr., 1996, p. 1 ss.; AA.VV., Cassazione e contrattualismo societario: un incontro?, nota a Cass civ., sez. I, 26/10/1995, n. 11151, in Giur. comm., fasc. 3, 1996, pag. 329; PASQUARIELLO, Il principio di correttezza applicato alle delibere assembleari: l’abuso della regola di maggioranza al vaglio dei giudici, in Giur. comm., 2002, n. I, p. 130; BASSI, Correttezza e contratto di società, in Giur. comm., 2002, n. 3, p. 297; TIMPANO, L’interesse sociale fra contrattualismo ed istituzionalismo in relazione al conflitto d’interessi assembleare ed all’abuso della regola della maggioranza, in Riv. Not., 2009, n. 3, p. 657; RORDORF, L’abuso di potere della minoranza, in Le Società, 1999, n. VII,  p. 809.

[4] Paragrafi 2 e 3.

[5] Paragrafo 4.

[6] Tribunale Milano, 05/05/2021.

[7] Tribunale Venezia, sent. 03/07/2023.

[8] MARTINES P, Abuso del diritto, la chicane del socio di minoranza, in Contr.impr., 1998, n. 1, p. 130 ss.

[9] Tribunale Milano, 9/11/2017.

[10] Tra le pronunce più recenti: Tribunale Venezia, sent. 03/07/2023; Tribunale Roma, sent. 19/01/2023; Tribunale Torino, 04/07/2022; Tribunale Milano, 30/06/2022; Tribunale Milano, 05/05/2021; Tribunale Milano, 26/03/2019; Tribunale Perugia, Sez. fall., decr. 21/12/2018; Cass. civ. Sez. I, 12/12/2017, n. 29792; Tribunale Milano, 10/11/2017; Tribunale Milano, 9/11/2017; Tribunale Napoli, ord. 30/12/2015; Cass. civ., sez. I, 24/02/2014, n. 4388, inedita; Trib. Milano, 12/02/2014, inedita; App. Perugia, 31/01/2013, in Riv. not. 2013, n. 5, p. 1213; Cass. civ., sez. I, 17/02/2012 n. 2334, in Riv. not. 2012, n. 2, p. 448, a proposito dell’approvazione di un verbale d’assemblea mendace; Cass. civ., sez. I, 10/02/2011, n. 3274, in Giust. civ. 2012, n. 2-I, p. 516, sulla configurabilità dell’abuso della maggioranza in sede di concordato fallimentare; Cass. civ., sez. I, 20/01/2011, n. 1361, Giust. civ. Mass,. 2011, n. 1, 94,; Trib. Roma, 10/10/2008, in Riv. dir. comm., 2009, n. 3-II (con nota di: ROSSI S. “Osservazioni in tema di abuso di maggioranza”).

[11] Comunemente ascritta al novero delle disposizioni nazionali in tema di abuso del diritto è l’articolo 833 – “Atti d’emulazione” del Codice Civile, il quale recita “Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri”. A livello sovranazionale si segnalano l’articolo 54 – Divieto dell’abuso di diritto, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il quale recita: “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri a distruggere diritti o libertà riconosciuti nella presente Carta o a imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta.”; nonché l’articolo 17 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che recita: “Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione.”.

[12] Tribunale Roma, sent. 19/01/2023.

[13] PREITE, L’abuso della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari di società per azioni, Milano, 1992, p. 87 ss.

[14] Tra tutte, in particolare, ci si riferisce alla sentenza Cass. Civ., 18/09/2009, n. 20106, in Foro it., 2010, n. II, p. 830, in tema di recesso ad nutum da contratto di concessione di vendita di autovetture, in cui la Corte di cassazione ha individuato gli elementi costitutivi ed il fondamento dell’abuso del diritto.

