05/10/2019 – Libertà di iniziativa economica e localizzazione delle attività di impresa. Scia e funzioni di controllo delle amministrazioni locali

Libertà di iniziativa economica e localizzazione delle attività di impresa. Scia e funzioni di controllo delle amministrazioni locali
di Paola Malanetto
Varenna 21.9.2019
Sommario: 1. Premessa; 2. La libera iniziativa economica declinata come libertà di stabilimento in ambito eurounitario e le ricadute nell’ordinamento nazionale; 3. La libera iniziativa economica a confronto con il governo del territorio nel sistema delle fonti e nella giurisprudenza costituzionale; 4. L’art. 19 della l. n. 241/90 dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 45/2019; 5. I poteri di controllo dell’amministrazione e la tutela del terzo; stato dell’arte e prospettive.
 
  1. Premessa.
Il tema assegnato propone la talvolta impossibile sintesi tra esigenze e valori fisiologicamente antagonisti, che, dal punto di vista ordinamentale, si collocano al crocevia di tensioni figlie della complessità moderna; essi investono il sistema multilivello delle fonti, con l’esigenza di coordinare le istanze sovranazionali di derivazione UE con l’ordinamento nazionale e di conciliare le spinte ascendenti e discendenti della disciplina costituzionale delle fonti, come disegnata dall’art. 117 della Carta fondamentale e interpretata dalla nota sentenza n. 303/2003 della Corte Costituzionale.
La discussione non manca poi di attingere aspetti cari al dibattito sulla “semplificazione”, termine spesso abusato e promiscuamente impiegato per designare la vera e propria liberalizzazione, che investe la disciplina sostanziale di una materia, e la più modesta semplificazione procedimentale, che investe la disciplina organizzativa dell’amministrazione e il rapporto Stato-cittadino, senza di per sé incidere sulla natura della pretesa oggetto di disciplina.
Da ultimo, alzando lo sguardo oltre una prospettiva di diritto amministrativo, la tematica evoca il confronto tra le esigenze del sistema economico, che è oggi fisiologicamente attratto dalla globalizzazione e quindi rappresenta una realtà il cui governo sfugge, almeno in parte, a forme di controllo territorialmente localizzate, e le ragioni di razionale organizzazione e programmazione del territorio che nascono e si cristallizzano proprio in una dimensione spaziale determinata e dunque, altrettanto fisiologicamente, pretendono di difendere il proprio spazio, che è anche spazio di qualità di vita dei cittadini.
Mi pare evidente che, così sintetizzata la posta in gioco, questa riflessione non sarà in grado di offrire alcuna soluzione, neppure in relazione ad un dibattito specifico, quello sulla SCIA/DIA e tutela del terzo per il tramite del controllo esercitato dall’amministrazione, che tra i giuristi si trascina da anni senza trovare pace; l’intento è pertanto quello di proporre alcune coordinate di carattere generale, utili quali spunti nello sforzo quotidiano di dare tutela offrendo una soluzione ragionevole del caso concreto.
  1. La libera iniziativa economica declinata come libertà di stabilimento in ambito eurounitario e le ricadute nell’ordinamento nazionale.
L’Unione Europea è nata come unione economica e doganale, incardinata sulle quattro libertà fondamentali dei Trattati; qualunque indagine sulla libera iniziativa economica non può dunque prescindere da una analisi delle indicazioni che, in materia, provengono dall’ordinamento eurounitario.
Della vasta materia “concorrenza”, volendo porre attenzione all’insediamento sul territorio delle attività economiche, occorre concentrarsi sulla libertà di stabilimento unitamente alla libera circolazione dei servizi.
Recita l’art. 49 del TFUE (ex articolo 43 del TCE): “Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.”
La previsione si accompagna, come detto, alla libera prestazione dei servizi disegnata dall’art. 56 TFUE (ex art. 49 TCE), oltre che delle merci (art. 34 TFUE, ex art. 28 TCE), delle persone (art. 45, ex art. 39 TCE) e dei capitali (art. 63 ex art. 56 TCE).
Per raggiungere l’obiettivo del mercato unico l’art. 50 del TFUE attribuisce al Parlamento ed alla Commissione il compito specifico di agire “c) sopprimendo quelle procedure e pratiche amministrative contemplate dalla legislazione interna ovvero da accordi precedentemente conclusi tra gli Stati membri, il cui mantenimento sarebbe di ostacolo alla libertà di stabilimento”.
Le barriere amministrative alla concorrenza sono state quindi individuate come un ostacolo all’Unione economica direttamente dai Trattati.
La libera prestazione dei servizi ha trovato attuazione nel diritto derivato innanzitutto con la direttiva 2006/123/CE, cosiddetta direttiva Bolkestein, la quale, nuovamente, ha stigmatizzato le barriere amministrative all’ingresso quale ostacolo da eliminare, ammettendo però regimi autorizzatori, e quindi pur sempre barriere amministrative, quando “la necessità” delle stesse “è giustificata da un motivo imperativo di interesse generale”, e purché “l’obiettivo perseguito” non possa “essere conseguito tramite una misura meno restrittiva” ed “in particolare quando il controllo a posteriori interverrebbe troppo tardi per avere efficacia” (art. 9 direttiva 2006/123/CE); la normativa è stata oggetto di ampia elaborazione nella giurisprudenza della Corte di giustizia, che si è incaricata di individuare i motivi imperativi di interesse generale e declinare il principio di proporzionalità.
Nella sentenza della Corte del 24.3.2011, resa in causa C-400/08, si legge “secondo una giurisprudenza costante, l’art.43 CE osta ad ogni provvedimento nazionale che, pur se applicabile senza discriminazioni in base alla nazionalità, possa ostacolare o scoraggiare l’esercizio, da parte dei cittadini dell’Unione, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato (v., in particolare, sentenza 14 ottobre 2004, causa C‑299/02, Commissione/Paesi Bassi). In tale contesto occorre ricordare che la nozione di «restrizione» ai sensi dell’art.43 CE ricomprende le misure adottate da uno Stato membro che, per quanto indistintamente applicabili, pregiudichino l’accesso al mercato per le imprese di altri Stati membri, ostacolando in tal modo il commercio intracomunitario (v., in tal senso, sentenze 5 ottobre 2004, causa C‑442/02, CaixaBank France, e 28 aprile 2009, causa C‑518/06, Commissione/Italia, nonché, per analogia, sentenza 10 febbraio 2009, causa C‑110/05, Commissione/Italia). Costituisce una tale restrizione, in particolare, una normativa nazionale che subordini lo stabilimento di un’impresa di un altro Stato membro al rilascio di un’autorizzazione preventiva, poiché essa può ostacolare l’esercizio, da parte di tale impresa, della libertà di stabilimento, impedendole di esercitare liberamente le proprie attività tramite una stabile organizzazione (v. sentenza 1 giugno 2010, cause riunite C‑570/07 e C‑571/07, Blanco Pérez e Chao Gómez).”
Se si scorre diacronicamente la casistica che ha dato origine alla giurisprudenza della Corte emerge come gli Stati membri opponessero sistemi più o meno fortemente caratterizzati da restrizioni quantitative all’ingresso o alla mobilità sul mercato, spesso invocando una sorta di “saturazione” della domanda, ovvero esigenze di garanzia della posizione di mercato dei soggetti già stabiliti; gran parte di queste normative, fondate su forme di programmazione dell’offerta economica con effetti, di fatto, di chiusura del mercato, talvolta realizzata anche indirettamente attraverso la creazione di obblighi asimmetrici tra newcomers e incumbents, sono progressivamente cadute sotto i colpi della giurisprudenza europea (sul punto ad es. anche sentenza 10.3.2009 in causa C-169/07 e sentenza 11.3.2010, in causa C-384/08; per l’illegittimità degli obblighi asimmetrici, nella giurisprudenza nazionale, si veda Corte costituzionale n. 239/2016).
In questo processo di apertura dei mercati si inserisce poi la liberalizzazione intesa come semplificazione procedimentale; la direttiva servizi impone infatti che le procedure autorizzatorie, quando ammesse, siano accessibili, trasparenti, tempestive; l’art. 13 stabilisce che “in mancanza di risposta entro il termine stabilito o prorogato (ndr termine ragionevole, prestabilito e pubblicizzato) l’autorizzazione si considera rilasciata. Può tuttavia essere previsto un regime diverso se giustificato da un motivo imperativo di interesse generale, incluso un interesse legittimo di terzi.”
