06/09/2019 – Consumo sul posto: i limiti dell’attività senza che ciò configuri l’esercizio abusivo di somministrazione di alimenti e bevande

di Marilisa Bombi – Giornalista. Consulente attività economiche.
Il contenzioso posto all’attenzione del giudice amministrativo (sentenza n. 9789 del 22 luglio 2019, Tar Lazio) riapre una problematica il cui punto nodale si incentra sulla difficoltà di definire le attrezzature utilizzabili affinché si rimanga nell’ambito della legittimità del consumo del posto senza che ciò configuri l’esercizio abusivo dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande: problematica scaturente da nuove tendenze ed abitudini alimentari dei consumatori, che i comuni si sono trovati a fronteggiare pur senza avere a disposizione strumenti giuridici chiari ed incontrovertibili con conseguente proliferare di un contenzioso che ha impegnato le energie degli enti locali e dei tribunali.
La Sezione, nella sentenza in commento, peraltro ha osservato l’utilità delle circolari interpretative del MISE ovvero risposte ad appositi quesiti. Le quali, a giudizio del Giudice, non detengano una dignità giuridica di livello inferiore ovvero (come ancora una volta si richiama in gravame) gerarchicamente sotto-ordinata alle Risoluzioni dell’Agcom. In particolare, la Sezione ha voluto ripercorrere l’evoluzione normativa a proposito del consumo sul posto, rilevando:
1) che la somministrazione di alimenti e bevande reca nella sua definizione legislativa (ex art. 1L. n. 287/1991) il riferimento a locali all’uopo attrezzati. Connaturale a tale attività è l’assistenza al servizio di somministrazione della quale prova concreta (ma non unica) è data dalla presenza di personale di sala che serve gli utenti ai tavoli;
2) che il D.Lgs. n. 114/1998 consente (ex art. 7, comma 3), per la prima volta, ad alcuni esercenti alimentari il consumo immediato sul posto dei medesimi prodotti venduti, subordinandolo alla condizione che “siano esclusi il servizio di somministrazione e le attrezzature ad esso direttamente finalizzati”. Viene, dunque, indirettamente ma inequivocamente, introdotta una distinzione tra arredi ed allestimenti funzionali alla somministrazione sub 1) e quelli utilizzabili nel caso di consumo sul posto; (Questa disposizione, è utile ricordare, riguardava la possibilità di consumare sul posto gli alimenti acquistati con il buono pasto);
3) che con il decreto Bersani appare superarsi il limite relativo agli allestimenti dei locali, prevedendosi dall’art. 3, comma 1, lett. f-bis)D.L. n. 223/2006, che “le attività commerciali, come individuate dal D.Lgs. n. 114/1998 … sono svolte senza: f-bis: il divieto o l’ottenimento di autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso l’esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie”. La norma si riferisce alla facoltà accordata ai soli esercizi di vicinato alimentare (id est: detentori di Scia alimentare) di consumare sul posto – con esclusione del servizio assistito di somministrazione – i prodotti di gastronomia ( e non quelli di, eventuale, propria produzione artigianale: a tale facoltà si riferiscono altre norme estranee alla disciplina sul commercio)
4) che l’innovazione apportata dal decreto Bersani – che ha introdotto il richiamo espresso all’utilizzo dei locali e degli arredi dell’azienda, eliminando il riferimento alle attrezzature finalizzate alla somministrazione (che compariva nel D.Lgs. n. 114/1998) lasciando invariata l’esclusione del servizio assistito di somministrazione – ha posto il problema di individuare in cosa potessero consistere questi arredi. Visto che tale locuzione non era presente nel testo normativo che disciplinava la materia prima dell’avvento del decreto Bersani, si è ipotizzato che gli arredi potessero coincidere con quelli in uso presso i locali della somministrazione, nella specie, tavoli e sedie. Il MISE si è fatto carico di dare indicazioni in proposito, pervenendo ad escludere “la possibilità di contemporanea presenza di tavoli e sedie associati o associabili, fatta salva solo la necessità di un’interpretazione ragionevole di tale vincolo, che non consente di escludere, ad esempio, la presenza di un limitato numero di panchine o altre sedute non abbinabili ad eventuali piani di appoggio”; tesi questa a più riprese contrastata dall’Agcm che soffermandosi sul punto centrale della questione, e cioè l’individuazione del criterio-guida per distinguere la somministrazione di alimenti e bevande dalla vendita con consumo sul posto, anziché identificarlo, come fa il MISE, nelle dotazioni strutturali (arredi), lo circoscrive alla presenza o meno del servizio assistito, sulla falsariga di quanto definito nel testo della legge Bersani. Secondo l’Autorità, non sussistono ragioni oggettive per mantenere una discriminazione anticoncorrenziale di tale portata tra operatori, peraltro in contrasto con il quadro normativo in tema di liberalizzazioni delle attività economiche e in grado di limitare ingiustificatamente le possibilità di scelta del consumatore, anche alla luce delle più recenti evoluzioni delle abitudini di acquisto;