[15] GALGANO, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contr. impr., 2011, n. 2, p. 311 ss.. Nei fatti, il divieto di abuso del diritto è da tempo identificato con l’esercizio scorretto del diritto soggettivo, attribuito dall’ordinamento al proprio titolare in funzione di una causa specifica, di una particolare ragione pratica, il cui esercizio è giudicato inammissibile quando sia disfunzionale rispetto a queste ultime. Cass.civ. 18/09/2009, n. 20106, la prima a riconoscere il divieto quale principio generale del nostro ordinamento, ritiene, in particolare, che gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto sono: la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; l’inesistenza, entro l’ordinamento giuridico, di modalità predeterminate entro cui dover esercitarlo; modalità censurabili nell’esercizio dello stesso perché strumentalizzato dal proprio titolare alla lesione dei diritti della propria controparte. Comunemente ascritto al novero dei limiti alla discrezionalità contrattuale delle parti, il divieto è funzionale a mantenere l’equilibrio tra le prestazioni oggetto del contratto, verificando l’equità e la congruità dello scambio posto in essere dai contraenti rispetto alla causa del negozio giuridico, alla luce dei criteri della meritevolezza dell’interesse perseguito con il negozio giuridico, di cui all’art.1322, comma 2, c.c., nonché della clausola generale di buona fede e correttezza degli art. 1175 e 1375 c.c.. Rispetto a vincoli in cui i contraenti abbiano pari forza negoziale, il divieto di abuso del diritto è strettamente funzionale a contenere l’esercizio dei diritti soggettivi entro i limiti prefissati dall’ordinamento, corrispondenti ai principi generali di quest’ultimo, permettendo di indirizzare l’esecuzione del vincolo contrattuale entro l’osservanza di canoni specifici, tra cui, ad appunto, la clausola generale di correttezza e buona fede. Quest’ultima, nella teorica in parola, assurge a criterio idoneo a selezionare quale interesse perseguito dalle parti, attraverso l’esercizio dei propri diritti, possa dirsi in linea con il complessivo assetto di interessi posto alla base del contratto, ritenendo immeritevoli di tutela quelli preordinati all’indebita compressione delle prerogative e dei diritti della propria controparte. Data la collocazione sistematica degli artt. 1175 e 1375 c.c., rispettivamente situati nell’ambito delle norme sulle obbligazioni in generale e nell’abito delle norme sul contratto in generale, la clausola di correttezza e buona fede – declinata nel senso di divieto di abuso dei propri diritti – opera con riferimento a qualunque tipologia contrattuale, dunque anche rispetto ai contratti plurilaterali con comunione di scopo, categoria (artt. 1420, 1446, 1459, 1466 c.c.) cui appartiene il contratto di società ai sensi dell’art. 2247 c.c.. Per insegnamento dottrinale, il contratto plurilaterale con comunione di scopo è strutturato su di una pluralità di prestazioni funzionali al perseguimento di uno scopo unico, comune a tutti i contraenti[15]: nel caso del contratto di società, tale scopo è l’esercizio in comune di un’attività economica organizzata orientata alla divisione degli utili ottenuti, il quale assurge, contestualmente, a causa concreta del medesimo ed intorno al quale si strutturano le prestazioni dei contraenti le quali vanno, come visto, eseguite in osservanza del principio di correttezza e buona fede.

[16] Tribunale Milano, 9/11/2017.