Può dirsi acquisita, all’attualità, la consapevolezza che le restrizioni esclusivamente quantitative al commercio non sono ammesse. Il sistema dei cosiddetti “piani del commercio” e del contingentamento delle attività economiche è stato superato nel nostro ordinamento a partire dal d.lgs. n. 114/1998, il quale è anche ricordato come uno dei passaggi fondamentali che hanno positivizzato l’attribuzione di una specifica valenza di programmazione economica alla pianificazione urbanistica; il successivo d.lgs. n. 59/2010, di attuazione della direttiva 2006/123/CE, art. 11, ha esplicitamente vietato nel nostro ordinamento di subordinare l’accesso ad attività di servizi e loro esercizio alla “e) applicazione caso per caso di una verifica di natura economica che subordina il rilascio del titolo autorizzatorio alla prova dell’esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato, o alla valutazione degli effetti economici potenziali o effettivi dell’attività o alla valutazione dell’adeguatezza dell’attività rispetto agli obiettivi di programmazione economica stabiliti; tale divieto non concerne i requisiti di programmazione che non perseguono obiettivi economici, ma che sono dettati da motivi imperativi d’interesse generale”.
L’ordinamento nazionale ha scontato in materia una sorta di perenne ritardo culturale; il sistema italiano ha posto e pone tuttora forti resistenze al recepimento delle disposizioni della direttiva Bolkestein, che il legislatore ha spesso fatto proprie in ritardo o pendente una procedura di infrazione e che in parte (si pensi alla materia delle concessioni e del commercio ambulante) sono tuttora oggetto di rinvii, a fronte di una direttiva scaduta nel 2009. Come se non bastasse la normativa recepita è stata ex post più volte oggetto di resistenza da parte delle singole Regioni, come meglio verrà chiarito nel successivo paragrafo.
Per contro la giurisprudenza europea ha di fatto assimilato la caduta delle barriere quantitative al commercio e il dibattito attuale, in quella sede, si focalizza oggi piuttosto sulle legittime eccezioni all’apertura dei mercati. Riproponendo sostanzialmente il catalogo delle eccezioni dettate dall’art. 36 dal TFUE, la Corte di Giustizia ha infatti esplicitato che: “secondo una giurisprudenza costante, le restrizioni alla libertà di stabilimento che siano applicabili senza discriminazioni basate sulla cittadinanza possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, a condizione che siano atte a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso (v. sentenze 10 marzo 2009, causa C‑169/07, Hartlauer; 19 maggio 2009, cause riunite C‑171/07 e C‑172/07, Apothekerkammer des Saarlandes e a., nonché Blanco Pérez e Chao Gómez); fra tali motivi imperativi figurano la protezione dell’ambiente (v., in particolare, sentenza 11 marzo 2010, causa C‑384/08, Attanasio Group), la razionale gestione del territorio (v., per analogia, sentenza 1 ottobre 2009, causa C‑567/07, Woningstichting Sint Servatius) nonché la tutela dei consumatori (v., in particolare, sentenza 13 settembre 2007, causa C‑260/04, Commissione/Italia). Per contro, finalità di natura puramente economica non possono costituire un motivo imperativo di interesse generale (v., in tal senso, in particolare, sentenza 15 aprile 2010, causa C‑96/08, CIBA)”.
Primo legittimo limite alla libera iniziativa economica, sempre ribadito in sede eurounitaria, è dunque la materia ambientale, anch’essa governata da regole di armonizzazione UE; coerentemente, nel nostro ordinamento, la materia è sempre trattata come un settore a ponderazione procedimentale aggravata, ove la necessità di autorizzazioni non è caduta, pur dopo tutte le stagioni di liberalizzazione; d’altro canto la stessa Corte UE, già con la sentenza 28.2.1991 in causa C-360/87, ha condannato proprio il nostro paese per violazione della normativa comunitaria consistita nell’aver previsto che l’autorizzazione allo scarico in acque sotterranee si potesse conseguire in via tacita anzicchè esplicita; in particolare la Corte ritenne all’epoca incompatibile con la prescrizioni della direttiva 80/68/CEE la possibilità che determinati scarichi ottenessero una autorizzazione per silentium. In questo ambito, dunque, non solo la liberalizzazione in senso sostanziale non è prevista ma la stessa semplificazione procedimentale, che induce provvedimenti taciti e quindi non garantisce l’esplicita ponderazione degli interessi, può talvolta essere inibita.
In termini più generali l’ordinamento europeo privilegia l’autorizzazione, espressa o meno, là dove si ritiene che l’eventuale riduzione in pristino ex post non sia facilmente realizzabile (è appunto il caso del danno ambientale), favorendo invece la semplificazione e la liberalizzazione là dove anche controlli a posteriori possano avere la medesima efficacia ripristinatoria.
Alla luce di questi principi mi pare, ad esempio, si debba considerare tuttora valido, per dopo le ultime evoluzioni dell’art. 19 della l. n. 241/90, quanto affermato dalla giurisprudenza nazionale con riferimento all’art. 216 del t.u. ambientale in relazione all’autosmaltimento di rifiuti non pericolosi; il meccanismo di autorizzazione semplificata ivi descritto, che nel contesto delle numerose modifiche semplificatorie potrebbe prestarsi a varie letture, si declina tuttora come autorizzazione tacita e non come liberalizzazione, con persistenza del controllo preventivo da parte della PA circa il corretto esercizio dell’attività secondo i parametri di legge (TAR Lombardia 2311/2011).
Ancora, secondo la giurisprudenza UE, le ragioni della liberalizzazione non possono prevalere su quelle di tutela dei consumatori, prevenzione delle frodi e delle infiltrazioni criminali, prevenzione sociale. Rappresenta un esempio di questa casistica la prevenzione della ludopatia; in tema di giochi (sentenze 19.12.2018 in causa C-375/17 e 4.2.2016 in causa C-336/14) le limitazioni apposte dagli ordinamenti nazionali, tra cui la necessità di dotarsi di apposite autorizzazioni/concessioni con soggezione a controlli di ordine pubblico, sono state ritenute legittime. La prevenzione della ludopatia ha altresì attinenza con la salute, altro legittimo motivo imperativo di interesse generale. Coerentemente, nel nostro ordinamento, la Corte Costituzionale ha ritenuto conformi al principio di tutela della libera iniziativa economica, nei limiti dell’utilità sociale, le disposizioni che in questa materia mantengono un regime autorizzatorio nonché gli interventi di leggi regionali che hanno posto limiti di orari o, attraverso il cosiddetto “distanziometro”, di localizzazione alle attività che offrono gioco d’azzardo, in particolare macchinette VLT (da ultimo Corte costituzionale n. 27/2019 e, già in precedenza, sentenze nn. 108/2017, 220/2014, 300/2011, 72/2010, 237/2006). Il controllo amministrativo è finalizzato, in questo caso, ad indurre, per il mezzo della pianificazione, la rarefazione di un servizio considerato oggettivamente dannoso per la salute.
Le esigenze di tutela della salute vengono poi addotte, anche se con finalità diametralmente opposte, a giustificazione di politiche pianificatorie in materia di servizio farmaceutico (ex pluribus già la grande sezione della Corte di giustizia, sentenza 1.6.2010 in cause riunite C-570/07 e C-571/07). Anche in tal caso la giurisprudenza costituzionale italiana risulta coerente ed ha legittimato la persistenza di uno dei pochissimi sistemi di sostanziale organizzazione per per piante organiche (anche se con evoluzione più che altro “terminologica” della disciplina) di esercizi commerciali che ancora resiste, quello, appunto, delle farmacie (ex pluribus Corte costituzionale n. 76/2008 e n. 295/2009; idem n. 216/2014).