5) che mentre la tesi patrocinata dal MISE impone un giudizio valutativo in concreto (e tanto in sintonia con la giurisprudenza della Sezione che ha sostenuto sempre l’esigenza di un accertamento caso per caso), la diversa interpretazione sostenuta dall’Agcom genera proprio gli effetti che si prefigge di contrastare comportando essa, come meglio si chiarirà in prosieguo, una discriminazione anticoncorrenziale tra gli operatori degli esercizi di vicinato (che beneficerebbero della possibilità di svolgere, di fatto, attività di somministrazione senza munirsi di alcun titolo autorizzativo) e gli altri operatori della ristorazione che necessitano di un titolo abilitativo ancorato a più gravosi requisiti e presupposti e la cui attività viene, in alcune Città come la capitale, ad essere interdetta nelle zone ricadenti in ambiti di tutela ove non è consentito il rilascio di nuove autorizzazioni. Non solo. Una tal esegesi, raccordando l’unico elemento distintivo tra la somministrazione ed il consumo sul posto alla presenza del cameriere (che assicurerebbe il servizio assistito), imporrebbe decine di sopralluoghi fin quanto le ditte non vengono “colte” sul fatto. E dunque un proliferare senza fine di contenziosi;
6)- che, a ben vedere, nella lingua italiana si definisce “arredo”: “ogni mobile o suppellettile complementare all’uso di una casa o di un pubblico locale, secondo criteri di funzionalità o di gusto”. Un locale dunque, pur avendo i medesimi arredi (divani, mobili, quadri, lampadari ecc), può essere utilizzato sia per l’attività di somministrazione che per il consumo sul posto. Ciò su cui va messo l’accento è il rapporto di complementarietà e non di necessarietà che consente di qualificare un dato mobile quale componente dell’arredo di una casa o di un locale pubblico. Ben diversi dagli elementi di arredo sono però i mobili necessari, insostituibili e non complementari, per svolgere una data attività professionale: mobili che nel caso di specie sono le attrezzature necessarie (e non solo funzionali) all’attività di ristorazione. A tale constatazione segue che il locale “all’uopo attrezzato” (come dice l’art. 1L. n. 287/1991) è un locale in cui sono presenti i mobili tipici della somministrazione. Sostenere che il servizio senza cameriere non è mai assistito si traduce in una asserzione che appare smentita da una valutazione equilibrata dei fatti riscontrabili non potendosi dubitare che rinvenire in un ambiente tavoli da quattro o da sei con sedie abbinate, coperti da tovaglie in stoffa, e con piatti, stoviglie, bicchieri, acqua e vino sistemati sul tavolo sia indice serio e concreto per sostenere che in quell’ambiente si svolge (anche se il cliente deve recarsi al banco per prendersi la pietanza) un’attività di somministrazione e non il mero consumo sul posto dei prodotti venduti. E d’altro canto, il decreto Bersani in nessun punto afferma che è da ritenersi assistito il solo servizio di ristorazione condotto con presenza di personale di sala (camerieri e/o altri dipendenti che ti portano il prodotto al tavolo); in nessun punto modifica il concetto di somministrazione ritraibile dall’art. 1L. n. 287/1991 (ove si fa riferimento a locali “all’uopo attrezzati”) e si sofferma solo sugli “arredi”, legittimando di conseguenza l’interprete ad apprezzare le differenze insite nei due tipi di consumo traendo argomento dalla presenza delle attrezzature proprie, necessarie e non complementari, al servizio di ristorazione;
7)- che una tal esegesi, afferma il Collegio, non appare contraddetta e/o confliggente con la disciplina liberalizzatrice succeduta al decreto Bersani; e difatti, per pacifica e radicata giurisprudenza, detta disciplina della liberalizzazione del mercato dei servizi non può essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l’attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali; mentre e pacificamente l’art. 1D.L. n. 1/2012 nel liberalizzare le attività commerciali, fa comunque salvi i limiti giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante, ritenuti in apicibus compatibili con l’ordinamento comunitario purché proporzionati alle finalità pubbliche perseguite. A tal riguardo la più accreditata giurisprudenza non ha mancato di rilevare che “gli stessi principi costituzionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa economica e di tutela della concorrenza non escludono che esigenze di