[17] Occorre dare atto della circostanza per la quale, parallelamente allo sviluppo della teorica dell’abuso del diritto, sin qui delineata, applicabile anche al contratto dell’art. 2247 c.c., come illustrato sub nota 13, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha statuito che la personalità giuridica delle società di capitali non rappresenti “un ostacolo alla persistenza di un vincolo di natura contrattuale dopo la costituzione della società (Cass civ., sez. I, 26/10/1995, n. 11151,)” con ciò volendo alludere al definitivo superamento delle teorie istituzionaliste e all’affermarsi delle correnti dette contrattualiste. Alla stregua delle posizioni istituzionaliste, l’ente societario – pur costituito attraverso il contratto dell’art. 2247 c.c. – non è da ritenersi un centro esponenziale degli interessi comuni dei soci, bensì la personificazione di un interesse superiore, distinto e diverso da quello dei soci medesimi, oggetto di un’autonoma tutela giuridica. In quest’ottica, l’interesse sociale coincide con la conservazione dell’integrità patrimoniale e dell’efficienza nella gestione societaria, realizzate per il tramite dell’art. 2373 c.c., il quale sancisce la annullabilità della deliberazione assembleare approvata con il voto determinate del socio in conflitto di interessi, poiché tale interesse assurge a vero e proprio limite funzionale all’esercizio del diritto di voto in assemblea. In tal senso, l’azione assembleare della maggioranza può definirsi una vera e propria funzione, espressione dell’interesse sociale, la cui divergenza rispetto a quest’ultimo ne comporta la censurabilità per eccesso di potere. Traendo spunto dalle anzidette ricostruzioni, parte della dottrina, cui fa eco una nutrita casistica giurisprudenziale, ha ricondotto il vizio della delibera impugnata per abuso della regola di maggioranza alla figura dell’eccesso di potere elaborata nel diritto pubblico. L’orientamento, in particolare, riconosceva il detournement de pouvoir nel divario sussistente tra l’esercizio del diritto di voto del socio, come confluito nella decisione collegiale maggioritaria, ed il fine ultimo per cui la legge aveva riconosciuto al medesimo proprio tale prerogativa,: vale a dire la realizzazione dell’interesse sociale di cui all’art. 2373 c.c.. In altre parole, quando la maggioranza, posta a monte la possibilità di scegliere, in nome della discrezionalità imprenditoriale e della realizzazione dell’interesse sociale, tra più comportamenti ugualmente leciti e satisfattivi di quest’ultimo, ne avesse approvato uno illecito e disfunzionale al medesimo, producendo la deviazione dell’esercizio del voto dei soci rispetto al fine predeterminato dalla legge, allora poteva eccepirsi l’abuso del criterio maggioritario e chiedere l’annullabilità della delibera all’autorità giudiziaria. L’affermarsi delle teorie contrattualiste ha portato con sé la constatazione che la persistenza di un vincolo contrattuale tra i soci nell’ambito della personalità giuridica delle società di capitali porta a riconoscere la natura giuridica del voto espresso dai medesimi in assemblea alla stregua di un atto unilaterale d’esecuzione del contratto sociale, funzionale all’adozione di una delibera avente la medesima natura esecutiva. L’interesse sociale, secondo le dottrine contrattualiste è, sì, un interesse proprio dell’ente societario, ma soltanto in quanto assorbito dalla causa concreta del contratto di società dell’art. 2247 c.c., posto che non rappresenta, invece, un supposto, superiore, interesse della persona giuridica. In particolare, l’art. 2373 c.c., va interpretato quale norma che esprime l’esigenza secondo la quale i rapporti interni alla società debbano realizzarsi attraverso comportamenti coerenti con gli scopi per i quali il contratto sociale è stato stipulato, comportamenti che non possono essere contrari ai doveri di correttezza e buona fede contrattuali, in funzione integratrice del contratto di società[17]. L’opzione contrattualista ha dunque decretato la perfetta corrispondenza che deve sussistere, a mente dell’art. 1323 c.c., tra la disciplina del contratto di società e quella in tema di contratti in generale dettata al libro IV del codice civile; disciplina, quest’ultima, applicabile anche alle delibere assembleari e all’esercizio del diritto di voto in assemblea in virtù del rinvio dell’art. 1324 c.c.. Essendo la gestione societaria attività d’esecuzione del contratto, funzionale alla realizzazione della causa societaria, cui fa da cornice il riconoscimento del diritto di voto in capo al socio, e posta l’applicabilità di tutte le norme civilistiche sul contratto in generale anche al contratto di società, allora l’attività d’esecuzione di quest’ultimo deve ritenersi vincolata al rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico dettati a protezione dei contraenti: primo fra tutti il dovere di correttezza e buona fede in executivis. Di tal guisa, il diritto di voto riconosciuto al socio, esercitabile in piena discrezionalità poiché funzionale solo ed esclusivamente a far udire la sua voice nella gestione societaria e non al conseguimento dell’interesse sociale, in quanto atto d’esecuzione del contratto sociale sottostà anche alla clausola generale degli artt. 1175 e 1375 c.c. ove si sostanziano nel divieto di abuso del diritto. In dottrina CANDIAN, Nullità e annullabilità di delibere di assemblea di società per azioni, Milano, 1942; GALGANO, Contratto e persona giuridica, cit., p. 1; JAEGER, L’interesse sociale, Milano, 1967; ENRIQUES, Il conflitto d’interessi degli amministratori di società per azioni, Milano, 2000, p. 176 ss; In materia di eccesso di potere, fondamentale, BENVENUTI, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione in Rass. Dir. pubb., 1950, p. 2931; GAMBINO, Il principio di correttezza nell’ordinamento della società per azioni, Milano, 1987, p.109 ss.. In giurisprudenza Cass, civ. 20/05/1986, n. 3628, in Le società, 1986, p 1087 ss., ma anche Cass, civ., 04/05/1994, n. 4323 in Foro it, n.I, 1995, p 2219; Cass, civ., 05/05/1995,  n. 4923 in Le società, 1995, p 1548 ss; Trib. Milano, 13/05/1999, in Le società, 2000, p. 75; Trib. Perugia, 22/12/2000, in Le società, 2001, p. 11 Trib. Milano, 11/01/2002, in Giur. it, 2002, p.1897; App. Milano, 10/05/2002, in Le società, 2002, p. 1387; Trib. Reggio Emilia, 02/12/2005, in Le società, 2006, p. 1257 e, da ultimo, Trib. Salerno, 24/07/2008, inedita.