Nell’applicazione di tutte le restrizioni ammesse alle libertà del Trattato occorre sempre e comunque essere guidati dal principio di proporzionalità (sentenza 15.4.2010 in causa C-96/08) che, per la Corte di giustizia, si declina quale idoneità del mezzo al fine e coerenza tra le eccezioni invocate e il fine dichiarato; non è ad esempio stata ritenuta coerente al dichiarato fine di prevenzione delle frodi la scelta italiana di prorogare le concessioni sulle scommesse ippiche a vantaggio di chi già ne era titolare (sentenza 13.9.2007 in causa C-260/04). Una applicazione del principio di proporzionalità declinata in termini di coerenza si rinviene anche nella sentenza 30.6.2011, in causa C-212/08, in cui si legge che “dalla giurisprudenza della Corte risulta che gli inconvenienti amministrativi non costituiscono un motivo atto a giustificare un ostacolo ad una libertà fondamentale garantita dal diritto dell’Unione”. L’affermazione, che letta in termini isolati può apparire in contrasto con il principio per il quale l’eliminazione delle barriere amministrative – e dunque la semplificazione – è tra gli obiettivi della politica europea della concorrenza, deve essere contestualizzata in relazione alla fattispecie in cui è stata resa la pronuncia che ha, in effetti, fatto applicazione del principio di proporzionalità; infatti nel caso specifico lo Stato interessato intendeva giustificare una situazione di monopolio nella gestione di una concessione sull’assunto che controllare un solo concessionario è più agevole dal punto di vista amministrativo che controllarne un maggior numero, tesi palesemente esorbitante dalle ragioni di mera semplificazione.
Oscillano poi sul confine della proporzionalità anche alcune delle misure, più volte salvate tanto dalla Corte di giustizia che da quella Costituzionale, dettate nel nostro ordinamento in tema di farmacie, quale in particolare le prescritta distanza minima dei 200 metri tra i vari esercizi; nell’ordinanza 17.12.2010 resa in causa C-217/99 la Corte di giustizia, pur ribadendo che la soluzione è finalizzata ad impedire una concentrazione di esercizi nelle sole zone più attraenti e dunque a garantire la diffusione del servizio, ha precisato che “una stretta applicazione della condizione relativa alla distanza minima tra le farmacie, rischia di non assicurare un accesso adeguato al servizio farmaceutico in talune zone geografiche densamente popolate. In tali zone, infatti, la densità di popolazione attorno ad una farmacia può superare nettamente il numero di abitanti fissato in via forfetaria. In queste specifiche circostanze l’applicazione della condizione della distanza minima di 200 metri tra le farmacie rischierebbe di condurre ad una situazione in cui il perimetro previsto per una sola farmacia includerebbe più di 4000 o 5000 abitanti. Non si può escludere, pertanto, che gli abitanti delle zone con queste caratteristiche possano trovare difficoltà, in conseguenza della rigida applicazione della regola sulla distanza minima, ad accedere ad una farmacia in condizioni che permettano di assicurare un servizio farmaceutico adeguato (v. sentenza Blanco Pérez e Chao Gómez). In tali circostanze spetta al giudice nazionale verificare se le autorità competenti siano legittimate ad autorizzare farmacie supplementari in ogni zona geografica con particolari caratteristiche demografiche nella quale l’applicazione rigida delle regole di base dei 4 000 o 5 000 abitanti e dei 200 metri rischierebbe di impedire l’apertura di un numero di farmacie sufficiente ad assicurare un servizio farmaceutico adeguato (v. sentenza Blanco Pérez e Chao Gómez)”.
Una sintesi di questi principi, tale da necessitare di essere calata sul caso concreto, si legge nel testo del dl. n. 201/2011, convertito in l. n. 214/2011, art. 34 co. 2 che recita: “La disciplina delle attività economiche è improntata al principio di libertà di accesso, di organizzazione e di svolgimento, fatte salve le esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione di previ atti amministrativi di assenso o autorizzazione o di controllo, nel rispetto del principio di proporzionalità”, concetto sostanzialmente reiterato nel successivo co. 4. Resta il dubbio (sul punto si veda anche la giurisprudenza costituzionale citata nel paragrafo successivo) dell’utilità di affermazioni di principio da parte del legislatore che, con una sorta di ricognizione dei principi generali elaborati in materia, nulla aggiungono al sistema, anzi al più omettono di porre in essere scelte riconoscibili.
Una puntuale salvaguardia di quelli che per il sistema UE possono legittimamente costituire motivi imperativi di interesse generale si rinviene poi esplicitamente nell’art. 31 del medesimo d.l. n. 201/2011 che recita: “Secondo la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro il 30 settembre 2012, potendo prevedere al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali”; già l’art. 6 co. 2 del d.lgs. n. 114/1998 assegna alle Regioni, in sede di programmazione della rete distributiva, il compito di individuare “i limiti ai quali sono sottoposti gli insediamenti commerciali in relazione alla tutela dei beni artistici, culturali e ambientali, nonché dell’arredo urbano, ai quali sono sottoposte le imprese commerciali nei centri storici e nelle località di particolare interesse artistico e naturale.”
La razionale gestione del territorio entra così esplicitamente tra i limiti all’iniziativa economica quale motivo imperativo di interesse generale; si tratta di un riconoscimento importante fatto proprio dalla giurisprudenza eurounitaria che rafforza e completa l’evoluzione della materia urbanistica in senso di luogo giuridico e spaziale di complessiva gestione delle direttrici di sviluppo di un territorio, impostazione ormai da tempo avallata dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa; tale esito, come meglio infra chiarito, pone dubbi circa la portata degli effetti di liberalizzazione indotti dalla più recente formulazione dell’art. 19 della l. n. 241/90.  
In questo contesto il supremo consesso amministrativo ha ribadito che “il piano regolatore è appunto lo strumento attraverso cui trovano composizione i vari interessi espressi dal territorio e la sua stessa formazione consente l’emersione di quei “motivi imperativi di interesse generale” ai quali, secondo i principi comunitari, vanno ricondotti i limiti all’esercizio delle attività economiche” (Cds sez. IV, n. 1831/2019). Con specifico riferimento ad un denunciato presunto contrasto tra norme urbanistiche a tutela dei centri storici e norme di liberalizzazione la citata pronuncia ha proposto la seguente sintesi: “il Collegio richiama e condivide le argomentazioni sviluppate dalla Sezione… nella sentenza n. 5029 del 22 agosto 2018. Con tale decisione è stata anzitutto confutata la tesi secondo cui un vincolo urbanistico di destinazione possa assumere, in radice “un carattere di restrizione della concorrenza o, comunque, di attenuazione della libertà d’impresa”. Misure restrittive della concorrenza sono infatti quelle “capaci di alterare il funzionamento di un intero mercato, inteso come insieme sistemico, connotato da un certo ordine di grandezza: il bene giuridico tutelato dalle norme in questione è, del resto, costituito dalla libertà di impresa traguardata in senso ampio, ossia come valore generale ed interesse di tutta la collettività, in particolare quale strumento di regolazione dell’attività economica in tesi atto a generare ricadute positive per i consociati”. Nel caso di specie, invece, le avversate previsioni di piano “afferiscono a specifici e ben individuati cespiti (di cui, in ottica civilistica, conformano la facoltà di godimento, senza intaccarne in alcun modo la facoltà di disposizione) e, pertanto, non hanno un rilievo generale idoneo a consentirne la potenziale ascrizione entro il genus delle misure restrittive della concorrenza, cui soltanto fa riferimento la normativa europea e nazionale.” La Sezione ha soggiunto che siffatta limitazione delle possibili destinazioni funzionali “risponde a ragioni, interessi e scopi non economici, ma lato sensu urbanistici di rilievo anche europeo: le censurate previsioni, infatti, non sono volte, neppure indirettamente, a conformare un mercato, bensì a regolare un territorio, in particolare preservandone peculiari caratteristiche storico-identitarie che, per vero, costituiscono un valore anche per la disciplina normativa di origine europea e che certo un Comune, quale ente esponenziale della collettività locale, ha titolo, interesse e legittimazione a stabilire”. E’ pertanto non solo fisiologico che “la pianificazione urbanistica determini riflessi, anche incisivi, di ordine economico (basti pensare alle zonizzazioni)”, ma anche ben possibile che “un bene, pur privo in sé di valenza culturale, rivesta una oggettiva centralità identitaria per una città e sia traguardato dagli abitanti (e dagli appositi organi elettivi comunali) come elemento idoneo a rappresentarne il passato ed a veicolarne fisicamente i trascorsi”. Ad ulteriore supporto della non sindacabilità delle scelte urbanistiche in esame, siccome afferenti al merito dell’azione amministrativa, la Sezione ha ritenuto altresì inconferente anche il dato dell’asserita anti – economicità della gestione dei locali secondo la destinazione impressa dal piano e quindi del loro non attuale utilizzo, costituendo tale evenienza soltanto “un dato contingente e