tutela di valori sociali di rango parimenti primario possano suggerire condizionamenti e temperamenti al dispiegarsi dei diritti individuali” (cfr., ex plurimis, Cons. St. 10 maggio 2010 n. 2758); “Pertanto, l’affermazione di principio secondo cui in ambito economico “è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge” non può disgiungersi dalla fondamentale considerazione per cui il legislatore statale o regionale può e deve mantenere forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra l’altro, il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali legati alla tutela della salute, dell’ambiente, del patrimonio culturale e della finanza pubblica, nonché della sicurezza, della libertà e della dignità umana: ciò in vista di una regolazione ispirata a ragionevolezza che da un lato elimini gli ostacoli che si rivelino inutili e sproporzionati, dall’altro mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale come richiesto dall’art. 41 della Costituzione” (Cons. St. 10 maggio 2010 n. 2758 cit. e da ultimo n. 4663 del 30 luglio 2018). Anche a tutto per ipotesi concedere circa il preteso primato assoluto dell’attività di impresa (prescindendo dai limiti costituzionali ad es. dell’art. 41, comma 2, Cost. – per il quale l’iniziativa economica privata «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» – e da considerazioni di sistema, che non accorda preferenza all’iniziativa economica su qualsivoglia altro interesse), quella stessa specifica normativa – la cui finalità è di garantire le libertà di stabilimento e di circolazione dei servizi – afferma che la liberalizzazione dell’attività di impresa incontra limitazioni o deroghe che ben possono essere giustificate dalla prevalenza dell’interesse generale, che è espresso mediante l’icastica e ritornante – nella stessa produzione giurisprudenziale e normativa dell’Unione europea – formula dei “motivi imperativi di interesse generale”, ancorché “nel rispetto dei principi di proporzionalità e non discriminazione” (v. ad es. Considerando 40 della Direttiva; artt. 8, lett. h) e 12D.Lgs. n. 59/2010; cfr. Corte cost., 19 dicembre 2012, n. 291). Non si tratta dunque di un diritto soggettivo assoluto: ma di un’attività che ben può cedere a fronte dei detti interessi generali (in termini Cons. St. 17 novembre 2016 n. 4794).
In sostanza, ha osservato la Sezione, non vi sono differenze sostanziali di contenuto nella legislazione nazionale e comunitaria susseguitasi nel tempo. Ciò a far data dal D.L. n. 223/2006, dalla direttiva n. 2006/123/CE e dalla relativa legge di recepimento (D.Lgs. n. 59/2010) fino ai decreti legge del 2011, ed in particolare il D.L. n. 138/2011, nonché, da ultimo, dal D.L. n. 1/2012, convertito con L. n. 14/2012. In tutta la legislazione, in particolare, viene posto in rilievo, costantemente, la tutela della concorrenza, da un lato, e il carattere preminente di altri valori costituzionalmente garantiti, di salvaguardia del patrimonio ambientale, storico- artistico e culturale del Paese, che possono portare al sacrificio motivato del primo anche in relazione ad ambiti territoriali delimitati. Le autorità pubbliche, cioè, possono porre limiti e restrizioni all’attività economica per evitare danni alla salute, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale; ma non possono farlo per asseriti interessi di categoria non meglio esplicitati come parrebbe essere richiesto nel caso di specie in cui il problema è quello di non rendere fonte di disparità del tutto ingiustificate i vantaggi di semplificazione nell’acquisizione di un titolo autorizzatorio per gli esercizi in cui si pratica il consumo sul posto rispetto ai normali pubblici esercizi, in presenza di caratteristiche di servizio sostanzialmente assimilabili e di pari impatto. In altre parole, se entrambe le tipologie di esercizi fossero assoggettate a Scia, ed ai medesimi requisiti sanitari e di sorvegliabilità, la distinzione non avrebbe ragion d’essere; ma così non è. Inoltre, e sotto concomitante profilo, in caso di aree del territorio comunale assoggettate a maggior tutela [ed in cui l’attività dei pubblici esercizi viene sottoposta (non a Scia, ma) ad autorizzazione e può essere contingentata o le nuove attività del tutto vietate (anche in relazione ad interessi come quelli sopra richiamati)], diviene ulteriore e aggiuntiva fonte di ingiustificata disparità (e non di positiva apertura concorrenziale) consentire, senza alcuna limitazione, lo svolgimento di analoghe attività ad esercizi abilitati al consumo sul posto senza differenziarne le modalità di svolgimento delle relative attività in modo da limitarne l’impatto e mantenere ragionevolezza alla disposizione di favore rispetto agli esercizi di somministrazione in senso stretto.