[18] Sul sindacato giudiziale in tema di abuso della regola di maggioranza, che ha ad oggetto proprio l’estensione ultima della discrezionalità societaria e la lesione dei diritti dei soci, si veda paragrafo 5.

[19] Tribunale Milano, 05/05/2021.

[20] Tribunale Venezia, sent. 03/07/2023, citata sub nota n. 4.

[21] Sui presupposti, soggettivi e oggettivi, della fattispecie dell’abuso della regola di maggioranza, da ultimo, Tribunale Torino, 04/07/2022, “Ricorre l’abuso  di maggioranza, allorché l’agire del socio (in questo caso l’esercizio del  diritto  di  voto in assemblea), sia diretto a perseguire un interesse personale antitetico a quello sociale, e che quindi non comporti alcun beneficio alla società stessa, oppure che sia deliberatamente diretto in modo intenzionale e fraudolento a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza”. Più risalente, App Perugia, 31/01/2013, cit.: “l‘abuso o eccesso di potere da parte della maggioranza è causa di annullamento delle delibere assembleari: a) o quando le delibere stesse non trovino alcuna rispondenza e giustificazione nell’interesse della società; b) o quando vi sia una deviazione dell’atto dallo scopo economico – pratico del contratto di società essendo il voto ispirato al perseguimento, da parte dei soci di maggioranza, di un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale; c) o quando siano il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza “uti singuli” poiché rivolte al conseguimento di interessi extra sociali”.

[22]In dottrina, MARTINES P., Abuso, cit., nonché CAROTA, Società per azioni e convocazione dell’assemblea su richiesta della minoranza, in Contr. impr., 1989, p. 849, ss.

[23] Tribunale Milano, 10/11/2017.

