07/12/2015 – Nuove riflessioni sul grado di diligenza richiesto ai pubblici funzionari e sulla qualificazione della colpa nei giudizi di responsabilità amministrativa

ANTONIO VETRO

(Presidente on. Corte dei conti)

Nuove riflessioni sul grado di diligenza richiesto ai pubblici funzionari e sulla qualificazione della colpa nei giudizi di responsabilità amministrativa, alla luce della sentenza della Cassazione 6 ottobre 2015 n. 19883.


1) Premessa: brevi cenni sull’attuale stato della prevalente giurisprudenza in materia di individuazione del requisito soggettivo per l’azione del p.m. contabile.

Ai sensi dell’art. 3, comma 1, della legge n. 639/1996 “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave”.

A prescindere dalla problematica riguardante il dolo e limitando l’analisi alle questioni riguardanti la colpa – già trattate nell’articolo dello scrivente del 29.12.2011: “Responsabilità degli Stati per violazione del diritto comunitario: riflessi sulla responsabilità dei pubblici funzionari” – si richiama, fra le tante, la sentenza n. 630/2011 della Sez. III d’appello C.d.c. la quale ha precisato che “secondo consolidata e condivisibile giurisprudenza della Corte dei conti, non essendo possibile configurare un generale criterio di valutazione della colpa grave, questa non può essere ricondotta alla semplice “violazione della legge o di regole di buona amministrazione, ma è necessario che questa violazione sia connotata da inescusabile negligenza o dalla previsione dell’evento dannoso” (Sez. 3^ centr. appello, sent. n. 75/2010). La colpa grave consiste, infatti, “in un comportamento avventato e caratterizzato da assenza di quel minimo di diligenza che è lecito attendersi in relazione ai doveri di servizio propri o specifici dei pubblici dipendenti” (Sez. 1^ centr. appello, sent. n. 305/2009) ossia nella “inammissibile trascuratezza e negligenza dei propri doveri, coniugata alla prevedibilità delle conseguenze dannose del comportamento” (Sez. giur. Calabria, sent. n. 763/2005) in relazione alle modalità del fatto, all’atteggiamento soggettivo dell’autore nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l’evento dannoso: “di guisa che il giudizio di riprovevolezza della condotta venga in definitiva ad essere basato su un quid pluris rispetto ai parametri di cui agli artt. 43 cod. pen. e 1176 cod. civ.” (Sezioni riunite, sent. n. 56/1997)”.

Riguardo alle più recenti sentenze in materia, va menzionata la sent. n. 54/2015 della Sezione Campania C.d.c. la quale, dopo aver ricordato la citata giurisprudenza, ha concluso nei seguenti termini: “Tirando le fila del discorso non occorrono macroscopiche inosservanze dei doveri di ufficio, ma la colpa va valutata in concreto in base ai criteri della prevedibilità ed evitabilità della serie causale produttiva del danno ed al principio di ragionevolezza, procedendo all’analisi, sulla base degli atti di causa, della condotta del soggetto nel contesto in cui è stata posta in essere; tenendo conto delle qualità dell’agente, al fine di stabilire il quantum di esigibilità dell’osservanza delle regole che si assumono violate, nonché le specifiche competenze ed attribuzioni”.

2) La sentenza della Cassazione civ., Sez. III, 6 ottobre 2015 n. 19883.

Si premette che l’art. 1176 c.c. prevede al comma 1 che “nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia” e al comma 2 che “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.

Secondo quanto ritenuto dalla Cassazione nella sentenza n. 19883/2015, la diligenza di cui all’art. 1176 c.c. è nozione che rappresenta l’inverso logico della nozione di colpa: è in colpa chi non è stato diligente, là dove chi tiene una condotta diligente non può essere ritenuto in colpa. L’autore d’un illecito non è dunque per ciò solo in colpa: questa sussisterà soltanto nel caso in cui il preteso responsabile non solo abbia causato un danno, ma l’abbia fatto violando norme giuridiche o di comune prudenza, quest’ultime non uguali per tutti. Nel caso di inadempimento di obbligazioni comuni, l’art. 1176 c.c., comma 1, impone di assumere a parametro di valutazione della condotta del responsabile il comportamento che avrebbe tenuto il “cittadino medio”, ovvero la persona di normale avvedutezza e formazione. Nel caso, invece, di inadempimento di obbligazioni professionali, in senso ampio, il secondo comma dell’art. 1176 c.c. prescrive un criterio più rigoroso di accertamento della colpa. Il “professionista”, infatti, è in colpa non solo quando tenga una condotta difforme da quella del buon padre di famiglia ma anche quando abbia tenuto una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto un ideale professionista “medio” di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, che non è un professionista mediocre, ma serio, preparato ed efficiente.