Ipse dixit, insomma e tutto risolto? La questione non è certamente semplice. Ciò in quanto il Consiglio di Stato ha espresso una opzione ermeneutica diversa, sostanzialmente adesiva alla posizione dell’AGCM (di contrario avviso alle circolari e note del MISE richiamate da Roma Capitale ed anche nelle sentenze di questa Sezione) e favorevole alla parte ricorrente (si veda la segnalazione AGCM S2605 del 27 ottobre 2016), ritenendo che il tratto distintivo del servizio assistito vada ricondotto alla semplice esistenza di “un vero e proprio servizio al tavolo – ulteriore e distinto rispetto alla vendita al banco dei prodotti alimentari – offerto dal gestore dell’attività” (Cons. St., Sez. V, 8 aprile 2019, n. 2280). Si tratta di una decisione della quale va dato conto ma che non ha indotto il Giudice di primo grado a mutare indirizzo. Così come, con estrema probabilità, farà il Consiglio di Stato nell’eventuale appello. E ciò alla luce delle nuove considerazioni e motivazioni addotte dal Tar Lazio che meritano certamente un approfondimento, in particolare per ciò che concerne la distinzione tra la vendita ed il consumo sul posto dei prodotti di propria produzione (che il Legislatore ha riservato agli artigiani alimentari iscritti all’Albo statale ovvero a quello regionale; nonché ai panificatori di cui dell’art. 4, comma 2-bis dello stesso decreto Bersani) e la vendita ed il consumo sul posto dei prodotti di gastronomia che è consentito agli esercenti di vicinato alimentare.
Dalle coordinate normative (legge quadro artigianato e legge commercio) il Giudice amministrativo è giunto alla conclusione che:
a) l’artigiano alimentare iscritto all’Albo svolge attività non soggetta alla disciplina sul commercio ma regolamentata da apposite disposizioni legislative (statali e regionali) che gli consentono, senza munirsi di alcun titolo commerciale (Scia, Dia, autorizzazione, ecc.) di effettuare l’attività di VENDITA, nei locali di lavorazione, o in quelli adiacenti, dei beni di produzione PROPRIA. La medesima disciplina gli permette il CONSUMO sul posto, immediato, dei medesimi beni utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie, in materia di inquinamento acustico e di sicurezza alimentare. Non può, anche se iscritto all’Albo, vendere o consentire il consumo sul posto di beni alimentari (gastronomia compresa) che non siano di propria produzione. Nessuna norma gli permette tanto. Per superare tale limite deve munirsi di una licenza di vicinato alimentare ( oggi Scia);
b) l’artigiano alimentare non iscritto all’Albo altro non è che un soggetto che svolge attività di produzione e trasformazione alimentare per la quale necessita di una Scia di laboratorio di gastronomia. Detta Scia non permette assolutamente il consumo sul posto di prodotti di propria produzione ed è, ben diversamente, il titolo necessario per avviare un’attività di produzione e trasformazione alimentare (e non per vendere i relativi prodotti e men che mai per farli consumare);
c) l’esercente attività di laboratorio NON iscritto all’Albo, ma detentore di una licenza di vicinato alimentare è soggetto, giuridicamente, equiparato a detto esercente di vicinato e la cui attività, conseguentemente, è sottoposta alla disciplina commerciale. Può vendere prodotti alimentari (compresi, ai soli fini di asporto, quelli prodotti e trasformati in sede) ma il decreto Bersani gli permette di far consumare sul posto i soli prodotti di GASTRONOMIA. Non può far consumare sul posto i prodotti alimentari di PROPRIA produzione. Nessuna norma lo abilita a tanto e la violazione di detto precetto – utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda e pur con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione – si traduce in una attività di somministrazione non consentita in quanto non detentore di una licenza di cui alla lett.a) dell’art. 5L. n. 287/1991;
d) l’esercente di vicinato alimentare, oltre a poter vendere tutti i prodotti alimentari che vuole, può far consumare sul posto solo i prodotti di GASTRONOMIA. Non è a lui consentito, in alcun modo, il CONSUMO sul posto dei prodotti che eventualmente produce a livello artigianale avvalendosi della Scia di laboratorio; ed anche qui la violazione del precetto – utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda e pur con l’esclusione del servizio assistito – genera un servizio di somministrazione che, in assenza della relativa abilitazione ( e dunque di luna licenza di tipo a) sopra richiamata), deve ritenersi abusivamente condotto.
E’ evidente, in conclusione, afferma la sentenza che ogni situazione va valutata caso per caso. Ma ciò che va fatto, innanzitutto, è fare in modo che vada evitata l’elusione delle prescrizioni in materia di requisiti e di sorvegliabilità. Si tratta, a giudizio di chi scrive, di valutazioni oltremodo approfondite e per un certo verso condivisibili che, nell’ipotesi di appello, sarà interessante vedere come il Consiglio di Stato riuscirà a confutare.

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