[24] Nella giurisprudenza più risalente: Trib. Milano, 22/03/1990, in Le società, 1990, n. VI, p. 775; Trib. Aosta, 12/04/1994, in Le società , 1995, p. 70; Trib. Milano, 21/11/1994, in  Giur. comm., 1995, II, p. 586; Trib. Napoli, 24/01/1996, in Le società, 1996, p. 817.

[25] Cass. civ., Sez. Unite, Ord., (data ud. 24/01/2023) 30/01/2023, n. 2767.

[26] Sul tema del sindacato giudiziale si veda il paragrafo 5.

[27] In particolare, sulle quali nel prosieguo, Trib. Milano, 28/09/2006, cit.; Trib. Como, ord., 01/06/2000; App. Milano, 18/10/2000, cit.; Trib. Milano, 28/05/2007, cit.; Trib. Torino 26/11/2004; Trib Vicenza, 31/10/2005, in Giur. comm., 2007, n. II, p. 390.

[28] cfr. Tribunale di Udine, 21 ottobre 1998.

[29] Tra le pronunce più risalenti Trib. Monza, 20/02/1998, cit..

[30] Tribunale Monza, 20/02/1998.

[31] Sul punto, più dettagliatamente, il par. 3; PREITE, L’abuso della regola di maggioranza, cit., p. 30.

[32] Sul punto, di recente, Tribunale Roma Sez. spec. in materia di imprese, 19/01/2023.

[33] Cass. civ., Sez. I, Sentenza, 07/11/2008, n. 26842; Tribunale Ancona, Sez. spec. in materia di imprese, Sent., 15/09/2020, n. 1098; Cass. civ., Sez. VI – 1, Ord., (data ud. 23/09/2014) 16/10/2014, n. 21942; Corte d’Appello Firenze, Sez. II, Sent., 14/10/2014, n. 1671.

[34] Ex multis, Trib. Salerno, 24/07/2008, cit.; Trib. Monza, 20/02/1998, in Le società, 1998, p. 1314; Trib.  Milano, 09/06/1994, in Giur. comm., 1996, n. II, p. 273 (nota di: DE RITIS); Tribunale  Milano 03/01/1987, in Dir. fall. 1988, n. II, p. 100; Trib. Como, ord., 01/06/2000, in Le Società, 2001, n. 76 e Trib. Milano, 28/09/2006, in Giur. it. 2007, 2, 387.

[35] Si veda, in particolare, Trib. Como, ord., 01/06/2000, cit, e Trib. Milano, 28/09/2006, cit.

[36] Trib. Como, ord., 01/06/2000, cit..

[37] PREITE, L’abuso della regola di maggioranza, cit., p. 215.

[38] Trib. Como, ord., 01/06/2000, cit.; Trib. Milano, 28/09/2006, cit..

[39] Trib. Como, ord., 01/06/2000, cit..

[40] Cass, civ. 04/05/1994 n. 4323, cit.; Trib. Milano, 28/09/2006, cit.

[41] Trib. Milano, 28/09/2006, cit., ove la delibera di aumento venne annullata considerando che la stessa, di ingente consistenza e mancante di  un sovrapprezzo delle azioni, completamente ingiustificata dalla società, seguisse cronologicamente la decisione, reiterata per diversi esercizi, di non distribuire gli utili, circostanza che di fatto, aveva privato il socio di minoranza dei mezzi finanziari necessari a sostenere l’aumento del capitale, obbligandolo così a vendere la propria partecipazione a terzi. Inoltre, la società, dopo l’alienazione della partecipazione del socio, aveva in gran fretta revocato l’aumento: lasciando in tutto e per tutto spazio alle censure mosse dall’attore in ordine alle fraudolente intenzioni sottese alla decisione, preordinata, esclusivamente, alla sua esclusione. 

[42] Tribunale Salerno, Sez. I, Sent., 24/07/2008, n. 1935; Trib. Como, ord., 01/06/2000, cit..