strutturalmente mutevole in funzione della domanda e delle generali condizioni di mercato, tale da non determinare ex se l’illegittimità della previsione de qua.” A tali perspicue argomentazioni può solo aggiungersi che la stretta correlazione sussistente tra le attività commerciali e la vivibilità dei centri storici delle nostre città (quale prefigurata dalla pianificazione territoriale) è un dato non solo notorio ma anche oggetto di specifica considerazione da parte del legislatore, in particolare là dove tra gli obiettivi degli indirizzi per l’insediamento delle attività commerciali che debbono essere definiti dalla Regioni ha indicato quello di salvaguardare e riqualificare i centri storici anche attraverso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti ed il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio artistico ambientale; del pari le Regioni, nel definire gli indirizzi generali devono tener conto principalmente delle caratteristiche dei centri storici al fine di salvaguardare e qualificare la presenza delle attività commerciali ed artigianali in grado di svolgere un servizio di vicinato ed evitare il processo di espulsione delle attività commerciali e artigianali più radicate nel tessuto sociale (così l’art. 6, comma 1 e 3, del D.Lgs. n. 114 del 31 marzo 1998). Più in generale, per quanto concerne i principi in materia di liberalizzazione delle attività economiche, la Sezione ha confutato anche la tesi secondo cui essi potrebbero consentire ai Comuni di travolgere o comunque diversamente interpretare la disciplina recata dagli strumenti urbanistici generali. In particolare “La libera iniziativa economica dei costruttori e il godimento delle aree fabbricabili devono pur sempre sottostare ai provvedimenti nei quali si concreta, legittimamente, il governo del territorio. La complessa normativa statale che ha introdotto principi di liberalizzazione nel settore commerciale, adeguando l’ordinamento nazionale ai principi di concorrenza recati dal diritto comunitario europeo, non ha infatti mai preteso di annullare, sostituire o rendere inefficace la normativa comunale sul governo del territorio, ma semmai ha previsto nell’ambito dell’ordinato assetto della pianificazione la rilevanza degli stessi principi secondo un modello di proporzionalità delle limitazioni urbanistiche apposte dall’autorità comunale” (20 luglio 2017, n. 3754; cfr. anche, IV Sez., 4 maggio 2017, n. 2026). Ed inoltre “La liberalizzazione del mercato dei servizi sancita dalle norme comunitarie e dai provvedimenti legislativi, che vi hanno dato attuazione, non può dunque essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l’attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla Pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali” (sentenza n. 3754/2017, cit.).”
In definitiva il giudice amministrativo di appello disegna il corretto equilibrio delle istanze di liberalizzazione indotte dall’ordinamento sovranazionale, le quali, esclusa ogni limitazione fondata su ragioni a loro volta prettamente economiche, trovano invece legittimo limite là dove le norme di localizzazione, da un lato, rappresentino un intervento puntuale non destinato ad incidere sul mercato nel suo complesso, dall’altro, siano epifania di “motivi imperativi di interesse generale”. Tra l’altro risulta significativo che il principio sia stato affermato in una fattispecie di limitazione a nuovi insediamenti commerciali nei centri storici che comporta, di fatto, un limite asimmetrico, perché “chiude” il mercato dando indirettamente un vantaggio agli operatori già insediati; tuttavia tale indiretto vantaggio non rappresenta in alcun modo l’obiettivo della normativa volta invece a impedire lo snaturamento dei centri storici.
3. La libera iniziativa economica a confronto con il governo del territorio nel sistema delle fonti e nella giurisprudenza costituzionale.
Il percorso della giurisprudenza costituzionale in materia, svoltosi in coerenza con l’ordinamento eurounitario, si snoda sui paralleli binari della libera iniziativa economica, dell’urbanistica quale governo del territorio e della semplificazione amministrativa.
Aspetto peculiare della giurisprudenza costituzionale è ovviamente quello del conflitto tra Stato e Regioni, quindi dei profili di equilibrio istituzionale nel sistema delle fonti.
Le coordinate di riferimento per la corretta allocazione delle competenze descritte nel titolo V della Costituzione si rinvengono nella nota sentenza n. 303/2003, che ha posto le basi per un percorso di “riaccentramento” di competenze legislative le quali rischiavano, dopo una stagione di entusiasmo per il decentramento, di patire una eccessiva frammentazione.
Quanto alla libera iniziativa economica, essa si ascrive alla materia della “concorrenza”; trattasi di materia di competenza esclusiva statale, trasversale a molti settori di disciplina e che esige una uniformità di trattamento sul territorio nazionale e quindi, secondo il principio di sussidiarietà, una visione “ascendente” delle questioni, anche a rischio di “espropriare” gli enti locali di forme di controllo sul loro territorio; le tensioni sono difficilmente evitabili, tanto più che le Regioni hanno, per contro, una competenza concorrente in tema di governo del territorio ed una esclusiva in tema di commercio nazionale.
Il contemperamento delle varie esigenze si realizza attraverso il principio di leale collaborazione, il quale presuppone l’adozione di intese, anche se, purtroppo, queste spesso scontano ritardi e veti incrociati, con veri e propri vuoti normativi in fase di attuazione.
Scorrendo la giurisprudenza costituzionale emerge che, come già ricordato, il sistema delle Regioni ha in prima battuta “contrastato” gli sforzi di liberalizzazione.
A fronte delle contestazioni mosse da varie regioni al d.l. n. 138/2011, che imponeva agli enti locali l’adeguamento dei rispettivi ordinamenti alle esigenze della libera iniziativa economica, la Corte, nella sentenza n. 212/2010, ha affermato:
“per quanto l’autoqualificazione offerta dal legislatore non sia mai di per sé risolutiva, in questo caso appare corretto inquadrare il principio della liberalizzazione delle attività economiche nell’ambito della competenza statale in tema di tutela della concorrenza. Quest’ultimo concetto, la concorrenza, ha un contenuto complesso in quanto ricomprende non solo l’insieme delle misure antitrust, ma anche azioni di liberalizzazione, che mirano ad assicurare e promuovere la concorrenza “nel mercato” e “per il mercato”, secondo gli sviluppi ormai consolidati nell’ordinamento europeo e internazionale e più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis sentenze nn. 45 e 270 del 2010, n. 160 del 2009, nn. 403 e 401 del 2007). Pertanto la liberalizzazione intesa come razionalizzazione della regolazione costituisce uno degli strumenti di promozione delle concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze nn. 247 e 152 del 2010, n. 167 del 2009) genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva, reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale”.
La Corte non ha in questo caso mancato di dichiarare incostituzionale l’art. 3 co. 3 del d.l. n. 138/2011, censurando il legislatore nazionale per una operazione di abrogazione generalizzata quanto indeterminata di “tutte le norme statali incompatibili” con i principi di liberalizzazione, e ciò per l’evidente ragione che la previsione (secondo una tecnica normativa sempre più frequente, che non si assume la responsabilità delle scelte né della loro contestualizzazione nell’ordinamento), eludendo in radice la necessaria e delicata opera di ponderazione che è propria al legislatore, aveva posto “le Regioni in una condizione di obiettiva incertezza” e gli interpreti, tra cui la Corte stessa, nell’altrettanto oggettiva difficoltà di ricostruzione del sistema, con il risultato che “anzicchè favorire la tutela della concorrenza” finiva per “ostacolarla ingenerando grave incertezza fra i legislatori regionali e fra gli operatori economici.”
Si tratta di un monito in favore della chiarezza delle regole, spesso obliterata, primo ed indispensabile passaggio di ogni seria liberalizzazione.
Ancora, nella sentenza n. 299/2012, che ha interessato il d.l. n. 201/2011 nella parte in cui sono stati definitivamente liberalizzati gli orari degli esercizi commerciali, previsione anch’essa contestata dalle Regioni, la Corte ha ribadito che la nozione di concorrenza fatta propria dalla Costituzione riflette quella eurounitaria ed include le misure dinamiche di promozione dell’apertura dei mercati. La liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali, per quanto misura di apparente dettaglio, non è ascrivibile al commercio poiché anche “le modalità di esercizio dell’attività, nella parte influente sulla competitività delle imprese” appartengono al dominio della concorrenza. In questa peculiare materia, peraltro, l’eventuale invasione della sfera di competenza legislativa delle Regioni “può essere evitata non tramite la distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio, ma esclusivamente con la rigorosa verifica della effettiva funzionalità delle norme statali alla tutela della concorrenza. Quest’ultima infatti, per sua natura, non può tollerare, anche per aspetti non essenziali, differenziazioni territoriali, che finirebbero per limitare, o addirittura neutralizzare, gli effetti delle norme di garanzia” (sentenza n. 443 del 2007).
