06/09/2018 – Licenziamento illegittimo del dirigente: risarcimento del danno anche in relazione alla retribuzione di posizione

Licenziamento illegittimo del dirigente: risarcimento del danno anche in relazione alla retribuzione di posizione

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista

La Corte di Cassazione con la n. 19520, del 23 luglio 2018, nell’accogliere il ricorso di una dirigente pubblico avverso il suo licenziamento illegittimo, ha affermato che il risarcimento del danno deve essere calcolato non solo in riferimento al trattamento economico, ma anche con riguardo alla retribuzione di posizione.

Il contenzioso

Una dirigente pubblica si era rivolta al Tribunale ordinario per chiedere l’annullamento o la dichiarazione di nullità del licenziamento intimatole dall’ente pubblico nel giugno del 2004 e la conseguente condanna dell’ente convenuto a reintegrarla nel posto di lavoro in precedenza occupato ed a risarcirla dei danni tutti subiti in conseguenza dell’illegittimo recesso.

Il Tribunale aveva ritenuto insussistenti gli eccepiti vizi formali e sostanziali della sanzione disciplinare e la pronuncia era stata confermata dalla Corte di Appello che aveva accertato: la competenza della Giunta Camerale (nel caso in esame l’ente pubblico era una Camera di Commercio), l’irrilevanza della mancata acquisizione del parere del comitato dei garanti, la giusta causa di recesso.

Con sentenza del 2015 la Cassazione ha accolto il primo motivo di ricorso della dirigente ed ha cassato con rinvio la sentenza di appello, rilevando che anche le Camere di Commercio sono tenute ad individuare l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari ai sensi dell’art. 55D.Lgs. n. 165 del 2001, sicché devono ritenersi illegittimi i procedimenti avviati e nulle le sanzioni inflitte da soggetto diverso.

Il giudizio di rinvio è stato definito dalla Corte territoriale con la sentenza impugnata che, in parziale accoglimento dell’appello ed in riforma della pronuncia di prime cure, ha dichiarato la nullità del licenziamento ed ha condannato l’ente appellato al risarcimento del danno, quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino al compimento del 65° anno di età.

I giudici del merito hanno evidenziato, tra l’altro, che:

– la dirigente aveva rinunciato alla domanda di reintegrazione, in considerazione del tempo trascorso e della perdita dei requisiti anagrafici necessari per riprendere servizio;

– I’originaria ricorrente, peraltro, non aveva rinunciato alla tutela risarcitoria prevista dall’art. 18L. n. 300 del 1970, che andava riconosciuta fino al raggiungimento dell’età anagrafica per il collocamento a riposo, non essendosi la Camera di Commercio avvalsa della facoltà concessa dall’art. 72D.L. n. 112 del 2008;

– ai fini del calcolo della retribuzione globale di fatto doveva essere considerato il solo rapporto fondamentale sottostante all’incarico dirigenziale, sicché andava escluso il trattamento accessorio per il periodo successivo alla cessazione dell’incarico stesso;

– la pensione di anzianità percepita dalla dirigente non poteva essere detratta dall’ammontare del risarcimento in quanto divenuta priva di titolo a seguito della declaratoria di illegittimità del licenziamento, con conseguente esposizione dell’interessata all’azione di ripetizione di indebito da parte dell’ente previdenziale;

– non potevano essere riconosciuti danni ulteriori perché andava escluso il carattere ingiurioso o vessatorio del recesso ed, inoltre, per la carenza di allegazione e di prova sull’entità degli ulteriori pregiudizi asseritamente subiti e sull’imputabilità al datore di lavoro della diffusione della notizia del licenziamento.

Avverso la sentenza sfavorevole la dirigente è ricorsa in Cassazione con una serie di motivazioni.

L’analisi dei giudici di legittimità

Con riferimento alla parte del ricorso che interessa il presente commento, la Corte di Cassazione intende dare continuità all’orientamento già espresso dagli stessi giudici di legittimità, e richiamati nella sentenza impugnata, secondo cui “l’illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro di una Pubblica Amministrazione con un dirigente comporta l’applicazione al rapporto fondamentale sottostante della disciplina dell’art. 18L. 20 maggio 1970 n. 300, con conseguenze reintegratorie, a norma dell’art. 51, comma 2, D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, mentre all’incarico dirigenziale si applica la disciplina del rapporto a termine sua propria” (cfr. Cass. Civ. n. 1751 del 2017 e negli stessi termini Cass. Civ. n. 8077 del 2014).

Da detto principio di diritto, peraltro, non discende, come affermato dalla Corte territoriale, che ai fini della quantificazione del danno, non possa essere apprezzato, per il periodo successivo alla scadenza dell’incarico dirigenziale, il trattamento accessorio che sarebbe spettato al dirigente in relazione alla posizione rivestita.

Premesso che nella fattispecie si discute unicamente della rilevanza, a fini risarcitori, della retribuzione di posizione, la Cassazione osserva che l’art. 24D.Lgs. n. 165 del 2001, in tutte le versioni succedutesi nel tempo, stabilisce che la retribuzione del personale con qualifica dirigenziale è determinata, anche in relazione al trattamento economico accessorio, dai contratti collettivi per le aree dirigenziali, contratti in relazione ai quali le Sezioni Unite della Cassazione hanno ritenuto non applicabile l’art. 369 c.p.c., “ancorché la decisione della controversia dipenda direttamente dall’esame e dall’interpretazione delle relative clausole, atteso che, in considerazione del peculiare procedimento formativo, del regime di pubblicità, della sottoposizione a controllo contabile della compatibilità economica dei costi previsti, l’esigenza di certezza e di conoscenza da parte del giudice è già assolta, in maniera autonoma, mediante la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’art. 47, comma 8, D.Lgs. n. 165 del 2001” (cfr. Cass. Civ. S.U. n. 23329 del 2009 e Cass. Civ. S.U. 21558 del 2009).

La Cassazione rileva che il giudice d’appello, pur richiamando nella motivazione che “gli aumenti medio tempore intervenuti per effetto dei rinnovi dei vari CCNL per l’area della dirigenza del comparto Regioni Enti Locali”, pacificamente applicabili al rapporto dei dirigenti delle Camere di Commercio, non ha tenuto in alcun conto la disciplina contrattuale, che, da un lato, ferma la temporaneità degli incarichi, prevede che “gli enti attribuiscono ad ogni dirigente uno degli incarichi istituiti secondo la disciplina dell’ordinamento vigente”, dall’altro, fino all’entrata in vigore del D.L. n. 78 del 2010art. 9, comma 32, stabiliva, in relazione all’affidamento di un nuovo incarico, misure di salvaguardia della retribuzione di posizione in precedenza goduta (art. 42, CCNL 10 aprile 1996; art. 31, CCNL 23 dicembre 1999; art. 4, CCNL 12 febbraio 2002).

Gli stessi CCNL, poi, hanno sempre incluso la retribuzione di posizione nella base di calcolo dell’indennità supplementare e con il CCNL 22 febbraio 2010 (non applicabile alla fattispecie ratione temporis) le parti collettive, nel prendere sostanzialmente atto dell’orientamento espresso dalla Cassazione in merito all’applicabilità della tutela reale, hanno precisato che detta voce del trattamento accessorio va corrisposta in caso dì reintegrazione e concorre a formare la base di calcolo dell’indennità sostitutiva.

I giudici di legittimità, in sostanza, dal complesso delle disposizioni contrattuali sopra richiamate desumono che il risarcimento del danno spettante al dirigente, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, deve essere commisurato non al solo trattamento economico fondamentale, ma anche alla retribuzione di posizione prevista per l’incarico ricoperto al momento dell’illegittimo recesso dal rapporto.

E’, invece, infondato il motivo del ricorso perché correttamente la Corte territoriale ha escluso di potere riconoscere altre voci di danno ( in particolare il danno esistenziale nonché quello all’immagine personale e professionale) in assenza di allegazione e di prova in merito ai pregiudizi subiti.

La sentenza impugnata è conforme al principio di diritto, ormai consolidato nella giurisprudenza della Cassazione, secondo cui, nel regime di tutela reale assicurato dall’art. 18L. n. 300 del 1970, la predeterminazione legale del danno in favore del lavoratore non esclude che quest’ultimo possa chiedere il risarcimento degli ulteriori pregiudizi che siano derivati dal ritardo nella reintegra, ma è necessario, affinché il giudice possa ricorrere alla liquidazione equitativa, che il lavoratore assolva all’onere della prova sullo stesso gravante. Ciò perché «il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza che deve essere allegato e provato.» ( Cass. Civ. S.U. n. 26972 del 2008).

Il motivo, quindi, è infondato nella parte in cui assume che l’allontanamento improvviso dal posto di lavoro comporta, quanto al discredito ed alla perdita di professionalità, “un danno in re ipsa”.

Per il resto la censura è inammissibile perché, in relazione alla responsabilità della Camera di Commercio nella diffusione della notizia del licenziamento, sollecita una diversa valutazione delle risultanze processuali, e, quindi, un’indagine di merito non consentita in sede di legittimità.

Le conclusioni

La Corte di Cassazione evidenzia che la sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di Appello che procederà ad un nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto enunciati della sentenza e provvedendo anche al regolamento delle spese di lite.

Cass. Civ., Sez. lavoro, 23 luglio 2018, n. 19520

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