[43] Trib. Como, ord., 01/06/2000, cit..

[44] È necessario premettere che le delibere assembleari aventi ad oggetto l’approvazione di un bilancio mendace sarebbero in ogni caso nulle per illiceità dell’oggetto, ai sensi dell’art. 2379 c.c., precludendo, ove sia provata la falsità dei dati contabili, qualunque ulteriore indagine in merito alla violazione della clausola di correttezza e buona fede nell’approvazione della stessa. Sul punto, Cass. civ., 07/03/1992, n. 2764, in Foro it., 1992, p. 935; Cass. civ. 16/10/2007, n. 23823, in Le Società, 2008, n. VI; Cass. civ. 07/11/2008, n. 26842, in Giur. com., 2010, n. II, p. 235.

[45] Cass. civ., Sez. I, 23/03/1993, n. 3458.

[46] Cass, civ. 20/05/1986, n. 3628 , cit. e Cass, civ. 05/05/1995, n. 4923, cit.

[47] Cass. civ., Sez. I, 05/05/1995, n. 4923.

[48] Cass, civ. 20/05/1986, n. 3628, cit., in cui i giudici hanno concluso: “quando sia stata espressa dalla maggioranza dei soci nelle forme legali la volontà di procedere allo scioglimento della società in presenza di causa legittimante […] non è consentito dare rilievo […] ai motivi che hanno indotto i soci maggioritari a prendere detta decisione ed agli effetti che possono derivare a carico dei soci in generale e di quelli dissenzienti in particolare”.

[49] Cass, civ. 05/05/1995, n. 4923.

[50] Cass, civ. 29/01/2008, n. 2020, cit; Trib. Milano, 28.05.2007, in Giur.it.n. I, 2008; Cass. civ., 28/05/2004, n. 10271, in Giust. civ. Mass, n. V,. 2004.   Il virgolettato è tratto da Cass. civ., Sez. I, 29/01/2008, n. 2020.

[51] Cass. civ., sez. I, 10/02/2011, n. 3274. Di recente, sul punto, Tribunale Roma Sez. spec. in materia di imprese, 19-01-2023. Tra le decisioni, si distingue in particolare, Trib. Milano, 28.05.2007, cit., in cui il deliberato assembleare di mancata distribuzione degli utili realizzati consecutivamente dalla società nei tre esercizi precedenti, ritenendo che gli estremi della lesività della decisione fossero integrati dall’esistenza, a monte, di una situazione conflittuale tra i soci e dall’insufficiente motivazione di accantonamento posta a suffragio della scelta.

[52] Trib. Padova, 20/05/2005, in Corr. giur., 2005, n. 9, p. 1260 ss., con nota di SANGIOVANNI, “Impugnazione di deliberazione assembleare, conflitto di interessi e nomina di curatore speciale. La battaglia giudiziaria per il controllo di Antonveneta.”

[53] Così Cass. civ., sez. I, 10/02/2011, n. 3274, cit. e, in senso conforme, Cass. civ., 22/03/2010, n. 6904, in Corr. giur., 2011, p. 221; di recente, Tribunale Milano Sez. spec. in materia di imprese Ord., 30-06-2022 e Tribunale Perugia Sez. fall. Decr., 21-12-2018.

[54] Cass. civ., sez. I, 10/02/2011, n. 3274.

[55] Sul punto, DI MAJO, L’interesse del fallito e i diritti fondamentali, nota a  Cass. civ., 22/03/2010, n. 6904, cit..

[56] Cass. civ., sez. I, 10/02/2011, n. 3274.

[57] In tema di sindacati di voto che abbiano ad oggetto l’esercizio di una influenza dominante, occorre premettere che la loro validità è da appurarsi caso per caso, alla stregua di un importante bilanciamento di interessi extrasociali e sociali da cui deriva la meritevolezza del patto quale espressione di autonomia privata, sul punto LEONGRANDE, Sub art. 2341bis e 2341 ter c.c., in, Il nuovo diritto delle società, a cura di MAFFEI ALBERTI, Padova, 2005, p. 96 ss.