La regola di valutazione della colpa dettata dall’art. 1176 c.c., comma 2, si applica anche alla pubblica amministrazione. Essa infatti è norma generale dell’intero sistema delle obbligazioni. Per stabilire, dunque, se una pubblica amministrazione abbia o meno tenuto una condotta colposa, occorre confrontare la condotta da questa concretamente tenuta con la condotta che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto una pubblica amministrazione che: rispetta la legge (art. 1, comma 1, legge n. 241/1990); agisce in modo efficiente (art. 1, commi 1 e 2, legge n. 241/1990); non perde tempo e agisce correttamente (art. 97 Cost.); è composta di funzionari preparati ed efficienti, (art. 98 Cost.). Questo, dunque, è il modello astratto di “pubblica amministrazione” e di “pubblico impiegato” cui, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, dovrebbe comparare la condotta cui è concretamente tenuta ogni p.a. In particolare, qualsiasi pubblica amministrazione efficiente, ai sensi dell’art. 97 Cost. , e per i fini di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, non può non conoscere la legge. Se questa non ammette ignoranza da parte degli amministrati, a fortiori sarà l’ignoranza della legge intollerabile in un amministratore. In conclusione la Cassazione ha formulato il seguente principio di diritto:

“La diligenza esigibile dalla pubblica amministrazione nel compimento dei propri atti, ivi compresa l’adozione di provvedimenti amministrativi, va valutata col criterio dettato dall’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 97 Cost. : ovvero comparando la condotta tenuta nel caso concreto, con quella che – idealmente – avrebbe tenuto nelle medesime circostanze una amministrazione “media”, per tale intendendosi non già una pubblica amministrazione “mediocre”, ma una pubblica amministrazione efficiente, zelante, solerte e che conosca ed applichi la legge”.

3) Marcata esigenza dell’innalzamento del parametro di valutazione della diligenza da esigere nei confronti dei pubblici dipendenti ed amministratori della p.a. in sede di giudizi di responsabilità amministrativa:

A) In relazione alla giurisprudenza della Corte di giustizia europea.

Già da tempo si era avvertita tale forte esigenza. Così, nel menzionato articolo del 29.12.2011, lo scrivente aveva ritenuto che la giurisprudenza della Corte di giustizia avrebbe potuto portare ad un ripensamento della citata giurisprudenza della Corte dei conti la quale consente in limiti estremamente angusti il riconoscimento della responsabilità dei pubblici dipendenti.

Per inciso, va sottolineato che buona parte del debito pubblico, di enormi proporzioni, causa principale del dissesto, si è formata per spese dissennate delle pubbliche amministrazioni, specie in sede locale, effettuate in contrasto con i più elementari canoni di economicità, efficienza ed efficacia, anche per l’assurda eliminazione o drastica riduzione di valide misure di controllo, situazione patologica che tutt’ora permane invariata. Così, va stigmatizzato, in generale, il macroscopico abuso spesso perpetrato nella costituzione di società partecipate dalla p.a., con enorme spendita di denaro pubblico, sovente finalizzato, dietro lo “specchietto delle allodole” di una maggiore efficienza, a distribuire poltrone su base clientelare, a gonfiare indebitamente i compensi, ad assumere nuovo personale senza alcuna garanzia nel reclutamento, a distribuire consulenze superflue, ad aggirare i limiti imposti per le gare di evidenza pubblica a tutela della concorrenza, ad operare in genere al di fuori dei fondamentali canoni di trasparenza e buona amministrazione, garantiti da seri controlli.

