05/05/2020 – La somministrazione di alimenti e bevande tra pianificazione, liberalizzazione e confusione linguistica

La somministrazione di alimenti e bevande tra pianificazione, liberalizzazione e confusione linguistica
 
Premessa.
La dibattuta questione dell’esatto significato da attribuire alle nozioni di “somministrazione” di alimenti e bevande, “ristorazione” e “servizio assistito”, costituisce tematica dall’apparente insignificanza giuridica, se non per gli addetti ai lavori; ma che in realtà lambisce problematiche di assai più ampio respiro, se riguardata dall’ottica della sua potenziale incidenza sui poteri pianificatori dell’Ente territoriale con specifico riferimento all’insediamento delle attività produttive.
Su di essa si assiste a un aperto contrasto tra la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che focalizzando l’attenzione sulla tutela della concorrenza continua ad allargare le maglie del consumo immediato, e quella del T.A.R. per il Lazio, che al contrario, avallando e valorizzando l’orientamento più volte espresso dal Ministero dello Sviluppo Economico, tratta separatamente la possibilità di  consumo immediato di pietanze offerta da esercizi di vicinato e artigiani alimentari, considerandola una mera modalità di fruizione di prodotti alimentari, accessoria rispetto alla vendita per asporto o a quella di laboratorio, che deve rimanere prevalente[1]. Con sentenza n. 2619 del 28 febbraio 2020 la sez. II ter del T.A.R. per il Lazio, dopo aver effettuato una capillare ricostruzione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale, anche cautelare, in merito, arriva ad evocare l’intervento dirimente dell’Adunanza plenaria per risolvere le contrapposte visioni emerse. Ciò in quanto con un recente pronunciamento i giudici di Palazzo Spada, seppur in asserito “approfondimento” dei propri precedenti in materia, sembrano operare un netto revirement interpretativo, dando rilievo alla valutazione in concreto della funzionalità degli arredi al servizio di somministrazione, piuttosto che ad astratte categorie concettuali[2].
Metodologicamente, la materia può essere approcciata da due diverse angolazioni, una di più ampio e l’altra di meno ampio respiro: da un lato, infatti, la diversificazione concettuale può incidere sulla estensione dei poteri di pianificazione dell’insediamento e dell’esercizio delle relative attività, nei limiti e con le finalità per le quali essa è consentita; dall’altro, con riferimento al singolo esercizio, essa ne perimetra la portata, al di là della quale si palesa illegittima e come tale sanzionabile perché non “coperta” dal corrispondente titolo di legittimazione.
In sintesi, ciò che l’ente territoriale può normare, se si risolve in un’indebita limitazione delle potenzialità dell’attività economica, deve trovare una sua ragion d’essere in interessi prioritari di rilevanza generale; e, a contrario, tale regolamentazione non può risolversi ex se nella inibizione di attività intrinsecamente riconducibili alla cornice normativa di riferimento.  
Non è casuale, dunque, che alcune delle sentenze del Consiglio di Stato sulla materia abbiano ad oggetto un atto regolamentare (nello specifico, il Regolamento per l’esercizio delle attività commerciali ed artigianali nel territorio della Città Storica di Roma Capitale) che ha la dichiarata finalità di contenere la pressione antropica locale: l’espansione del consumo sul posto e, soprattutto, delle modalità di effettuazione dello stesso tipiche della ristorazione, incidono necessariamente sull’afflusso e lo stazionamento dell’utenza, indirizzando in una direzione piuttosto che in un’altra la declinazione delle potenzialità operative dei singoli imprenditori, avuto riguardo alla relativa normativa di settore.
Sullo sfondo, dunque, della questione, si pone la corretta perimetrazione del potere contingentale dei governi locali in funzione del miglioramento della vivibilità cittadina, fra spinte e controspinte di liberalizzazione, tutela della concorrenza, eliminazione di vincoli all’accesso alle attività economiche, da un lato; contemperamento delle esigenze della residenzialità con quelle del turismo e dell’economia, dell’armonica fruizione degli spazi pubblici, della sicurezza urbana lato sensu intesa, dall’altro. Esigenze che si fanno via via più pressanti e attuali nella prospettiva delle indicazioni settoriali per agevolare la ripresa delle attività all’esito della fase emergenziale che il Paese sta vivendo ( il cd. lockdown in corso).
2. La pianificazione territoriale. Il dibattito sugli esatti contenuti della pianificazione territoriale ha avuto, come noto, ampio seguito con riferimento alla coesistenza al suo interno di esigenze di tutela facenti capo ad autorità diverse. Il potere di pianificazione urbanistica, via via evoluto in senso propulsivo di miglioramento della vivibilità del suolo può ad esempio rafforzare i limiti, anche conservativi, ampliando la soglia della tutela paesaggistica, ma mai prescinderne. Si pensi proprio alla tutela dei centri storici e, più settorialmente ma in maniera egualmente incisiva, a tutte le disposizioni di legge speciale che hanno valorizzato la facoltà di orientare in senso qualitativo gli insediamenti, anche commerciali, per migliorare il “decoro” e la “fruibilità” collettiva dell’Urbe. Costituisce peraltro ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui tale potere non è limitato all’individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, e in specie alle potenzialità edificatorie delle stesse e ai limiti che incontrano tali potenzialità. Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non sia limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale, non in contrasto ma, anzi, in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato, nel quadro del rispetto e dell’attuazione di valori costituzionalmente tutelati. Proprio per tali ragioni, nella stesura dell’art. 117 della Costituzione conseguita alla riforma del 2001 si è inteso sostituire il termine “urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di “governo del territorio”, maggiormente aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione sottese alla relativa attività programmatoria degli enti territoriali.
Ad onor del vero le ridette finalità “più complessive” dell’urbanistica e degli strumenti che ne comportano attuazione, già trovavano consacrazione nei principi generali della cosiddetta legge urbanistica fondamentale, ovvero la legge 17 agosto 1942, n. 1150, che individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’ “assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”. In definitiva, l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non sono mai stati intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone un’inaccettabile visione minimale; ma a maggior ragione oggi, con l’evolversi delle esigenze e degli interessi pubblici correlati alla fruizione del suolo, devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Per tale ragione è possibile una compenetrazione di vincoli che, senza esautorare lo Stato dai compiti di tutela che gli sono propri, ne rafforzi le finalità ed estenda la portata in una visione di valorizzazione, oltre che di protezione del bene tutelato[3]. Ed è necessario un coordinamento contenutistico e teleologico fra i molteplici, talvolta perfino atipici, strumenti di regolamentazione e pianificazione locale.
2.1. La programmazione “dinamica”. Il coacervo degli strumenti urbanistici attraverso i quali si attua la pianificazione del territorio, affianca, dunque, e compenetra altri atti programmatori, generali, di settore o attuativi, rivenienti dalla disciplina nazionale e regionale, ovvero strumentali ad esigenze che i singoli Enti hanno ritenuto di ravvisare in relazione alle proprie specificità di contesto[4]. E’ in tale ambito, infatti, che maggiormente si gioca il contemperamento tra le esigenze di tutela del paesaggio, del patrimonio, della residenzialità ovvero dell’imprenditoria. Il Comune, quale Ente territoriale più vicino al cittadino, è dunque tenuto ad individuare, in maniera ponderata e strutturata, il difficile punto di equilibrio non tanto e non solo fra offerta di servizi e esigenze della popolazione locale e fluttuante, spesso orientate in direzione diametralmente opposta; quanto soprattutto la sua rispondenza ad esigenze variegate in relazione alla specificità del luogo, da recuperare, rivitalizzare, arricchire o, al contrario, proteggere da eccessivo afflusso, quotidiano o limitato a particolari fasce orarie.  