[58]Così Trib. Padova, 20/05/2005, cit.

[59] Trib. Torino, 26/11/2004.

[60] I casi, sono stati portati all’attenzione di Trib. Torino, 26/11/2004, cit.; Trib. Vicenza, 31/10/2005, cit.; Trib. Milano 11/02/2002, cit. e Trib. Reggio Emilia, 02/12/2005, in Le Società, 2006, p. 1257. Le clausole di prelazione impropria, sono le clausole dello statuto che, ai sensi degli artt. 2355bis c.c. per le s.p.a. e 2469 c.c. per le s.r.l., subordinano il trasferimento delle azioni e delle quote del socio alla preventiva determinazione del prezzo di acquisto ad opera di un terzo, ammesse ove il corrispettivo stabilito non sia inferiore al valore delle partecipazioni calcolato alla stregua dell’art. 2437ter c.c. (Trib. Busto Arsizio, 09/03/2012; Trib. Venezia 23/09/2010; Trib. Milano 24/05/2010.

[61] In particolare, Trib. Torino, 26/11/2004, cit., ove la modificazione dello statuto societario aveva di poco preceduto l’entrata in vigore della riforma apportata con il d.lgs. n. 6/2003. La riforma prevedeva un nuovo testo dell’art. 2437 c.c., in tema di recesso dalla società per azioni, codificando, al comma 1, l. f) del disposto, ad appunto, la facoltà di recesso del socio nei casi di modifica dei criteri di determinazione del valore delle azioni in prossimità dell’esercizio dell’azione di recesso. Nel caso de quo, la modifica dello statuto societario era estremamente peggiorativa della situazione del socio, il quale – se il correttivo statutario fosse stato approvato il mese successivo – avrebbe potuto recedere dalla società. L’esito positivo dell’azione di annullamento della delibera impugnata, è stato determinato proprio dal fatto che, pur all’approssimarsi di una organica riforma del diritto societario, l’assemblea aveva ritenuto che l’adeguamento del proprio statuto dipendesse esclusivamente dalla modifica della clausola sui criteri di determinazione del valore delle azioni. In merito inserimento nello statuto di una clausola di prelazione impropria e contestuale esclusione del diritto di recesso ex art. 2347, comma 1, l. e), c.c.: Trib. Vicenza, 31/10/2005, cit.

[62] TIMPANO, L’interesse, cit.

[63] TIMPANO, Op. loc. ult. cit,; GAMBINO, Tutela delle minoranze, in La riforma delle società quotate, a cura di BONELLI e altri, Milano, 1998; RORDORDF, L’abuso di potere della minoranza, in Le Società, 1999, p. 809 ss.

[64] Trib. Milano, 28 novembre 2014

[65] RORDORDF, L’abuso di potere cit., p. 809.

[66] Trib. Milano, 10 novembre 2017.

[67] Trib. Milano, 28 novembre 2014.

[68] Cass. Civ., 12 dicembre 2005, n. 27387.

[69] A proposito, fondamentale, NUZZO, L’abuso della minoranza, cit..

[70] In dottrina, MARTINES, Abuso, cit.; DALMARTELLO, Limiti , cit., p. 167.

[71] DALMARTELLO, Limiti , cit., p. 167.

[72] Così, Trib. Milano, 21/11/1994, cit..