In tale situazione di “stabile emergenza finanziaria” c’è da domandarsi se sia ragionevole ancorare tutt’ora la responsabilità per colpa grave dei funzionari pubblici a parametri che ricordano la “cruna dell’ago”, come la “inescusabile negligenza”, o “l’assenza di un minimo di diligenza”, o la “inammissibile trascuratezza”, con la piena consapevolezza della “prevedibilità delle conseguenze dannose”.

La Corte di giustizia, nella sentenza 24.11.2011 n. C‑379/10, ha individuato la “colpa grave” nella “violazione manifesta del diritto vigente”. Inoltre, nella sentenza 5.3.96 n. C-46/93, aveva già chiarito che, fra le condizioni richieste per il diritto al risarcimento, va annoverata la violazione di norme comunitarie “sufficientemente qualificata” la quale “implica una violazione grave e manifesta” e che “al riguardo, fra gli elementi da prendere in considerazione, vanno sottolineati il grado di chiarezza e di precisione della norma violata … In ogni caso, una violazione del diritto dell’Unione è sufficientemente qualificata allorché essa è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia”.

Tali principi potrebbero ricevere puntuale applicazione nella giurisprudenza contabile. Infatti, una volta accertata la “violazione manifesta del diritto vigente”, produttrice di danno erariale, non dovrebbero avere spazio sofismi di sorta volti ad escludere la responsabilità dei soggetti cui è imputabile tale violazione, specie quando è ravvisabile un elevato “grado di chiarezza e di precisione della norma violata”. Parimenti, la colpa grave andrebbe senz’altro ravvisata qualora il soggetto si sia determinato ad una condotta pregiudizievole “ignorando manifestamente la giurisprudenza in materia”.

B) In relazione alla giurisprudenza della Cassazione.

Già da tempo l’insegnamento della Cassazione, rimasto inascoltato, avrebbe dovuto indurre il giudice contabile ad un maggior rigore nella valutazione della diligenza, e quindi ad una più severa individuazione della condotta gravemente colposa da imputare ad impiegati ed amministratori pubblici. Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza della Cassazione n. 4587/2009, riguardante pubblici dipendenti, secondo cui “la limitazione della responsabilità … alle ipotesi di (dolo o) colpa grave non significa che l’ordinamento tolleri un comportamento lassista … giacché si ha colpa grave anche quando l’agente, pur essendone obbligato jure, non faccia uso della diligenza, della perizia e della prudenza professionali esigibili in relazione al tipo di servizio pubblico o ufficio rivestito”.

Ora, se è da escludere che “l’ordinamento tolleri un comportamento lassista”, c’è da domandarsi come tale imprescindibile esigenza possa contemperarsi con un concezione della diligenza nell’ambito della p.a. in termini talmente ridotti da consentire al dipendente o all’amministratore di andare esente da responsabilità se non nei casi estremi di “inescusabile negligenza”, o “assenza di un minimo di diligenza”, o “inammissibile trascuratezza”, con la piena consapevolezza della “prevedibilità delle conseguenze dannose”.

Si premette che il discutibile principio di cui all’art. 3, comma 1, della legge n. 639/1996, sulla limitazione della responsabilità alla colpa grave per i soli pubblici dipendenti – da interpretare in senso restrittivo, costituendo una deroga al principio generale della responsabilità per colpa lieve – è stato dichiarato costituzionalmente legittimo dalla Consulta con sentenza n. 371/1998, tenuto conto che “la disposizione risponde alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo”.

Anche a voler omettere le perplessità – che derivano da una concezione che riserva un trattamento deteriore solo per le pubbliche amministrazioni, che vedono così limitato il diritto al risarcimento del danno conseguente agli abusi dei pubblici dipendenti e funzionari, in deroga al regime privatistico che prevede in via generale la responsabilità per colpa lieve, quasi che le pubbliche finanze, i cui dissesti vengono a gravare sulla intera collettività, meritassero una tutela di rango inferiore – rimane il problema di stabilire correttamente un punto di equilibrio che risponda ad imprescindibili canoni di ragionevolezza, costituzionalmente garantiti, nella ripartizione del rischio da addossare alla p.a. o ai suoi funzionari.