L’art. 1, comma 4, del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, con riferimento alle attività produttive in elenco nella relativa tabella, prevede che : «Per le finalità indicate dall’articolo 52 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, il comune, d’intesa con la regione, sentito il competente soprintendente del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, può adottare deliberazioni volte a delimitare, sentite le associazioni di categoria, zone o aree aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico in cui è vietato o subordinato ad autorizzazione rilasciata ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, l’esercizio di una o più attività di cui al presente decreto, individuate con riferimento al tipo o alla categoria merceologica, in quanto non compatibile con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. I Comuni trasmettono copia delle deliberazioni di cui al periodo precedente alla competente soprintendenza del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e al Ministero dello sviluppo economico, per il tramite della Regione. Il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e il Ministero dello sviluppo economico assicurano congiuntamente il monitoraggio sugli effetti applicativi delle presenti disposizioni». A sua volta l’art. 52 del richiamato d.lgs. n. 42/2004, rubricato “Esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali” prevede che « Con le deliberazioni previste dalla normativa in materia di riforma della disciplina relativa al settore del commercio, i comuni, sentito il soprintendente, individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio»[5].
In precedenza, proprio in sede di novellazione del principio di liberalizzazione delle attività commerciali di cui all’art. 31, comma 2, della l. 22 dicembre 2011, n. 214, operata con la l.9 agosto 2013, n. 98, di conversione del decreto cd. “del fare”, si è riconosciuto espressamente alle regioni e agli enti locali il potere di individuare aree interdette «agli esercizi commerciali» purché «senza discriminazione per gli operatori », ovvero limitazioni, in tal caso riferite sia alle «attività commerciali» che «produttive» in genere, purché limitatamente ai casi in cui «vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali» (inciso inserito a sua volta dall’art. 22 ter, comma 1, del d.l. 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014, n. 116).
Particolarmente interessante si rivela poi l’insistenza del legislatore sull’abrogazione delle limitazioni non filtrate attraverso un serio e ponderato vaglio delle prioritarie esigenze pubbliche sottese alla relativa scelta.
In tale direzione, l’art. 1, comma 1, lett. b), del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, dispone l’abrogazione di tutto quanto non appaia “ragionevole”, ovvero “adeguato” ovvero “proporzionato” rispetto alle finalità pubbliche dichiarate. Con ciò implicitamente ammettendo che possano esistere, anche negli atti di programmazione territoriale espressamente menzionati dalla norma, controlli preventivi all’insediamento sul territorio delle attività economiche, pur ovviamente ribadendo un’impostazione fondamentalmente liberistica per il relativo avvio e allocazione[6]. Analogo effetto abrogativo, del resto, era previsto dal precedente art.  34, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in l.22 dicembre 2011, n. 214, che tuttavia aveva riguardo alle sole norme, senza menzionare espressamente gli atti programmatori degli enti territoriali, con ciò imponendone una generale rivisitazione in chiave di autotutela decisoria per verificarne la sostanziale compatibilità con quei  motivi imperativi di interesse generale, quali la protezione dell’ambiente, la razionale gestione del territorio e la tutela del consumatore che l’art. 11, comma 1, lett. e), del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, di recepimento della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, cd. “Bolkestein”, ha posto alla base delle possibili restrizioni in un panorama di generalizzata liberalizzazione.
Quanto detto peraltro potrebbe ulteriormente essere integrato attraverso più generali richiami alla potestà regolamentare degli enti locali.
Non è casuale che la vicenda che oggi ci occupa tragga spunto (anche) dall’impugnativa del richiamato Regolamento per l’esercizio delle attività commerciali ed artigianali nel territorio della Città Storica di Roma capitale. E che sul punto la censura generale di sostanziale incompetenza sia stata definitivamente respinta dai giudici di Palazzo Spada non soltanto con riferimento alla cornice normativa regionale, ma anche attraverso il richiamo agli artt. 117 e 118 della Costituzione, per come declinati negli artt.3, 4, comma 3, e 5 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (T.U.E.L.), concernenti le potestà normative dei Comuni; 10, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 114 del 1998, che indica come doveroso contenuto delle leggi regionali il maggior potere ai Comuni «relativamente alla localizzazione e alla apertura degli esercizi di vendita, in particolare al fine di rendere compatibili i servizi commerciali con le funzioni territoriali in ordine alla viabilità, alla mobilità dei consumatori e all’arredo urbano, utilizzando anche specifiche misure di agevolazione tributaria e di sostegno finanziario» con riferimento a centri storici e aree o edifici aventi valore storico, archeologico, artistico e ambientale;  31 del già richiamato d.l. n. 201 del 2011, che impone sia a Regioni che ad altri enti territoriali di adeguare i propri ordinamenti ai principi liberistici ivi affermati, ma nel contempo prevede la possibilità di limitazioni per finalità di interesse pubblico preventivate.
Il legislatore del 2010, in sede di recepimento della cd. direttiva “servizi” o Bolkestein,  ha individuato espressamente gli interessi pubblici che possono prevalere sulla tutela della concorrenza: essi sono stati assurti a parametro di valutazione della legittimità di qualsivoglia restrizione, non solo quelle riconducibili alle tipologie elencate nell’ art. 12. In particolare tra le esigenze di pubblico interesse che possono prevalere sulla tutela della concorrenza figurano «l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica, l’incolumità pubblica, la sanità pubblica, la sicurezza stradale, la tutela dei lavoratori compresa la protezione sociale dei lavoratori, il mantenimento dell’equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale, la tutela dei consumatori, dei destinatari di servizi e dei lavoratori, l’equità delle transazioni commerciali, la lotta alla frode, la tutela dell’ambiente, incluso l’ambiente urbano, la salute degli animali, la proprietà intellettuale, la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico, gli obiettivi di politica sociale e di politica culturale» (art. 8, lett. h) del d.lgs. n. 59/2010, laddove viene data la definizione di “motivi imperativi di interesse generale”).
Previsioni specifiche si ritrovano poi con riferimento a singole materie. Il comma 3 dell’art. 64 del medesimo decreto legislativo consente ad esempio ai Comuni « Al fine di assicurare un corretto sviluppo del settore […], limitatamente alle zone del territorio da sottoporre a tutela» di adottare «provvedimenti di programmazione delle aperture degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico di cui al comma 1, ferma restando l’esigenza di garantire sia l’interesse della collettività inteso come fruizione di un servizio adeguato sia quello dell’imprenditore al libero esercizio dell’attività. Tale programmazione può prevedere, sulla base di parametri oggettivi e indici di qualità del servizio, divieti o limitazioni all’apertura di nuove strutture limitatamente ai casi in cui ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità rendano impossibile consentire ulteriori flussi di pubblico nella zona senza incidere in modo gravemente negativo sui meccanismi di controllo in particolare per il consumo di alcolici, e senza ledere il diritto dei residenti alla vivibilità del territorio e alla normale mobilità. In ogni caso, resta ferma la finalità di tutela e salvaguardia delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale e sono vietati criteri legati alla verifica di natura economica o fondati sulla prova dell’esistenza di un bisogno economico o sulla prova di una domanda di mercato, quali entità delle vendite di alimenti e bevande e presenza di altri esercizi di somministrazione».
Infine si pensi alla definizione di “sicurezza urbana”, “legificata” attraendone la pregressa definizione ministeriale nella declinazione di cui all’4 del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14 (convertito con modificazioni dalla l. 18 aprile 2017, n. 48), cd. decreto Minniti: tra gli strumenti attraverso i quali si raggiunge ridetta “vivibilità” e “decoro” vengono espressamente indicati anche gli interventi di riqualificazione urbanistica[7]. Salvo poi demandare ai regolamenti di polizia urbana la possibilità di individuare aree «su cui insistono presidi sanitari, scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli, ovvero adibite a verde pubblico», alle quali applicare, per quanto qui di interesse, divieti di occupazione di suolo pubblico, in quanto ricompresi tra le limitazioni indicate ai commi 1 e 2 della medesima norma [8].