[73] Trib. Napoli, 24/01/1996, in Le società, 1996, p. 817; Trib. Aosta, 12/04/1994, in Le società , 1995, p. 70; Trib. Milano, 22/03/1990, in Le società, 1990, n. VI, p. 775. GagliotiSocietà cooperativa: limiti alla convocazione dell’assemblea ex art. 2367, in Le Società, 1996, n. 7, p. 817;

[74] Tribunale Napoli, 24/01/1996; GagliotiSocietà cooperativa: limiti alla convocazione dell’assemblea ex art. 2367, in Le Società, 1996, n. 7, p. 817;

 

[75] Come sostenuto nella sentenza 19 aprile 2003, n. 6361, della Corte di cassazione. In dottrina PREITE, L’abuso della regola di maggioranza, cit., p. 113.

[76] Nella giurisprudenza di merito più risalente si veda anche Trib. Como, ord., 01/06/2000, cit.. nonché Trib. Milano, 28/09/2006, cit..

[77] Sul punto possono richiamarsi i rilievi precedentemente svolti ai par. 2 e 3.

[78] L’espressione è di PASQUARIELLO, Il principio di correttezza applicato alle delibere assembleari: l’abuso della regola di maggioranza al vaglio dei giudici, in Giur. comm., 2002, n. I, p. 130.

[79] Trib. Roma, sent n. 15923/2015 pubbl. il 21/07/2015.

[80] In dottrina si segnalano in particolare, le ricostruzioni di PREITE, L’abuso della regola di maggioranza, cit., p. 215

[81] PREITE, Op. loc. cit., p. 233.

[82][…] l’organo amministrativo ed il collegio sindacale non possono “legittimamente contrapporre proprie valutazioni di opportunità al potere discrezionale del socio di chiedere ed ottenere la convocazione dell’assemblea su determinate questioni, sicché il tribunale deve disporre la convocazione se l’istanza del socio non risulti manifestamente abusiva o pretestuosa”, così Trib. Milano decr., 02/04/2016. In dottrina PREITE, Ibidem.

[83] Trib. Milano 11/04/2016.

[84] PASQUARIELLO, Il principio di correttezza applicato alle delibere assembleari: l’abuso della regola di maggioranza al vaglio dei giudici, in Giur. comm., 2002, n. I, p. 125.

[85] PREITE, Op. loc. cit., p. 89 ss.; SIMONETTI, Ibidem.

[86] Cass. 12/12/2017, n. 29792. Secondo un orientamento, anche le figure sintomatiche dell’eccesso di potere, elaborate in sede pubblicistica potevano fondare la prova dell’abuso del diritto di voto. Ad esempio, nella sentenza n. 27387, del 12 dicembre 2005, della Corte di cassazione, si afferma che: “poiché la teorizzazione del divieto di abuso della regola di maggioranza si fonda sul divieto dell’eccesso di potere secondo il modello elaborato dalla giurisprudenza amministrativa, l’esame del merito della delibera è ammesso solo in presenza di indici oggettivi che consentono di sospettare la violazione di vincoli imposti dall’ordinamento alla maggioranza”. Applicando la teorica dell’eccesso di potere all’abuso di maggioranza, emerge che, potrà dirsi fraudolenta, tra l’altro, la delibera che si mostri manifestamente irragionevole e arbitraria, alla luce della complessiva vicenda fattuale come articolatasi nel tempo; che si mostri carente di ogni motivazione a supporto dell’operazione societaria; che si basi sul travisamento dei fatti.

[87] PREITE, L’abuso della regola di maggioranza, cit., p. 215.

[88] PREITE, Ibidem.

[89] PREITE, Op. loc. cit., p. 224 ss.

[90] GUERRIERI, Decisioni dei soci, in Il nuovo diritto delle società, Torino, 2005, a cura di MAFFEI ALBERTI, p. 2018 ss.; BRUNO, Exit/voice ed efficienza: ma cosa vuol dire efficienza? Atti del convegno “Orizzonti del diritto commerciale”, Roma, Università di Roma Tre, 10-11 febbraio 2012.

[91] Cass. civ., Sez. Unite, Ordinanza, 30/01/2023, n. 2767.

[92] Cass. civ., Sez. Unite, Ordinanza, 30/01/2023, n. 2767.

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