Orbene, la recente sentenza della Cassazione civ., Sez. III, 6 ottobre 2015 n. 19883, svolge sapienti considerazioni che permettono di individuare un corretto punto di equilibrio sulla ripartizione del rischio, consentendo di rimeditare l’attuale, prevalente, interpretazione giurisprudenziale contabile che, a parere dello scrivente, è fortemente squilibrata a favore dei pubblici amministratori e dipendenti, addossando alla p.a. la massima parte del rischio gestorio.

Il punto di partenza da cui muovere risiede nel principio di diritto formulato in sentenza che indica “il modello astratto di “pubblica amministrazione” e di “pubblico impiegato” cui, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, dovrebbe comparare la condotta cui è concretamente tenuta ogni p.a.”

La Cassazione ha tenuto a precisare che “il secondo comma dell’art. 1176 c.c. , prescrive un criterio più rigoroso di accertamento della colpa: infatti, il pubblico dipendente o amministratore non è un comune uomo della strada da cui possa attendersi un comportamento da semplice “buon padre di famiglia”, bensì una condotta spiccatamente professionale, parametrata ad imprescindibili canoni di preparazione, di correttezza, di rispetto della legge, di efficienza, di tempestività, di efficacia, in una parola, di buona amministrazione, come solennemente sancito nell’art. 97 dalla Costituzione.

Se, come appare doveroso, si accoglie l’ineccepibile insegnamento della suprema Corte, fondato su fondamentali principi costituzionali, va decisamente superata la giurisprudenza contabile che richiede, per l’affermazione della responsabilità amministrativa, “un quid pluris rispetto ai parametri di cui agli artt. 43 cod. pen. e 1176 cod. civ.”.

Al contrario, una volta accertato che il funzionario pubblico abbia agito in violazione dell’art. 1176, II comma, c.c. e dell’art. 97 della Costituzione, avendo dimostrato impreparazione, mancato rispetto della legge, inefficienza, intempestività, inefficacia nell’azione amministrativa, deve riconoscersi la sua responsabilità per colpa grave nella causazione di eventi dannosi, senza pretendere ulteriori condizioni, oltre tutto di natura imprecisata ed evanescenti.

Nella giurisprudenza contabile si legge spesso che la mera violazione della legge non è sufficiente a riconoscere la responsabilità amministrativa (“la colpa grave non può essere ricondotta alla semplice violazione della legge o di regole di buona amministrazione”: Sez. 3^ centr. appello, sent. n. 75/2010).

Sul punto la Cassazione è stata categorica: “qualsiasi pubblica amministrazione efficiente, ai sensi dell’art. 97 Cost. , e per i fini di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, non può non conoscere la legge. Se questa non ammette ignoranza da parte degli amministrati, a fortiori sarà l’ignoranza della legge intollerabile in un amministratore”.

Quindi, come principio generale, può sostenersi la tesi opposta a quella sostenuta nella giurisprudenza contabile, fatti salvi opportuni correttivi, da valutare caso per caso, nelle ipotesi di norme oscure o contraddittorie, di giurisprudenza contrastante, di novità legislative incoerenti con la disciplina preesistente ecc. In materia, purtroppo, non mancano esempi di carenza di corretta tecnica legislativa, come quando si formulano articoli con centinaia di commi, che oltre tutto sovente riguardano i più disparati argomenti del tutto estranei alla disciplina prevista nell’intitolazione delle leggi.

Da ultimo, è opportuno segnalare un settore, quello dei lavori pubblici, nel quale è stringente l’esigenza di pretendere un grado di diligenza particolarmente elevato e quindi di riconoscere la responsabilità amministrativa nel caso di violazione delle relative disposizioni, tenuto conto che numerose decisioni del giudice amministrativo in materia si sono concluse con la condanna della p.a. al risarcimento di danni, spesso di notevolissimo ammontare. In tale situazione, altamente pregiudizievole per le pubbliche finanze, si impone un particolare rigore nella valutazione della condotta dei pubblici funzionari, in sede di giudizi di responsabilità di competenza della Corte dei conti.

Roma 2 dicembre 2015.

 

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