E’ all’esito di tale intervento normativo che si è tornati a parlare dell’urbanistica della sicurezza, con ciò intendendosi la scienza della progettazione degli spazi urbani anche in funzione della loro corretta e generalizzata fruizione senza insidie, evitando spazi ciechi, zone non illuminate, vegetazione oscurante e simili [9]
La Corte di Giustizia a sua volta ha rilevato che fra i motivi idonei a giustificare eventuali restrizioni della libertà di stabilimento vi sono, tra gli altri, la protezione dell’ambiente (sent. Sezione III, 11 marzo 2010, causa C- 348/2008, Attanasio Group s.r.l.)[10].
Si è dunque fatta strada una distinzione all’interno dei possibili strumenti di programmazione tra quelli a valenza economica, che in linea di principio non possono essere più fonte di limitazioni all’insediamento di nuove attività, e quelli aventi natura non economica, i quali, invece, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono imporre limiti rispondenti ad esigenze annoverabili fra i motivi imperativi di interesse generale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 gennaio 2019, n. 298).  A differenza di quanto avvenuto con riferimento agli orari degli esercizi commerciali, pure espressione della competenza statale a tutela della concorrenza, la legge dello Stato non pone divieti assoluti di regolazione, né obblighi assoluti di liberalizzazione, ma, al contrario, consente alle Regioni e agli enti locali la possibilità di prevedere «anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali», purché ciò avvenga «senza discriminazioni tra gli operatori» e a tutela di specifici interessi di adeguato rilievo costituzionale, quali la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali [11].
2.2. La giurisprudenza della Corte Costituzionale.
D’altro canto, la possibilità rimessa al legislatore regionale di regolare le zone adibite alle attività commerciali attraverso gli strumenti urbanistici è conforme a quanto affermato dal giudice delle leggi.  Di particolare interesse la nozione di liberalizzazione emersa a partire dalla sentenza del 20 luglio 2012, n. 200 della Corte Costituzionale[12], che dà alla stessa l’accezione di misura di «razionalizzazione della regolazione», compatibile con il mantenimento degli oneri «necessari alla tutela di superiori beni costituzionali». Similmente, la sentenza del 23 gennaio 2013, n. 8 del medesimo giudice delle leggi ha ribadito che in vista di una progressiva e ordinata liberalizzazione delle “attività economiche” – non solo, pertanto, di quelle commerciali – siano fatte «le regolamentazioni giustificate da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario», che siano «adeguate e proporzionate alle finalità pubbliche perseguite», così da «garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale e con gli altri principi costituzionali»[13].
La tutela della concorrenza «costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» (Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 14, punto 4 del Considerato in diritto). E ancora, con riferimento alle discipline regionali in materia di orari delle attività commerciali: «è illegittima una disciplina che, se pure in astratto riconducibile alla materia commercio di competenza legislativa delle Regioni, produca, in concreto, effetti che ostacolino la concorrenza, introducendo nuovi o ulteriori limiti o barriere all’accesso al mercato e alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale» (Corte Cost. n. 150 del 21 aprile 2011).
Ma ancor più incisive appaiono le argomentazioni della sentenza n. 299 del 19 dicembre 2012, avente ad oggetto peraltro proprio la contestata legittimità dell’art. 31 del d.l. n. 201/2011: nel richiamare tutti i precedenti sulla materia, i Giudici della Consulta menzionano anche quelli antecedenti l’entrata in vigore della disposizione sottoposta al loro vaglio, affermando in particolare che: «Del resto questa Corte, di recente, è stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale di alcune normative regionali che disciplinavano la materia degli orari degli esercizi commerciali e dell’obbligo di chiusura domenicale e festiva, ma prima dell’approvazione della norma impugnata, quando cioè il quadro normativo di riferimento della legislazione statale era rappresentato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio).In tali occasioni si è ritenuto legittimo l’esercizio della competenza in materia di commercio da parte del legislatore regionale solo nel caso in cui le norme introdotte non determinassero un vulnus alla tutela della concorrenza (sentenze n. 150 del 2011 e n. 288 del 2010).Pertanto, nei casi in cui le stesse avevano introdotto una disciplina più favorevole rispetto a quella statale del 1998, nel senso della liberalizzazione degli orari e delle giornate di chiusura obbligatoria, esse sono state ritenute legittime (sentenza n. 288 del 2010); viceversa, allorché si è riscontrata una disciplina di segno contrario, ne è seguita una pronuncia di illegittimità costituzionale (sentenza n. 150 del 2011)».
Infine la Corte è tornata sull’argomento con la sentenza n. 239 dell’11 novembre 2016 con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni di una legge regionale (della Puglia) che «dispone in materia di orari degli esercizi commerciali, in contrasto con il citato divieto assoluto e perentorio di regolazione, disposto dallo Stato nell’ambito della sua competenza esclusiva in materia di «tutela della concorrenza». Nella pronuncia la Corte ha affermato anche che «La totale liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali non costituisce una soluzione imposta dalla Costituzione, sicché lo Stato potrà rivederla in tutto o in parte, temperarla o mitigarla. Nondimeno, nel vigore del divieto di imporre limiti e prescrizioni sugli orari, stabilito dallo Stato nell’esercizio della sua competenza esclusiva a tutela della concorrenza, la disciplina regionale che intervenga per attenuare il divieto risulta illegittima sotto il profilo della violazione del riparto di competenze». La previsione di zonizzazioni commerciali negli strumenti urbanistici generali e nei piani attuativi per gli insediamenti più grandi, rientra proprio in quegli spazi di intervento regionale che lo stesso legislatore statale, con l’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, ha salvaguardato a condizione che, come è possibile e doveroso fare, la zonizzazione commerciale non si traduca nell’individuazione di aree precluse allo sviluppo di esercizi commerciali in termini assoluti e che le finalità del «dimensionamento della funzione commerciale» e dell’«impatto socio-economico», siano volte alla cura di interessi di rango costituzionale[14].
Le esigenze della tutela della concorrenza, dunque, preesistevano al d.l. 201/2011. In assenza di un’indicazione di senso inverso, anche da parte del solo legislatore regionale, esse non possono che permeare la disciplina di tutte le attività produttive, ispirando le scelte di regolamentazione delle attività da parte dell’organo di governo territoriale competente per materia.
Tale affermazione trapela chiaramente dalla giurisprudenza costituzionale citata, che non esclude ogni intervento legislativo regionale regolativo delle attività economiche, ma vigila sulla legittimità e proporzionalità degli stessi rispetto al perseguimento di un interesse di rilievo costituzionale. La possibilità, pertanto, che una zonizzazione, ovvero l’imposizione di prescrizioni di qualità, sia utilizzata per proteggere dalla concorrenza gli esercizi esistenti, confinando l’apertura dei nuovi in aree distanti o non competitive, concerne non la previsione legislativa regionale, quanto l’eventuale illegittimo esercizio in concreto del potere amministrativo in campo urbanistico da parte dal singolo Comune, censurabile nelle opportune sedi di giustizia amministrativa.
3. Le problematiche definitorie.
Accanto alla tematica dell’incidenza degli atti di pianificazione sulla possibile ubicazione delle varie tipologie di attività produttive, quale punto di equilibrio tra esigenze di governo del territorio lato sensu intese e tutela della concorrenza, si colloca quella dell’esatta perimetrazione definitoria delle stesse e delle loro potenzialità: è evidente, infatti, che per poter incidere in termini qualitativi occorre avere chiara a monte la cornice di riferimento. E’ qui che si intersecano, dunque, i profili di legittimità o meno di limitazioni all’accesso o all’esercizio; la regolamentazione per motivi imperativi di interesse generale presuppone la valutazione di tutte le potenzialità dell’azienda e soltanto di quelle. Non può divenire strumento per limitarne alcune, ove previste dall’ordinamento; né, al contrario, può “subire” modalità gestionali normativamente non ammesse.
In sintesi, se è ancora legittima la distinzione operata dalla legislazione di settore tra regimi giuridici di attività economiche diverse, perfino con riferimento alle dotazioni igienico-sanitarie, non può evidentemente non esserlo, ex se e sotto questo profilo, una pianificazione ricognitiva di tale stato di fatto[15]. Evitare che in fase di gestione si realizzino indebite osmosi tra ambiti diversi, può dunque costituire il legittimo obiettivo di un atto di governo del territorio; strumentalizzare i contenuti dello stesso per limitare ciò che l’ordinamento consente, col solo intento di privilegiare una categoria economica rispetto ad un’altra, al contrario, costituirebbe un’indebita intrusione in ambito concorrenziale, anche dall’ottica della risposta alle richieste diversificate della clientela.
Nel nuovo riparto delle competenze tra Stato e Regioni la dizione “commercio” non figura più. La legislazione anteriore alla novella costituzionale del 2001, mossa dalle spinte centrifughe della sussidiarietà, aveva già introdotto concetti nuovi quali “sviluppo economico e attività produttive”, nell’ambito dei quali possono essere ricondotte sia le attività commerciali stricto sensu intese, che quelle artigianali, ovvero perfino quelle atipiche che l’evoluzione costante dei costumi e la ricerca di nuove modalità imprenditoriali hanno via via reso attuali (cfr. la terminologia e la sistematica espressa dal d.lgs. n. 112/1998)[16].
Non è casuale che la ricerca di semplificazione procedurale veda nella individuazione di un interlocutore unico per il cittadino-imprenditore, un imprescindibile punto di partenza, e lo ravvisi in quella peculiare articolazione organizzativa che, evocando la dizione di “attività produttive” lato sensu intese, la accompagna a quella di “Sportello unico”[17].
Se dunque le Regioni hanno competenza esclusiva in materia di attività produttive in genere, resta da capire l’impatto sulla stessa di ambiti trasversali che la Costituzione ha inteso continuare ad ascrivere a quella dello Stato.
In particolare, tra le materie di competenza esclusiva statale che possono influenzare il settore assume sicuramente rilievo, come già evidenziato nei paragrafi precedenti, la tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e). Questo sia perché anche la normativa regionale, e, in special modo, le misure di sostegno alle attività produttive, possono determinare effetti distorsivi sul mercato e porsi in contrasto con il diritto europeo; sia perché più in generale è necessario garantire eguaglianza di trattamento sul territorio nazionale lasciando al mercato le regole della competizione. Occorre infine a tale riguardo rammentare anche che per effetto dell’art. 117 Cost., comma 1, il diritto europeo si impone direttamente sul diritto regionale, a prescindere dall’interferenza con la competenza statale di cui alla lett. e) del comma 2 dell’art. 117 della Costituzione.
La possibile interferenza di disposizioni dettate a livello nazionale ed europeo per rimuovere ostacoli al libero esercizio di attività produttive ha finito dunque per porre problematiche interpretative per così dire “trasversali”, nel senso di immanenti alla specialità di ciascuna disciplina di settore delle varie attività commerciali o produttive che dir si voglia. Con ciò rischiando talvolta di rendere evanescenti i confini al contrario tracciati in maniera netta a tutela della medesima concorrenza, e non a discapito. Qualificata sia in dottrina sia in giurisprudenza come “materia-funzione”, la tutela della concorrenza presenta quelle caratteristiche di “trasversalità” (Corte Cost., n. 272 del 2004) che la portano ad intrecciarsi inevitabilmente con una pluralità di competenze e ad escluderne un’applicazione circoscritta e delimitata (cfr. Corte Cost., n. 407 del 2002). Essa ha infatti avuto un’applicazione molto ampia, finendo per supplire all’ormai esigua previsione di compiti statali in materia di sviluppo economico.
Pertanto, esiste oggi un variegato contenitore di attività “produttive”, eterogenee tra di loro e ancora distinte anche in termini di regime all’accesso, sulle quali è possibile incidere (anche) in senso limitativo purché nell’esercizio di un potere pianificatorio ispirato ad interessi superiori e tipizzati.
4. Somministrazione e cessione di prodotti di gastronomia.
Una delle attività per le quali si  rende necessaria una preventiva perimetrazione per comprendere l’esatta portata anche di interventi di pianificazione/programmazione limitativa è quella lato sensu denominabile di “somministrazione di alimenti e bevande”.  La definizione della “somministrazione” quale “vendita per il consumo sul posto”, originariamente appagante per gli operatori del settore, ha finito per confondersi con quella di semplice “cessione” del medesimo prodotto, con la medesima finalità, appunto, di consumo sul posto, rendendo evanescenti i confini e all’apparenza bizantino ogni tentativo di distinzione. Ciò spiega l’enfasi che alla fine si è tentato di dare ad un elemento oggettivo, quale il “servizio assistito”, che connoterebbe il ristorante, diversificandolo dal panificio o dal tradizionale negozio di alimentari di antica memoria; salvo poi arricchirlo di elementi indiziari aggiuntivi rispetto alla presenza del cameriere, che la relativa dizione evoca nel gergo comune, con riferimento a specifiche tipologie di arredo o utensileria fornita al cliente (piatti in ceramica, piuttosto che stoviglie usa e getta).  
Il tema, da sempre controverso e di non facile soluzione, si è in qualche modo complicato proprio in ragione della terminologia utilizzata dal legislatore in una delle tanti legislazioni sopravvenute in prospettiva liberistica e concorrenziale.
L’art. 3, comma 1, lettera f) bis del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni nella legge 4 agosto 2006, n. 248, infatti, sotto la rubrica «Regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale», prevede il divieto, che si aggiunge agli altri pure previsti dalla norma, di imporre autorizzazioni preventive «per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso l’esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie». Si è cioè riconosciuta –rectius, per quanto detto nel prosieguo, ribadita-  la possibilità di consentire il consumo sul posto dei prodotti alimentari venduti da un esercizio di vicinato, e, tra questi, dei cd. “prodotti di gastronomia”. 
La dizione “prodotti di gastronomia”, a sua volta, tutt’altro che univoca, trova riscontro nella l. 25 agosto 1991, n. 287, normativa nazionale di settore dei pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, che, stralciandoli definitivamente dal (solo) ambito del T.U.L.P.S. (al cui art. 86 restano comunque astrattamente riconducibili i relativi titoli di legittimazione), vi faceva riferimento per distinguere i contenuti della cd. tipologia “A”, dalla “B”. La prima, riferita a ristoranti e simili, infatti, consente la somministrazione di pasti e bevande, anche alcoliche, senza limitazioni di sorta; la seconda (bar e simili), è limitata a bevande, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, nonché latte, dolciumi, compresi i generi di pasticceria e gelateria, e, appunto, “prodotti di gastronomia”. L’intenzione del legislatore dell’epoca era quella di positivizzare il diffuso costumo sociale di accedere a locali non propriamente di ristorazione per slow food funzionale ad esigenze lavorative. La fornitura di un pasto a rapida preparazione, di scarsa manipolazione, spesso addirittura precotto, poteva avvenire anche in locali di minore dimensione, purché attrezzati allo scopo da un punto di vista igienico sanitario. La giurisprudenza civile aveva al riguardo chiarito come «la distinzione tra attività di ristorazione e attività di somministrazione di prodotti di gastronomia, posta dall’art. 5 della legge 25 agosto 1991, n. 287, pur non sicura e quindi fonte di continue incertezze sul piano applicativo, viene ricondotta all’accertamento che la cottura o la manipolazione dei cibi sia effettuata, o non, all’interno dei locali dedicati all’attività dell’esercizio pubblico, attraverso la predisposizione di idonea attrezzatura. Solo ove ricorra la prima alternativa si può parlare di attività di ristorazione, che ricade nell’ambito dell’autorizzazione per la tipologia A del citato art. 5 della legge n. 287/1991. Mentre nel caso in cui le pietanze siano predisposte in locali diversi o la manipolazione in loco sia costituita da operazioni di composizione dei piatti con materie prime che non debbono subire trasformazioni (cottura) o per le quali sia sufficiente il semplice riscaldamento prima del servizio al cliente, deve ritenersi integrata l’ipotesi della somministrazione di prodotti di gastronomia, consentita ai titolari di autorizzazione di tipo B (fatta salva la particolare ipotesi della predisposizione e somministrazione di piatti che richiedono complesse manipolazioni per le quali si impongono particolari requisiti di igiene dei locali e delle attrezzature utilizzate, circostanze che fanno optare per l’inquadramento di tali attività nell’ambito della ristorazione: si pensi alle portate di pesce crudo servite nei ristoranti che si ispirano alla cucina giapponese[18]. Dunque e dovendo tener conto della modalità organizzativa della somministrazione si deve rilevare che nella nozione di “gastronomia” – per adottare lettura coerente con la vocazione dell’esercizio (che offre una celere e semplice opportunità di assumere alimenti) – vanno considerati compresi tutti gli alimenti che siano stati “altrove confezionati” e che vengano offerti, pronti al consumo, previa quella semplice operazione di riscaldamento (a piastra od a forno) che è l’unica consentita in quel genere di esercizi; nel mentre dalla species dei prodotti in questione dovranno certamente esulare tutte le ipotesi di cibi che siano cucinati nel locale, e non rileva se preventivamente od a richiesta del cliente, posto che la presenza di una organizzazione per la preparazione dei pasti (locali, macchinari, personale) è propria e peculiare dell’esercizio di ristorazione di cui all’art. 5, comma 1, lett. a) della citata l. n. 287/1991.
L’art. 4 della l. 25 marzo 1997, n. 77, nel fare riferimento ai servizi sostitutivi di mensa, ovvero alla utilizzabilità dei buoni pasto, la prevede sia presso esercizi di somministrazione che, limitatamente ancora una volta ai prodotti di gastronomia, presso esercizi commerciali, purché muniti dell’autorizzazione sanitaria[19].
E’ “agganciandosi” a tale normativa che il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (cd. decreto Bersani), ha legittimato definitivamente il consumo immediato dei prodotti di gastronomia venduti dagli esercizi di vicinato[20].
La prima differenziazione, dunque, tra esercizi della ristorazione e esercizi commerciali è data dall’oggetto: i secondi possono “somministrare” solo prodotti alimentari e prodotti di gastronomia, ovvero tipicamente quei pasti rapidi che usualmente si consumano (anche) sul posto, ma prevalentemente per strada.
Sul punto, che ha sempre dato filo da torcere agli operatori di vigilanza, erano intervenute anche diverse risoluzioni ministeriali. In particolare con risoluzione prot. 4271 del 18 maggio 2005 del Ministero delle attività produttive è stato affermato che «per prodotti di gastronomia devono intendersi esclusivamente “panini, tramezzini, pizzette, sandwiches e simili” e che, pertanto, negli esercizi di tipologia b) [cioè nei bar e simili] solo i prodotti su elencati possono essere legittimamente somministrati restando limitata per legge ai soli esercizi di tipologia a) [cioè nei ristoranti e simili] la somministrazione dei pasti». L’interpretazione trovava conforto e fondamento in una “storica” pronuncia del Consiglio di Stato (n. 499 del 24 febbraio 1998), chiamato ad esprimersi in relazione alla sentenza 15 settembre 1992, n. 644 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, con la quale era stato accolto il ricorso di una società diretto ad ottenere l’annullamento di un provvedimento di sospensione dell’attività, assunto dal comune di Venezia a seguito di accertamento degli organi di vigilanza dal quale risultava che nell’esercizio in discorso, autorizzato ad effettuare la somministrazione di cui alla tipologia b), veniva svolta l’attività di somministrazione degli alimenti propri della tipologia a).  
In passato, dunque, la stessa ristorazione veniva distinta in “piena” e “limitata”, in particolare con riferimento agli annessi requisiti igienico sanitari: la possibilità di somministrare prodotti di gastronomia, non implicanti la cottura, ma la mera preparazione sul posto, costituiva un’ipotesi di somministrazione “minore” consentita a bar e simili, appunto. Oggi, essa è stata estesa, quanto meno con riferimento al prodotto, anche agli esercizi di vicinato, agli artigiani e agli imprenditori agricoli.
La definizione di somministrazione, ancora oggi contenuta nell’art. 1 della richiamata l. n. 287/1991 (comma 1, ultimo periodo), come già detto non aiuta più, finendo per palesarsi del tutto tautologica. Recita dunque la norma: «Per somministrazione si intende la vendita per il consumo sul posto, che comprende tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo attrezzati».
Essa assume rilievo e utilità solo ove se ne enfatizzi la descrizione per così dire logistica (il riferimento ai locali “all’uopo attrezzati”): la somministrazione è ristorazione ove il locale sia a ciò funzionale; detto alla rovescia, è il “locale all’uopo attrezzato”, e non l’attività, che identifica un bar o un ristorante, e lo distingue da un negozio di vicinato o da un esecrizio artigianale.
Fino alla l. n. 77/1997, dunque, terminologia era chiaramente distinta: la  “somministrazione”, pur riferita ai soli prodotti di gastronomia, avviene solo nei pubblici esercizi; la “cessione” del prodotto per il suo consumo sul posto, che non è mai somministrazione, può avvenire sia nei pubblici esercizi che in quelli commerciali e artigianali, indistintamente.  
E’ con il richiamato art. 3, comma 1, lett. f bis) del d.lgs. n. 223/2006 che si crea nel sistema una frattura, probabilmente dovuta più ad improprietà linguistica del legislatore che a scelta effettiva. Si aggiunga il fatto che la norma si colloca, come detto, in un ben mutato contesto di disposizioni a tutela della concorrenza. Ciò ne ha comportato una lettura teleologicamente orientata nel senso della massima estensione dell’interpretazione delle potenzialità di ogni singola attività e della conseguente intangibilità della stessa in chiave limitativa. Il solo fatto, cioè, che seppur con gergo leggermente mutato si sia sostanzialmente ribadita la preesistente possibilità per gli esercizi di vicinato di effettuare un certo tipo di somministrazione (pur sempre limitata ai “prodotti di gastronomia”, e correlata alla struttura “fisica” del locale) è stato inteso come rimozione di ogni ostacolo alla sua effettuazione. Con ciò indebitamente parificando situazioni ancora oggi diverse per regime giuridico. In sintesi, in forza di una distorta visione della tutela della concorrenza, si è finito non per rimuovere ostacoli all’espansione di attività ontologicamente uguali sotto il profilo giuridico e, conseguentemente, fattuale; ma per superare tali differenze, che per contro il legislatore ha inteso mantenere. Con conseguente alterazione, si ritiene, piuttosto che tutela delle regole della concorrenza, oltre che dei più basilari principi di eguaglianza, che a fattispecie differenti non possono che far corrispondere regimi giuridici differenti.
La norma dunque abbandona la dizione “somministrazione” per utilizzare quella di “consumo immediato sul posto” quale attività “a valle” della stessa o della semplice cessione. Essa tuttavia deve avvenire «utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie».
L’equivoco di fondo sta, si ritiene, nell’aver dequotando l’aggancio, che pure la norma manteneva, alla struttura dei locali: al contrario, locali e, ora, anche  “arredi” costituiscono un prius oggettivo per operare la distinzione. Non si può pensare di mutarli per adattarli alla (nuova) finalità, senza travalicare  pure i confini gestionali della tipologia dell’esercizio.  Il servizio assistito di somministrazione, che costituisce esplicitato requisito negativo aggiuntivo, integra, ma non elude, quello rappresentato dalla strutturazione “oggettiva” del locale, ex se o per come è stato attrezzato.
Per completezza, peraltro, va ricordato come l’art. 4, comma 2 bis, del medesimo decreto estenda la possibilità di consumo sul posto anche ai panifici, con il rispetto dei medesimi requisiti; mentre il comma 8 bis dell’art. 4 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, introdotto dal d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98 e da ultimo modificato dalla l. 27 dicembre 2017, n. 205, la prevede per gli imprenditori agricoli, precisando egualmente l’obbligo di utilizzati di locali e arredi nella loro disponibilità.
Oggi, dunque, non si distingue più tra “somministrazione” e “cessione”, come nella l. n. 77/1997.
Ma quale che sia la dizione utilizzata, si continua a distinguere tra vera e propria ristorazione e agevolazione, con strutture di conforto, del consumo sul posto del panino, ad esempio, preparato dal negozio di alimentari.  La differenza tra esercizio di vicinato, seppure con laboratorio annesso, e pubblico esercizio, a qualsivoglia delle vecchie tipologie previste (bar o ristoranti, banalmente) è strutturale e strumentale, non (solo) gestionale. Il servizio, nel senso etimologico del termine, in quanto tipico solo della (vecchia) somministrazione, nella vendita è sempre escluso.
5. Il consumo sul posto presso attività artigianali.
L’artigianato può essere definito come quell’attività economica volta alla produzione di beni e servizi, organizzata prevalentemente su base individuale e familiare.
Il codice civile non lo aveva distinto dagli altri settori produttivi, limitandosi a richiamarlo all’interno della nozione del piccolo imprenditore di cui all’art. 2083.
La prima disciplina di settore risale alla l. n. 860 del 1956 che, colmando la preesistente lacuna nell’ordinamento giuridico italiano, ha dettato norme per la definizione e la disciplina dell’impresa artigiana. Nel tempo, ne sono ovviamente seguite altre.
La Costituzione italiana ha riservato un’attenzione particolare al settore artigiano, prevedendo, in aggiunta all’art. 41, la tutela e lo sviluppo dell’artigianato quale compito precipuo del legislatore (art. 45 Cost.). L’articolo 117, nella formulazione del 1947, attribuiva alla potestà regionale concorrente (“nei limiti dei principî fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”) le materie “istruzione artigiana” e “artigianato”, mostrando di considerare la prima propedeutica alla seconda, come anche la Corte Costituzionale ha sottolineato.
Anche tali specifiche indicazioni sono venute meno con la ricordata riforma del Titolo V, così da far confluire l’artigianato nella competenza residuale innominata delle Regioni, pur se alcune tipologie di imprese artigiane possono richiedere discipline speciali in cui sono coinvolte anche competenze statali. Trattandosi comunque di attività produttive, di beni o di servizi, esse dunque sono accomunate a quelle commerciali se non altro da tale denominatore comune.
Con tale attribuzione di competenza esclusiva (rectius: residuale) alla Regione, la legge quadro statale in materia di artigianato, modificata più volte nel corso degli anni, ha continuato ad applicarsi solo in mancanza di una disciplina regionale.
Alla nozione di artigianato, peraltro, possono essere ricondotte le attività produttive più disparate per contenuti, alcune delle quali caratterizzate dalla mancanza di contatto con il consumatore finale, altre ancora invece di servizio o di vendita vera e propria, ancorché con il limite del locale di produzione o ad esso adiacente.
Nella normativa statale, l’artigiano è colui che «esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo». Egli deve essere iscritto all’Albo previsto dall’art.5 della l. 8 agosto 1985, n. 443, ai sensi della quale (art.5, comma 7) «la vendita nei locali di produzione, o ad essi contigui, dei beni di produzione propria, ovvero per la fornitura al committente di quanto strettamente occorrente all’esecuzione dell’opera o alla prestazione del servizio commessi», non è assoggettata alla disciplina del commercio. Tale esclusione, quindi, opera solo per la vendita nei locali aziendali di prodotti propri dell’artigiano oppure per la fornitura di prodotti strettamente accessori ai primi[21]. L’esclusione dell’obbligo di iscrizione al registro degli esercenti nei confronti di detta categoria di operatori professionali trova puntuale riferimento anche nel d.lgs n.114 del 1998 (art.4 comma 2, lett. f). A stretto rigore, dunque, con riferimento agli artigiani, in quanto esclusi dal perimetro delle “attività commerciali individuate dal d.lgs. n. 114/1998”, cui fa riferimento l’art. 3, comma 1, lett. f-bis), d.l. n.223 del 2006, neppure dovrebbe attagliarsi la problematica di ricercata incompatibilità con la disciplina a tutela della concorrenza.
6. Il servizio assistito. La inadeguatezza della sola definizione di “somministrazione” (vendita per il consumo sul posto), in quanto sostanzialmente reiterativa di quella di “cessione sul posto” ha imposto di ricercare altrove gli elementi caratterizzanti la peculiarità di siffatta attività.  Si è detto dunque come l’interprete abbia enfatizzato la dizione di “servizio assistito” quale tratto strumentale e differenziale della vera “somministrazione”. A stretto rigore, come detto, il “servizio assistito” emerge quale requisito in negativo: si può somministrare, purché non fornendo il servizio assistito che è tipico della somministrazione. Tuttavia, al comprensibile fine di individuare quanti più parametri oggettivi possibile per discernere l’una attività dall’altra, il concetto di servizio è stato correlato non tanto e non solo al fattore umano (tipicamente, il cameriere che prende gli ordini ai tavoli e che peraltro non c’è laddove il locale, comunque di ristorazione, utilizzi il metodo del self service); bensì anche a quello delle forniture accessorie. Da qui le distinzioni, che egualmente hanno fatto ampiamente discutere, sulla tipologia dell’apparecchiatura, ovvero delle posate, ovvero dell’abbinamento delle sedute: fattori di per sé astrattamente irrilevanti -o, al contrario, di sicuro rilievo- ove non sia stata snaturata la tipologia del locale attraverso gli stessi.
Va riconosciuto a tale riguardo il merito al Ministero dello sviluppo economico di avere tentato di individuare indici sintomatici della ridetta trasformazione: non, dunque, fattori in presenza dei quali si è necessariamente in presenza di una somministrazione indebita da parte di un artigiano o di un esercizio di vicinato; ma indizi di tale trasformazione, da valutare in concreto e caso per caso.
Da ultimo, anche in contrapposizione alla diversa lettura dell’art. 3 del d.l. 223/2006 fornita dall’AGCOM, con risoluzione prot. n. 372321 del 28 novembre 2016 il Ministero ha sintetizzato le proprie precedenti posizioni (v. note della Direzione Generale n. 174884 del 29 settembre 2015 e n. 75893 dell’8 maggio 2013), attribuendo alla norma, peraltro impropriamente, portata innovativa e non ricognitiva di una preesistente possibilità per gli esercizi di vicinato.
Il richiamo all’utilizzo di piani di appoggio di dimensioni congrue all’ampiezza ed alla capacità ricettiva del locale nonché alla sola fornitura di stoviglie e posate a perdere o alla presenza di un limitato numero di panchine o altre sedute non abbinabili ed eventuali piani di appoggio, è stato evocato certo non per introdurre indicazioni che il legislatore ha pretermesso; bensì per suggerire esemplificativamente arredi che pur agevolando il consumo sul posto da parte del cliente, restano diversi da quelli propri di un ristorante e  “tipici” del negozio alimentari, che tradizionalmente non utilizza certo tavoli e sedie.
La capacità della tipologia degli arredi di fungere da richiamo per la clientela, che di certo non si pone domande classificatorie nella richiesta del servizio, ben evidenzia l’esigenza di valutarne la presenza in termini di impatto sul territorio.
«Il problema non è infatti quello di determinare disparità ingiustificate fra esercizi abilitati a praticare il consumo sul posto ed esercizi di somministrazione, bensì quello di non rendere fonte di disparità del tutto ingiustificate i vantaggi di semplificazione nell’acquisizione del titolo autorizzatorio per gli esercizi in cui si pratica il consumo sul posto, rispetto ai normali pubblici esercizi, in presenza di caratteristiche di servizio sostanzialmente assimilabili e di pari impatto», conclude dunque il Ministero.
E in effetti, l’attuale regime dell’autorizzazione (silenzio-assenso a 60 giorni) che caratterizza l’apertura o trasferimento di sede degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico nelle zone del Comune soggette a tutela, di cui all’art. 64, comma 1 e comma 3, del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59 e alla tabella A parte II allegata al d.lgs. n. 222/2016 è ben diverso da quello richiesto per l’attivazione di un esercizio di vicinato o di artigianato. Il comma 3 della richiamata norma esplicita ancora per quella tipologia di attività (esercizi di somministrazione), la possibilità, sulla base di parametri oggettivi e indici di qualità del servizio, di introdurre divieti o limitazioni all’apertura di nuove strutture nei casi in cui ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità rendano impossibile consentire ulteriori flussi di pubblico nella zona senza incidere in modo gravemente negativo sui meccanismi di controllo.
E’ vero che analogo potere di contingentamento ovvero di aggravio di regime si trova anche con riferimento agli esercizi di vicinato, giusta la ricordata previsione generale contenuta in tal senso nell’art. 1 del d.lgs. n. 222/2016, ma esso è ancorato a finalità di tutela del patrimonio paesaggistico, artistico e monumentale ed ha un potenziale -almeno stando alla formulazione letterale della norma- assai meno esteso.
Esemplificando ed estremizzando, dove non è consentita l’apertura di un ristorante con venti tavoli ed una potenziale numerosa clientela che permanga per lungo tempo in modo più o meno rumoroso nella relativa area di riferimento, non può essere consentita una analoga situazione per il solo fatto che l’esercizio in questione abbia scelto di presentare SCIA come esercizio di vicinato di vendita di prodotti alimentari e senza richiedere specifica autorizzazione, che gli sarebbe stata negata, come pubblico esercizio di somministrazione.
Il servizio assistito al tavolo, dunque, non può costituire l’unico parametro di discrimine tra vendita per il consumo sul posto e somministrazione, sia perché esso potrebbe mancare, senza che ciò implichi il venir meno della natura di esercizio di ristorazione (si pensi all’esempio già citato del ristorante col metodo del self service); sia perché la sua mancanza non implica necessariamente che sia stata rispettata la funzione tipica della vendita.
Quel che rileva sono gli elementi di arredo in relazione alla struttura del locale, al pari cioè di quanto avvenuto in materia di spettacoli e trattenimenti pubblici all’interno di locali autorizzati per altro, con riferimento ai quali è il Ministero dell’interno che ha fornito indicazioni, in termini di vere e proprie figure sintomatiche dell’avvenuta trasformazione del locale[22].
E tra questi non è affatto priva di rilievo, come in verità parrebbe emergere in alcune decisioni, l’assenza della bilancia e, conseguentemente, dell’indicazione dei prezzi di vendita per unità di misura, che caratterizza l’attività dei laboratori artigianali e degli esercizi di vicinato alimentare[23]. Vale la pena sottolineare al riguardo che è il Codice del Consumo, all’art. 14, a prescrivere l’obbligo di indicazione del prezzo per unità di misura per gli esercizi commerciali (ivi compresi i laboratori artigianali e gli esercizi di vicinato alimentare), escludendo espressamente tra i destinatari solo gli esercizi che effettuano l’attività di somministrazione “tradizionale”, come bar e ristoranti.
7. La normativa emergenziale. La difficoltà di utilizzare una terminologia univoca capace di comprendere tutti i possibili modi di atteggiarsi delle “attività produttive” si riscontra anche nella recente normazione emergenziale legata al diffondersi dell’epidemia COVID -19.
Il ricorso ad espressioni proprie del gergo comune (pub e simili), non più corrispondenti a quelle del gergo giuridico, in una con la necessità di garantire solo approvvigionamenti di generi alimentari di prima necessità, ha fatto sì che si siano generate comprensibili distonie interpretative, tali da indurre gli organi di controllo a farsi essi portavoce delle esigenze di tutela della salute, da un lato; della concorrenza, dall’altro, evitando interpretazioni estensive a vantaggio di operatori facoltizzati all’apertura “invadendo” sfere di operatività di altri, ovvero utilizzando a tutto tondo il proprio titolo, laddove l’apertura pareva limitata per specifici prodotti, sospesa per altri[24]. Non a caso si è scelto di utilizzare il riferimento ai cd. “codici ATECO” per individuare le attività consentite, con ciò incrementando le difficoltà dell’operatore, sia perché non avvezzo alla relativa categorizzazione, sia perché, come detto sopra, essa ha necessitato di integrazioni interpretative avuto riguardo alla tipologia i attività e di prodotti esclusi dalla portata dei provvedimenti.  I codici in questione costituiscono, come noto, la traduzione italiana della nomenclatura delle attività economiche (NACE) creata dall’Eurostat, adattata dall’ISTAT alle caratteristiche specifiche del sistema economico italiano. Attualmente è in uso la versione ATECO 2007, entrata in vigore dal 1º gennaio 2008, che sostituisce la precedente ATECO 2002, adottata nel 2002 ad aggiornamento della ATECO 1991. Si tratta di una classificazione alfa-numerica con diversi gradi di dettaglio: le lettere indicano il macro-settore di attività economica, mentre i numeri (che vanno da due fino a sei cifre) rappresentano, con diversi gradi di dettaglio, le articolazioni e le disaggregazioni dei settori stessi. Ciò ha finito per generare non semplici questioni interpretative proprio sull’esatta accezione da attribuire alle «attività dei servizi di ristorazione» sospese dall’art. 1, comma 1, punto 2, del D.P.C.M. dell’11 marzo 2020, tanto che si sono rese necessarie circolari interpretative dei sindacati di categoria a chiarimento e omogeneizzazione del linguaggio. Come indicato, ad esempio, nella circolare Fipe n. 24/2020, tra le attività sospese rientrano quelle dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie)”, vale a dire tutte quelle ricomprese nel Codice Ateco 56 “Attività dei servizi di ristorazionead esclusione delle mense e del catering continuativo su base contrattuale (cod. 56.29.), per le quali si prevede espressamente la possibilità di proseguire, nonché degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande posti nelle aree di servizio e di rifornimento (presso strade, autostrade, stazioni ferroviarie, ecc…)[25]. Vale la pena ricordare che secondo le note esplicative Istat, nella classificazione delle attività economiche Ateco 2007, la divisione dei servizi di ristorazione include le attività dei servizi di ristorazione che forniscono pasti completi o bevande pronti per il consumo sia in ristoranti tradizionali, self-service o da asporto, che in chioschi permanenti o temporanei con o senza posti a sedereTrattasi di esercizi in cui vengono forniti pasti pronti per il consumo, indipendentemente dal tipo di struttura che li offre. È, invece, esclusa la fornitura di pasti non preparati per il consumo immediato o che non siano prodotti per essere consumati immediatamente o di cibo preparato che non può essere considerato un pasto. Così come viene esclusa la vendita di alimenti non prodotti in proprio che non possono essere considerati un pasto o di pasti non pronti per il consumo. Diciture tutte che sembrerebbero mantenere la distinzione tra esercizi di vendita e di somministrazione, riconducendo alla ristorazione solo questi ultimi. Salvo poi nelle singole sottovoci introdurre categorie del tutto ibride di difficile collocazione sistematica che di sicuro non hanno agevolato gli interpreti[26]. Ed è comunque evidente che la sola legittimazione della vendita per asporto ha finito per omogeneizzare i singoli settori di riferimento
8. La posizione dell’AGCOM. Il tema è stato affrontato anche dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato nella segnalazione 27 ottobre 2016, n. S2605, posta alla base della maggior parte delle decisioni dei giudici di Palazzo Spada.
Nel criticare le risoluzioni ministeriali adottate fino a tale momento, l’Autorità rileva che esse incentrano l’elemento distintivo tra l’attività di somministrazione di alimenti e bevande (definita dall’articolo 1, comma 1, della l n. 287/91) e l’attività di vendita (la cui definizione viene ricondotta all’art. 3, comma 1, del d.l. n. 223/2006) sulla modalità di consumo offerta, in termini di attrezzatura utilizzabile per consentire il consumo sul posto.
In realtà, il d.l. n. 223/2006 non contiene affatto una definizione dell’attività di vendita per il consumo sul posto, ma inserisce tra i “divieti vietati” quelli funzionali a limitare tale facoltà aggiuntiva già accordata agli esercizi di vicinato dal d.lgs. n. 114/1998 e, ancor prima, dalla l. n. 77/1997. 
Ad avviso dell’Autorità tale impostazione, «che rievoca i termini impiegati dalla legge n. 287/1991 sulla somministrazione», appare idonea a limitare significativamente l’attività degli esercizi di vicinato non autorizzati alla somministrazione di alimenti e bevande, in assenza di giustificazioni obiettive. Giustificazioni obiettive ravvisabili, invece, nel diverso regime autorizzatorio, nella diversificazione dei requisiti soggettivi richiesti agli operatori, nelle caratteristiche igienico sanitarie del locale e dell’eventuale laboratorio annesso, nella mancanza di requisiti di sorvegliabilità, per contro ancora richiesti per la somministrazione: equiparando totalmente, dunque, le possibilità dell’una tipologia di esercizio a quella dell’altra, non è chi non veda come lo svantaggio concorrenziale finisca per affliggere gli esercizi di somministrazione e non quelli di vendita.
Ciò a maggior ragione alla luce delle innegabili nuove abitudini di consumo, per cui non si devono limitare le possibilità di scelta dei consumatori.
«Ne deriva un approccio [continua ancora l’AGCOM] che risulta in palese contrasto nel suo complesso con i principi posti dal legislatore. Le richiamate Risoluzioni non tengono, infatti, conto del fatto che già il D.L. n. 223/2006 aveva inteso superare o quantomeno coordinare con i principi di concorrenza tutte le attività di consumo sul posto di alimenti e bevande, individuando il discrimen tra l’attività di somministrazione e quella di vendita da parte degli esercizi di vicinato unicamente nella presenza o meno del servizio assistito». Il che, come si è cercato di dimostrare, non corrisponde affatto né alla lettera delle norme, né alla finalità del legislatore.  
8. Una possibile svolta. La sez. V del Consiglio di Stato ha di recente rivisto le proprie posizioni addivenendo al sostanziale riconoscimento di elementi differenziali “oggettivi” da valutare caso per caso[27]. Come ben ricostruito nella pronuncia del T.A.R. per il Lazio n. 2619/2020[28], la sentenza può considerarsi l’ultima in ordine di tempo, stante che pur essendo stata pubblicata il 31 dicembre 2019, essa consegue all’udienza pubblica del 12 dicembre 2019, laddove quelle nelle quali si è ribadito il precedente indirizzo (nn. 139 e 141 dell’8 gennaio 2020) conseguono ad una chiamata in decisione del 21 novembre 2019. In primo luogo, dunque, si dà finalmente atto che il «servizio assistito di somministrazione» ben può includere anche pratiche senza camerieri.
Indi individua il discrimine effettivo tra le due tipologie di attività «nella predisposizione di risorse, non solo umane ma anche semplicemente materiali, che siano di servizio al cliente assistendolo per consumare confortevolmente sul posto (cioè: non meramente in piedi) quanto acquistato in loco». Il che può avvenire anche mediante tavolini e attrezzature di particolare evidenza.
È allora coerente con la legge fare riferimento anche al “criterio funzionale” che vede nelle attrezzature materiali (tavolini, banchi, panche, ecc.) l’elemento oggettivo cui fare riferimento, la cui presenza è di servizio all’avventore che intenda sùbito consumare sul luogo quanto ha acquistato.
«Naturalmente, secondo un altrettanto criterio di ragionevolezza, perché questa funzionalità alla somministrazione – anziché al mero consumo sul posto – vi sia occorre che le attrezzature predisposte dall’esercente o da chi per lui – pur senza un servizio al tavolo – siano di caratteri, dimensioni, quantità e arredi tali da indurre indistintamente gli avventori al consumo sul posto dei prodotti appena acquistati: il che, incidendo sulle caratteristiche commerciali effettive dell’intero esercizio – visto dalla potenziale clientela non più come un luogo di mero approvvigionamento, ma anche come un possibile e ordinario luogo di ristoro – viene a rilevare sul piano urbanistico della regolamentazione generale del commercio dell’area e sul discrimine reale tra attività liberalizzate e attività non liberalizzate».
 I giudici concludono poi demandando alla valutazione da effettuare di volta in volta la consistenza degli elementi di arredo, ritenendola insussistente nel caso di specie a connotare il locale come (anche) da somministrazione, in quanto contenuti in una dimensione accessoria, eventuale e secondaria rispetto alla vendita da asporto, la quale deve comunque mantenere il carattere prevalente e funzionale.
Conclusioni. La materia del commercio, lato sensu intesa, si è sempre caratterizzata per fughe linguistiche in avanti conseguite alla necessità che l’offerta vada al passo della richiesta con maggior velocità della norma.
Le diversificazioni concettuali, tuttavia, ove mantenute dal legislatore, rispondono ad evidenti valutazioni diverse, avuto riguardo ai requisiti dei titolari, ma ancor più dei locali e del contesto nel quale vanno a collocarsi.
In sintesi, perfino nel declinare il potere programmatorio territoriale il legislatore ha mantenuto le distinzioni tra tipologie di attività, frutto evidente della constatazione, pure essa empirica e sociale, prima che giuridica, che gli assembramenti, agevolati magari dalla fruizione di suolo pubblico in ampliamento della superficie di vendita o di somministrazione, incidono in negativo o meno sul tessuto sociale, prima e oltre che sul patrimonio, anche culturale, con il quale vanno ad impattare.
Il tema peraltro assumerà ancora più rilevanza vista la contingenza emergenziale che vedrà misure restrittive di sicura incidenza sul settore per favorire il cd. distanziamento sociale. Imporre una riduzione degli arredi, non può avere riguardo ai pubblici esercizi e non toccare gli esercizi di vicinato, per i quali “le sedute” non sono neppure correlate ad una astratta capienza del locale, basandosi su criteri di priorità di fruizione. In senso opposto, limitare, a maggior ragione nei momenti di difficoltà, la fruizione del suolo pubblico sulla base di astratte valutazioni aprioristiche privilegiando la concessione ad alcune tipologie, anziché ad altre, realizza un’indebita e inaccettabile discriminazione e distorsione della concorrenza.
In sintesi, la programmazione necessita di analisi, economiche prima di tutte: e una seria analisi economica non può non basarsi solo su aspetti definitori, ma ne presuppone la piena acquisizione. Se, dunque, può apparire evanescente, ed inutilmente penalizzante, avere riguardo alla tipologia delle stoviglie fornite; lo stesso potrebbe non valere con riferimento a tipiche apparecchiature a supporto della ristorazione, come la macchinetta del caffè.  Esse possono divenire da sole o congiuntamente ad altre indici sintomatici di somministrazione. Il “contingentamento” di qualità, dunque, potrebbe passare anche attraverso l’indicazione di ciò che si può e non si può utilizzare, evitando elementi fisiologicamente attrattivi della stanzialità della clientela. Perché ciò avvenga in maniera corretta, è necessario, a monte, avere chiaro, appunto, ciò che, a legislazione invariata, è tipico dell’esercizio di somministrazione e ciò che invece è consentito, ma quale offerta accessoria, al titolare di un esercizio di vicinato, di un laboratorio artigianale, di un panificio, ovvero di un’azienda agricola. