05/08/2019 – Svuotamento delle attività del dipendente che è anche consigliere comunale: danno da demansionamento

Danno da demansionamento

Svuotamento delle attività del dipendente che è anche consigliere comunale: danno da demansionamento

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
Il dirigente e l’ente che non utilizzano il dipendente destinandolo ad altre mansioni dopo la sua nomina a consigliere comunale perché indisponibile in certi orari si espone al risarcimento del danno per l’ente che non utilizza correttamente il dipendente stesso; lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18560, del 10 luglio 2019.
Il contenzioso
Con sentenza del luglio 2013, la Corte d’appello in parziale riforma della decisione del Tribunale condannava la Regione al risarcimento del danno in favore di suo dipendente in conseguenza del demansionamento da quest’ultimo, subito dal marzo all’ottobre del 2002, in misura pari ad euro 3.920,00 per danno biologico e ad euro 1.466,50 per spese mediche.
Il dipendente della Regione era stato sollevato dalle sue mansioni per indisponibilità ad eseguire prestazioni lavorative in orario antimeridiano in quanto Consigliere Municipale nonché Presidente di una Commissione Municipale; da tale momento, secondo la prospettazione di cui al ricorso introduttivo del giudizio, al dipendente non era stato affidato alcun compito effettivo e ne era derivata una sua forzata inattività con compromissione delle sue condizioni psico-fisiche.
Il dipendente aveva, pertanto, agito nei confronti della Regione e della Dirigente per ottenere il risarcimento dei danni come conseguenza del demansionamento.
Il Tribunale respingeva la domanda ritenendo che il dipendente non avesse fornito la prova dell’asserito demansionamento né del nesso di causalità tra il pregiudizio lamentato e le condotte addebitate all’amministrazione ed escludendo che il provvedimento di “messa a disposizione” del ricorrente potesse configurare un atto vessatorio.
La Corte d’appello riteneva, al contrario, che la Regione non avesse dimostrato che gli impegni del lavoratore come consigliere municipale fossero incompatibili con le mansioni svolte e che la prova in ordine al demansionamento fosse risultata contraddittoria.
In ogni caso assumeva che fosse emersa la dequalificazione e la totale mancanza di attribuzione di mansioni per di più con modalità vessatorie (cambio della serratura, mancata assegnazione di una stanza, costrizione su una panca ecc.) e che il successivo trasferimento del dipendente dimostrasse resistenza di mansioni compatibili non dequalificanti.
La Regione riteneva, sulla base della perizia disposta dal c.t.u., che tra la suddetta dequalificazione e la percentuale di danno biologico del 3% sussistesse un nesso causale; escludeva il risarcimento del danno da incapacità temporanea in assenza di domanda e quello del danno alla professionalità per mancanza di deduzioni specifiche sul punto.
La Regione avverso la sentenza sfavorevole ha proposto ricorso in Cassazione.
L’analisi della Cassazione
Per la Corte di Cassazione il motivo di ricorso della Regione è infondato.
Con riferimento al primo motivo di ricorso osservano, i giudici di legittimità, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, che la violazione dell’art. 2697 c.c. può essere denunciata solo qualora il giudice del merito, a fronte di un quadro probatorio incerto, abbia fondato la soluzione della controversia sul principio “actore non probante reus absolvitur” ed abbia errato nella qualificazione del fatto, ritenendolo costitutivo della pretesa mentre, in realtà, lo stesso doveva essere qualificato impeditivo; in tal caso l’errore condiziona la decisione, poiché fa ricadere le conseguenze pregiudizievoli della incertezza probatoria su una parte diversa da quella che era tenuta, secondo lo schema logico regola-eccezione, a provare il fatto incerto.
Detta evenienza non si verifica allorquando il giudice, all’esito della valutazione delle complessive risultanze di cause, ritenga provati i fatti allegati dalla parte sulla quale ricadeva il relativo onere; così nella specie la Corte territoriale ha ritenuto, con argomentazione assorbente di ogni altro rilievo, che dalle risultanze di causa fosse emersa la prova, con riferimento al periodo per cui è causa, della dedotta dequalificazione e anzi della totale mancanza di attribuzione di mansioni, per di più con modalità vessatorie.
La Regione ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., dell’art. 52D.Lgs. n. 165 del 2001 nonché dell’art. 3del C.C.N.L. Regioni e Autonomie locali sottoscritto il 31 marzo 1999; censura la sentenza impugnata per non aver attribuito rilevanza all’equivalenza formale della mansioni; lamenta, altresì, la sottovalutazione della circostanza che la messa a disposizione del dipendente fosse dipesa dal fatto che egli non poteva garantire la presenza in ufficio nelle ore pomeridiane.
Per la Corte di Cassazione il motivo è infondato.
Osservano i giudici di legittimità che non vi è dubbio che, come da questa Corte più volte affermato, che nel pubblico impiego privatizzato l’art. 52, comma 1, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che sancisce il diritto alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito – attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell’organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse – un concetto di equivalenza formale, ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice.
Resta, comunque, salva l’ipotesi che la destinazione ad altre mansioni abbia comportato, come nell’ipotesi in esame, il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa; trattasi di questione che, infatti, giova rimarcare, esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, integrando la diversa ipotesi della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego. Ed allora il motivo, nonostante la formale denuncia di violazione di legge, scivola, inammissibilmente, nella valutazione dei fatti come operata dalla Corte territoriale.
Va, al riguardo, ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
Per i giudici di legittimità è dunque inammissibile una doglianza che fondi il “presunto errore di sussunzione” e dunque un errore interpretativo di diritto, su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.
Per i giudici di legittimità se corrisponde al vero che il demansionamento ben può essere foriero di danni ai bene immateriale della dignità professionale del lavoratore, è del pari vero che – per costante giurisprudenza della Cassazione, essi non sono in re ipsa e devono pur sempre essere dimostrati da chi si assume danneggiato.
Nel caso in esame il giudice del merito facendo corretta applicazione degli indicati principi, con accertamento di fatto non surrogabile in questa sede, ha ritenuto che fossero del tutto mancate le deduzioni specifiche in primo grado sul punto, il che precludeva ogni possibilità per il giudicante di giungere ad una valutazione seppure presuntiva. 
Le conclusioni
Per i giudici di legittimità è corretta la sentenza impugnata della Corte territoriale che laddove si afferma che la formale assegnazione del dipendente alle mansioni proprie della categoria contrattuale non sono censurabili, ma lo diventano, come nel caso in esame, quando la destinazione ad altre mansioni abbia comportato il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa.
Il ricorso è, pertanto, respinto con compensazione delle spese.

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