Nella decisione la Corte si è peritata di precisare che, pur a fronte della liberalizzazione, non si determina alcuna deroga “rispetto agli obblighi e alle prescrizioni cui tali esercizi sono tenuti in base alla legislazione posta a tutela di altri interessi costituzionalmente rilevanti quali l’ambiente, l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza, la salute e la quiete pubblica. Sarà, ad esempio, quindi possibile, già sulla base della vigente legislazione, per l’autorità amministrativa, nell’esercizio dei propri poteri, ordinare il divieto di vendita di bevande alcoliche in determinati orari, oltre a quello legislativamente previsto dall’art. 6 del d.l. 3 agosto 2007, n. 117, recante «Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione» (scrutinato da questa Corte con la sentenza n. 152 del 2010); oppure disporre la chiusura degli esercizi commerciali per motivi di ordine pubblico (sentenza n. 259 del 2010, relativa all’applicazione dell’art. 100 del regio decreto 16 giugno 1931, recante «Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza»); così come dovranno essere rispettate le norme che vietano emissioni troppo rumorose a presidio della quiete pubblica (avverso le quali è anche prevista dall’art. 659 del codice penale una tutela di carattere penale)”. La precisazione risulta importante anche per un corretto inquadramento degli effetti dell’art. 19 della l. n. 241/90, su cui infra nel testo.
Come già ricordato la amministrazioni possono, anzi debbono, raccordare la localizzazione delle attività con le peculiari esigenze del territorio, potendo inserire nella propria pianificazione aree ad accesso interdetto o limitato per gli esercizi commerciali, a tutela della salute, dell’ambiente, ivi incluso quello urbano, e dei beni culturali. La validità dei limiti imposti al commercio per via urbanistica è soggetta a valutazioni di proporzionalità; si intende dire che la tutela del territorio non può essere invocata per giustificare l’espulsione indiscriminata di determinate attività da interi settori del territorio (in tal senso, ex pluribus, sentenza n. 38/2013 della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale una legge della Provincia autonoma di Bolzano che di fatto escludeva le attività commerciali dalle aree produttive).
Sono poi state bloccate dalla Corte una serie di iniziative regionali volte a porre rigorosi e generalizzati limiti all’insediamento di impianti di produzione e distribuzione di energia rinnovabile, nonché delle reti di telecomunicazione. La materia sconta specifiche peculiarità. Tali infrastrutture beneficiano infatti di una normativa speciale di favore (d.lgs. n. 387/2003 e 259/2003) di diretta derivazione eurounitaria, con soluzioni di semplificazione amministrativa in un certo senso anticipatrici; inoltre la distribuzione dell’energia appartiene anche alla materia di competenza concorrente “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” in cui lo Stato si riserva di dettare i principi fondamentali.
La sentenza n. 121/2014 della Corte Costituzionale, ad esempio, ha censurato una legge della regione Molise che aveva introdotto limiti aprioristici all’insediamento di impianti eolici sul territorio, mentre la sentenza n. 336/2005 ha analizzato le censure mosse dalle Regioni avverso il codice delle comunicazioni elettroniche, evidenziando come tali disposizioni rappresentino un importante tassello della liberalizzazione dei servizi pubblici e del superamento dei preesistenti monopoli e precisando che, quando i procedimenti amministrativi sono di diretta derivazione eurounitaria, “l’individuazione dei principi fondamentali non può prescindere dall’analisi dello specifico contenuto e delle stesse finalità ed esigenze perseguite a livello comunitario. In altri termini gli obiettivi posti dalle direttive comunitarie, pur non incidendo sulle modalità di ripartizione delle competenze, possono di fatto richiedere una peculiare articolazione del rapporto norme di principio norme di dettaglio. Nella specie, la puntuale attuazione delle prescrizioni comunitarie, secondo cui le procedure di rilascio del titolo abilitativo per l’installazione degli impianti devono essere improntate al rispetto dei canoni della tempestività e della non discriminazione, richiede di regola un intervento del legislatore statale che garantisca l’esistenza di un unitario procedimento sull’intero territorio nazionale, caratterizzato, inoltre, da regole che ne consentano una conclusione in tempi brevi.”
Si perviene così al nesso che si instaura tra l’apertura dei mercati e le misure di semplificazione amministrativa, ampiamente indagato dalla giurisprudenza costituzionale.
La disciplina della SCIA, qui di interesse, e dei titoli abilitativi in genere, appartiene ai principi fondamentali dell’ordinamento (così già la sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2003, con riferimento alla allora DIA), quindi si impone anche nelle materie di competenza concorrente; la SCIA è poi qualificata dall’art. 29 co. 2 ter della l. n. 241/90 attinente ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117 della Costituzione, qualificazione che, se di per sé è una autoqualificazione del legislatore nazionale non idonea ad imporsi alla legislazione regionale, ha trovato avallo nella sentenza della Corte Costituzionale n. 121/2014. Appartiene infine alla disciplina del titolo, e quindi ai principi fondamentali della materia, anche la connessa regolazione dei tempi e modi di controllo e della vigilanza (Corte cost. n. 49/2016).
L’ultimo approdo della giurisprudenza costituzionale in materia di SCIA è la sentenza n. 45/2019, alla cui analisi si procederà nel successivo paragrafo.
  1. L’art. 19 della l. n. 241/90 dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 45/2019.
L’art. 19 della l. n. 241/90 è stato interessato da una tormentata evoluzione normativa e giurisprudenziale; il contesto di questo intervento suggerisce di dare per scontata l’intera “storia” della norma e delle interpretazioni giurisprudenziali che la hanno interessata, muovendo dal dato positivo attuale per confrontarlo con l’ultimo rilevante intervento della Corte Costituzionale, rappresentato dalla sentenza n. 45/2019.
L’art. 19 della l. n. 241/90, per quanto di interesse, recita: “1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell’interessato, con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria……2  L’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata, anche nei casi di cui all’articolo 19-bis, comma 2, dalla data della presentazione della segnalazione all’amministrazione competente. 3. L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l’amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta giorni per l’adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l’attività si intende vietata. Con lo stesso atto motivato, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale, l’amministrazione dispone la sospensione dell’attività intrapresa. L’atto motivato interrompe il termine di cui al primo periodo, che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l’adozione delle suddette misure. In assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso termine, cessano gli effetti della sospensione eventualmente adottata. 4. Decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies…6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
Il testo in vigore è l’esito delle modifiche da ultimo apportate dalla l. n. 124/2015 e dal d.lgs. n. 126/2016; la riforma del 2015 ha contestualmente introdotto nell’art. 21 nonies della l. n. 241/90 un termine di ragionevolezza dell’annullamento d’ufficio, pari a 18 mesi (fatti salvi i casi di dichiarazioni false o mendaci), il quale, per effetto del rinvio presente nell’art. 19, si applica dunque anche ai controlli esercitati dall’amministrazione in relazione alla SCIA su sollecitazione del terzo.
L’art. 2 co. 4 del d.lgs. n. 222/2016 ha infine chiarito che, in ipotesi di regime amministrativo della SCIA per le attività private, i 18 mesi iniziano a decorrere “dalla data di scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell’amministrazione competente” (escluso sempre il caso di dichiarazioni false o mendaci).
Infine l’art. 19 bis della l. n. 241/90, inserito dall’art. 3 del d.lgs. n. 126/2016, intitolato “concentrazione dei regimi amministrativi”, ha ulteriormente semplificato le fattispecie in cui, per lo svolgimento di un’attività soggetta a SCIA, sono necessarie altre “SCIA, comunicazioni, attestazioni asseverazioni e notifiche” (art. 19 bis co. 2), ovvero “l’acquisizione di atti di assenso comunque denominati, pareri di altri uffici e amministrazione, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive” (art. 19 bis co. 3, cosiddetta SCIA spuria), il cui meccanismo deve poter essere messo in moto indirizzandosi all’unica amministrazione titolare del procedimento principale.
L’annosa diatriba circa la natura privatistica ovvero pubblicistica e provvedimentale della SCIA dovrebbe quantomeno ritenersi chiusa dopo l’esplicito intervento del legislatore del 2011 e la seguente lapidaria affermazione della Corte Costituzionale nella sentenza n. 45/2019: “Il dato di fondo è che si deve dare per acquisita la scelta del legislatore nel senso della liberalizzazione dell’attività oggetto di segnalazione, cosicché la fase amministrativa che ad essa accede costituisce una – sia pur importante – parentesi puntualmente delimitata nei modi e nei tempi. Una dilatazione temporale dei poteri di verifica, per di più con modalità indeterminate, comporterebbe, invece, quel recupero dell’istituto all’area amministrativa tradizionale, che il legislatore ha inteso inequivocabilmente escludere.”
L’affermazione non è di poco conto se si considera che, nella stessa giurisprudenza costituzionale, in precedenza si rinvengono affermazioni secondo cui la SCIA, al pari della DIA, è “finalizzata alla semplificazione dei procedimenti di abilitazione all’esercizio di attività per le quali sia necessario un controllo da parte della PA” (Corte Cost., 9 maggio 2014, n. 121) ovvero, sempre con riferimento alla SCIA, per le quali “la valorizzazione dei principi di semplificazione indotti anche dalla normativa comunitaria investono tutti i procedimenti di abilitazione all’esercizio di attività per le quale sia necessario un controllo da parte dalla PA” (Corte Cost. n. 336/2005), mantenendo (come nella coeva giurisprudenza amministrativa) una ambiguità circa la natura di liberalizzazione sostanziale ovvero mera semplificazione procedurale della SCIA.
La disciplina vigente configura dunque una liberalizzazione in senso sostanziale, con assenza ab origine di valutazioni amministrative che realizzino un contemperamento – anche tacito – tra plurimi interessi pubblici e privati che costituiscono il proprium dell’attività provvedimentale, salva l’avvertenza della possibilità (propiziata ed incentivata dalla esplicita necessaria segnalazione) per l’amministrazione di verificare la conformità al modello normativo di disciplina dello svolgimento dell’attività entro un termine dato.
 
Alla luce delle considerazioni svolte nei precedenti paragrafi è lecito porsi il dubbio circa il paradossale possibile anacronismo della disposizione; la norma, come detto, è l’esito faticoso dell’implementazione nel nostro ordinamento degli impulsi di liberalizzazione dettati in sede eurounitaria; le indicazioni sovranazionali sono tuttavia maturate in un contesto di notevoli differenziazioni di disciplina dei singoli Stati e di proliferazione di limiti quantitativi alla concorrenza che sono in obiettiva via di superamento e comunque in palese contrato con il TFUE. L’art. 19, tuttavia, rischia oggi di travolgere ogni esplicita o implicita previa valutazione di carattere pubblicistico, in un nuovo contesto in cui limiti di localizzazione dettati in ambito urbanistico appaiono legittimamente resistere non quale misura protezionistica del mercato, ma quale presidio di interessi generali di carattere imperativo e di valori (l’ambiente, la salute, la tutela consumeristica, il razionale sviluppo del territorio) che ben difficilmente possono essere recuperati a posteriori, una volta che la lesione si è consumata.
La Corte pare avere assorbito questa criticità non ritenendo fondata la censura di violazione dell’art. 97 della Costituzione; si deve però notare che la Corte si è pronunciata su una fattispecie in cui si discuteva di semplici parametri edilizi – apertura di una finestra- sicchè non è da escludere che il problema sia diversamente affrontato e risolto là dove l’interesse leso, di carattere urbanistico, assurga a interesse generale di natura imperativa anche per l’ordinamento europeo.
Resta la necessità di prendere ad oggi atto ad ogni fine dell’impostazione sposata dal giudice delle leggi, cercando di ricostruire il sistema in forma coerente, benchè l’operazione non sia immediata per la complessità degli interessi coinvolti, in particolare là dove la SCIA abbia ad oggetto l’esercizio di attività economiche.
E’ pacifico innanzitutto, in giurisprudenza, che le autorizzazioni commerciali presuppongono la verifica di regolarità urbanistico edilizia delle strutture in cui le attività si insediano (ex pluribus, ancora recentemente, Cons. St., sez. V, 3212/2018). L’attuale art. 19 porta a concludere che, se l’amministrazione intende contestare il regolare insediamento urbanistico edilizio dell’attività lo deve fare nel ristretto margine di sessanta giorni e, ove vi sia sollecitazione del terzo, di 18 mesi. Si può poi quantomeno ipotizzare, benchè la SCIA in materia edilizia sia soggetta al più breve ed autonomo termine di controllo di 30 giorni, che, se una struttura è devoluta ad una attività commerciale, la sua verifica (anche di tipo edilizio) ricadrà nei nuovi tempi e modi di verifica propri della SCIA presentata a tal fine; l’effetto evoca la discrasia che si crea anche tra la legittima permanenza di un immobile condonato e la sua inidoneità ad ulteriore sfruttamento economico. Ovviamente le attività economiche e le pertinenti pratiche di SCIA non presuppongono solo il rispetto di requisiti di localizzazione ed idoneità edilizia ma, ognuna secondo le caratteristiche che le sono proprie, presentano esigenze di rispetto della normativa ambientale, acustica, della disciplina igienico sanitaria, richiedono qualificazioni soggettive di esercizio ecc. Posto che si tratta, appunto, di requisiti non di mera apertura ma di “esercizio”, rispetto ad attività destinate a perdurare in tale “esercizio”, tutti i diversi e specifici poteri di controllo della pubblica amministrazione previsti nelle varie leggi speciali di settore (con connesse sanzioni, talvolta anche inibitorie in forma specifica, quali la chiusura e la sospensione dell’attività) non restano assorbiti dai tempi e modi di controllo della SCIA, non essendo immaginabile, ad esempio, che una panetteria continui a funzionare in violazione delle regole igienico sanitarie solo perché ne ha autocertificato il rispetto. A tali conclusioni peraltro inducono le già riportate precisazioni espresse dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 299/2012 e la stessa valutazione di contesto invocata dalla sentenza n. 45/2019, su cui infra.
Il paradigma adottato dal legislatore esclude la presenza di un “atto amministrativo”, circostanza che ha dato luogo ad una sorta di reazione da horror vacui da parte delle giurisprudenza amministrativa; è tuttavia vero che la mancanza di un atto crea criticità non solo in quanto limita la possibile contestazione da parte dei terzi ma anche perché può tradursi in una riduzione di garanzie per lo stesso titolare dell’attività il quale, con il consolidarsi di un titolo, potrebbe invocare un affidamento ben maggiore; la soluzione è poi di fatto incompatibile con una rivalutazione da parte dell’amministrazione in un contesto di autotutela tradizionale[1].
La liberalizzazione rappresenta infatti sì l’eliminazione di una barriera amministrativa ma comporta anche la ricaduta di nuovi rischi sul privato, poiché la mera autodichiarazione di operare conformemente all’ordinamento non è di per sé idonea a giustificare affidamento alcuno. Non si comprende infatti su cosa si dovrebbe fondare l’affidamento (nel senso pieno del termine, che presuppone una condotta altrui idonea ad ingenerarlo) del soggetto presentatore di una SCIA, dal momento che non vi è alcuna condotta di approvazione da parte dell’amministrazione, ancorchè implicitamente espressa; al più si verifica infatti la casuale circostanza di non essere stati estratti per la verifica delle condizioni autocertificate. Mi pare che l’ordinamento non conosca forme di affidamento sulle proprie semplici dichiarazioni, per le quali, per contro, opera di norma l’autoresponsabilità. Resta evidente l’esigenza di certezza del proprio agire da parte del privato (anch’essa ascrivibile, ancorchè in senso più lato, all’affidamento), la quale tuttavia, in un contesto in cui non vi è attività amministrativa, trova oggi ostacolo non in (inesistenti) barriere amministrative bensì nella complessità e oscurità della normativa.
Eliminando la mediazione amministrativa si finisce così per mettere a fuoco il diverso problema a monte che ostacola l’iniziativa economica, ossia l’incertezza e complessità delle norme.
Se questo è il presupposto da cui muovere, il termine apposto dalla legge per la reazione dell’amministrazione non sembra presidiare esattamente un affidamento (nel senso pieno del termine), quanto una più semplice (e pur meritevole di tutela) esigenza di certezza delle regole e stabilità nella gestione di una attività economica, che richiede investimenti e genera ricadute sociali. La situazione pare assimilabile a quelle posizioni di diritto soggettivo che, nel diritto civile, si presidiano con la decadenza dalla contestazione (evenienza fisiologica nel diritto amministrativo quando vi è un atto da impugnare), poiché, alla richiesta di eventuale tutela di un singolo, si ritiene si contrapponga un interesse super-individuale alla stabilità delle posizioni giuridiche soggettive (si pensi al lavoratore licenziato che chiede di essere riammesso nell’organizzazione d’impresa o al socio e condomino che si contrappongono all’interesse di gruppo alla stabilità degli atti societari/condominiali).
Ulteriore esito coerente con l’impostazione scelta è che non vi possa essere autotutela in senso tradizionale del termine, essendo quest’ultima, per definizione, una attività di secondo grado.
Al proposito il legislatore pare avere giocato con le parole, nella verosimile consapevolezza del rilievo appena menzionato e da più parti sollevato in relazione alla disciplina pregressa. La norma infatti evita il termine “autotutela” o “annullamento”, limitandosi ad invocare “le condizioni previste dall’art. 21 nonies”. Pare francamente uno sterile gioco di parole che sembra ignorare che, di norma, nomina sunt consequentia rerum e non il contrario; l’autotutela si sostanzia dei suoi presupposti che, analizzando l’art 21 nonies invocato, sono la sussistenza di un interesse pubblico alla rivalutazione e il termine ragionevole della stessa.
Tralasciando per un istante il termine ragionevole (oggi di fatto cristallizzato, ed in teoria apponibile anche con una semplice previsione di decadenza) mi sembra, nel concreto, difficile immaginare che la valutazione dell’interesse pubblico possa condurre l’amministrazione ad esiti tra loro differenti in fase di controllo successivo ai primi 30 o 60 giorni di attività; si intende dire che l’interesse pubblico menzionato dall’art. 21 nonies della l. n. 241/90, in quanto inserito in un contesto fisiologico di attività di secondo grado, presuppone che l’amministrazione possa dare varie risposte, disponendo di margini di comparazione e bilanciamento tra interessi pubblici e privati, comparazione che ha già realizzato con l’atto di primo grado e che, con il passare del tempo e il mutare delle condizioni, può assumere esiti diversi. Nel caso di specie l’unico interesse pubblico è invece già stato a priori valutato dal legislatore nel dettare le condizioni di esercizio dell’attività, quindi l’amministrazione si troverà a confrontare l’azione del privato con il paradigma legale; ne consegue che attribuire all’amministrazione una ri-valutazione dell’interesse pubblico, in questo caso, sembra equivalere ad attribuirle o un anomalo potere di mero avallo di una violazione di legge, in un ambito ove si assume che non vi sia altro interesse pubblico da bilanciare se non quello al rispetto della norma, ovvero un sostanziale vincolo a prendere atto della violazione e stigmatizzarla. Non è un caso se dottrina e giurisprudenza hanno sostenuto che questa fattispecie integra una anomala forma di autotutela obbligatoria, soluzione che sembra avallata dalla sentenza della Corte n. 45/2019.
Si potrebbe ancora obiettare che la valutazione ha un senso in relazione al già menzionato “affidamento”, da intendersi, come detto, fondato sul mero decorso del tempo; tuttavia l’unico margine di opinabilità sul punto è di fatto già stato risolto dal legislatore, imponendo brevi termini di intervento sia ai fini originariamente inibitori (60 o 30 giorni) sia su sollecitazione ed a tutela del terzo (18 mesi decorrenti dalla scadenza del termine per l’esercizio dei poteri inibitori).
Non si intende certo qui sostenere che non sia opportuna la previsione di una fase di controllo a beneficio del terzo e dello stesso interesse pubblico al rispetto della normativa, né che non sia corretto apporre una durata massima a tale fase ma, più semplicemente, che il bizantino meccanismo normativo del doppio termine, con il richiamo ai “presupposti” dell’autotutela, sembra piuttosto il residuo di un dialogo mal riuscito tra giurisprudenza e legislatore che non una coerente declinazione dei vari interessi in gioco.
Lo stesso risultato, in effetti, si raggiunge in forma più lineare con una previsione sanzionatoria in forma specifica soggetta a decadenza.
Da ultimo il cambio di paradigma, come detto, richiede riflessioni coerenti in ambiti connessi. Basti pensare, ad esempio, all’annosa questione dell’applicabilità della normativa antimafia a fronte della richiesta di titoli abilitativi all’esercizio di attività economiche. L’art. 89 del d.lgs. n. 159/2011 chiarisce che l’interessato deve autocertificare l’assenza di cause di decadenza previste dell’art. 67 del codice antimafia anche nel caso di “attività private sottoposte e regime autorizzatorio che possono essere intraprese su segnalazione certificata di inizio attività da parte del privato alla pubblica amministrazione competente”; inoltre, secondo la giurisprudenza, (da ultimo Cons. St. III, n. 6105/2019) il sistema delle informative e comunicazioni antimafia è volto a limitare l’infiltrazione criminale nell’economia legale e il primo (basato su meri indizi di infiltrazione criminale) trova applicazione comunque in tutti i casi di attività economiche che presuppongono un regime amministrativo. La soluzione si giustifica in quanto “nella prevenzione antimafia lo Stato deve assumere almeno la stessa flessibilità nelle azioni e la stessa rapida adattabilità nei metodi, che le mafie dimostrano nel contesto attuale” (Cons. St III, n. 6105/2019). L’intero sistema ha avuto avallo nella pronuncia della Corte costituzionale n. 4/2018.
E’ evidente che, già se si legge l’art. 89 del codice antimafia alla lettera ed alla luce dell’evoluzione che ha interessato la legge sul procedimento amministrativo, una “autorizzazione” in regime di “SCIA” appare oggi un ossimoro, per non dire del fatto che le autorizzazioni sono proprio recessive nell’ambito del commercio; è tuttavia altrettanto evidente che il legislatore del codice antimafia si è mosso in un diverso contesto e che la riforma del 2015 non ha certo inteso indurre inconsapevoli arretramenti nella normativa antimafia; per altro sembra anche difficile dubitare che la prevenzione delle infiltrazioni criminali non appartenga al novero delle ragioni imperative di interesse generale che fanno aggio sulla concorrenza e legittimano l’espansione di un sistema di controlli a ciò specificatamente finalizzati. Non resta che invocare, pur dopo le modifiche normative, una lettura “sostanziale” delle disposizioni (in effetti proposta nella menzionata sentenza del Consiglio di Stato), finalizzata ad inibire alla criminalità quelle attività economiche che entrano comunque in contatto specifico con i poteri pubblici per le loro caratteristiche di pervasiva caratterizzazione del tessuto economico, non senza la consapevolezza che ogni cambio di paradigma ha sempre ricadute di tipo sistemico di cui occorrerebbe farsi carico.
5. I poteri di controllo della amministrazione e la tutela del terzo; stato dell’arte e prospettive.
Nella vertenza decisa dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 45/2019 il giudice a quo aveva censurato l’art. 19 della l. n. 241/90 dubitando che la stessa potesse violare gli artt. 3, 117 e 97 della Costituzione. La Corte ha superato le censure chiarendo essa stessa, quantomeno, quale sia il dies ad quem per l’esercizio dei poteri di controllo sollecitati dal terzo (la scadenza dei 18 mesi, a loro volta decorrenti dallo spirare del termine per il controllo autonomo da parte dell’amministrazione), posto che, nel silenzio della legge sullo specifico punto, si erano affermate in giurisprudenza svariate tesi circa il momento da e fino al quale il terzo avrebbe potuto sollecitare dall’amministrazione l’intervento repressivo.
Anche dopo tale intervento chiarificatore la questione mantiene profili di criticità. La Corte costituzionale ha offerto una soluzione che, se certamente dà certezza agli interpreti, almeno per un aspetto lascia insoddisfatti, tanto che la stessa Corte ha sollecitato nella decisione un intervento del legislatore.
Individuato così un “dies ad quem” entro il quale il terzo può sollecitare l’amministrazione, la norma non offre neppure esplicita indicazione circa il dies a quo della sollecitazione del privato; il combinato disposto dell’art. 19 della l. n. 214/90 e dell’art. 2 della l. n. 222/2016 ci insegna che il termine di 18 mesi decorre dalla scadenza dei primi 30 o 60 giorni, con l’evidente limite, tuttavia, che l’intero sistema è stato costruito avendo a mente l’azione dell’amministrazione, che è destinataria diretta della SCIA del privato e dunque, evidentemente, edotta dal primo momento dell’inizio dell’attività da cui i già citati termini decorrono. Con un passaggio motivazionale sintetico la Corte afferma che tale decorrenza deve ritenersi valida non solo per l’amministrazione ma anche per il privato. Occorre certo ricordare che, fisiologicamente, il privato presenta la SCIA ed inizia l’attività; l’inizio dell’attività è di per sé un fatto percepibile, in particolare dai terzi che, per essere interessati a contestarla, devono vantare posizioni qualificate e dunque oggettive interferenze con la stessa; è giurisprudenza costante in materia edilizia quella secondo la quale il terzo deve proporre l’eventuale azione di annullamento dei titoli al più nel termine decadenziale decorrente da quando l’attività stessa è risultata oggettivamente (e non soggettivamente) percepibile all’esterno nella sua portata lesiva da parte di un soggetto mediamente diligente. Si potrebbe quindi assumere che la Corte non ha ravvisato profili di lesione del terzo nel ricondurre il dies a quo della sua reazione all’identico termine spettante all’amministrazione nel sottinteso assunto che, da un lato, l’amministrazione è destinataria della SCIA, dall’altro, il terzo contestualmente ed oggettivamente può percepire la condotta lesiva perché l’attività ha avuto inizio. Resta da osservare che avere la facoltà di iniziare l’attività contestualmente al deposito della SCIA non equivale certo ad averne l’obbligo; è dunque ben possibile che il terzo, oltre a non essere destinatario della pratica di per sé neppure soggetta a forme di pubblicità, non abbia neppure modo di percepire oggettivamente l’attività perché non ancora iniziata.
Risulta difficile sostenere che nessuna frizione con gli artt. 24 e 113 della Costituzione si possa porre in una ipotesi di questo genere, tanto più se si dovesse accogliere la tesi secondo cui, entro i 18 mesi, il controllo repressivo non solo dovrebbe essere sollecitato ma anche fattivamente esercitato; una simile soluzione esporrebbe il terzo danneggiato alla doppia problematica di non essere edotto del deposito della SCIA e di poter anche patire gli effetti del ritardo dell’azione amministrativa, nonostante abbia sollecitato il controllo nel termine di legge ed eventualmente anche proposto, sempre nel termine di legge che è di un anno, l’azione avverso il silenzio serbato dall’amministrazione. Sul punto è peraltro tuttora pendente una questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 19 dal Tar Parma con la sentenza n. 12/2019.
A fronte poi dell’inerzia dell’amministrazione sulla sollecitazione al controllo da parte del terzo, quest’ultimo potrà proporre ex lege solo l’azione di cui all’art. 31 c.p.a., ossia l’azione avverso il silenzio. Al di là delle perplessità che può destare una tecnica legislativa che cristallizza l’azione per far discendere solo da questa una posizione giuridica soggettiva tutelabile, l’art. 19 richiama esplicitamente i commi 1, 2 e 3 dell’art. 31, il che dovrebbe implicare che la domanda posta al giudice potrà non solo essere quella di condanna dell’amministrazione all’adozione di un atto di controllo (positivo o negativo) ma anche quella di “pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio”, possibilità ammessa appunto dall’art. 31 co. 3 ma “solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”. Premesso che il richiamo esplicito al comma 3 nell’art. 19 non avrebbe praticamente alcun significato se si dovesse ritenere che l’amministrazione interviene in questo caso nelle forme tradizionali dell’autotutela (sempre per definizione discrezionale, persino nell’an del suo esercizio), il richiamo risulta invece coerente con quelle letture dell’art. 19 secondo cui l’intervento dell’amministrazione è, in queste ipotesi, sostanzialmente vincolato. Si aggiunga che la giurisprudenza ha finora sostenuto che il privato potrà poi impugnare il provvedimento emesso dall’amministrazione in esito alla sua sollecitazione, interpretazione che non mi pare sconfessata dall’intervento della Corte.
Infine la Corte ha giustamente ricordato che la tutela dei vari interessi coinvolti, e del terzo in particolare, deve essere vista in un ambito di contesto e non solo in relazione alla specifica norma; al di là dell’assenza di termini decadenziali per il controllo in caso di dichiarazioni false o mendaci il terzo, infatti, può comunque sollecitare una serie di poteri repressivi spettanti all’amministrazione in virtù di apposite normative di settore.
La Corte ha ricordato innanzitutto l’art. 21 comma 2bis della legge n. 241/90, che fa salve tutte le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso delle pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti, anche se l’attività è stata iniziata ai sensi degli artt. 19 e 20; si tratta della persistenza dei poteri di controllo sull’esercizio delle attività economiche già menzionata.
La Corte ha richiamato poi una serie di disposizioni sanzionatorie dettate in materia edilizia.
Resta tuttavia vero che “il contesto” evocato dalla Corte ha per lo più ad oggetto, per quanto concerne gli aspetti urbanistico-edilizi, sanzioni pecuniarie che, salvo intenti emulativi, per il terzo non rivestono un interesse specifico né, quando l’interesse leso è di particolare rilievo anche generale, sono idonee al ripristino dello status quo. Il terzo danneggiato è infatti interessato ad una tutela in forma specifica, tanto più meritevole di attenzione là dove la lesione colpisca una attività economica, ove i potenziali danneggiati sono concorrenti anch’essi portatori dell’identico interesse alla salvaguardia dell’avviamento della loro attività.
Da ultimo, sotto lo specifico profilo concorrenziale, e per accogliere l’invito della Corte ad una valutazione complessiva degli strumenti di tutela, si ricorda che la tutela del terzo si realizza anche attraverso l’azione di concorrenza sleale, che può portare, innanzi al GO, a misure di carattere sia inibitorio che risarcitorio. La giurisprudenza civile ha visto evolvere il concetto di “correttezza professionale”, in passato intesa come deontologia di categoria, verso più moderne concezioni “normativo-funzionalistiche” (Cass. SU 23.2.1976, n. 582). Ne consegue che possono rientrare nell’ipotesi di cui all’art. 2598 c.c. n. 3, che qualifica atti di concorrenza sleale quelli di chi “3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, anche violazioni di norme pubblicistiche, quando queste inducono un abbassamento illegittimo dei costi di produzione (Cass. sez. I n. 8012/2004 e Cass. sez. I n. 10684/2000); che la violazione di norme pubblicistiche possa ridondare in fattispecie di concorrenza sleale risulta esplicitamente affermato anche nella recente vicenda, assurta agli onori delle cronache, che ha interessato la società Uber (ordinanza 2.7.2015 del Tribunale di Milano e sentenza n. 1553 del 22.3.2017 del Tribunale di Torino).
Pur in una visione sistematica la tutela offerta in ambito concorrenziale resta una tutela privatistica e presuppone che si realizzi un vulnus, anche solo potenziale, ad altra attività economica, mentre non salvaguarda i molteplici interessi generali che la normativa pubblicistica, specialmente urbanistica, può oggi presidiare quali “motivi imperativi di interesse generale” aventi rilevanza anche eurounitaria e di cui, di norma, è custode solo la pubblica amministrazione. La rapidità con cui la realtà sociale ed economica si evolvono in questi ambiti richiederebbe chiarezza di idee e coraggio delle scelte, esigenze con le quali la farraginosità normativa risulta scarsamente compatibile; la soluzione ultima sembra richiedere ulteriore riflessione.
Paola Malanetto
Consigliere TAR Piemonte
 

[1] Per una lucida e coerente ricostruzione del sistema in termini di liberalizzazione, anticipatoria dell’esito del faticoso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, si veda TRAVI, Dichiarazione di inizio attività, Enc. Dir., Aggiornamento II, 2008

 

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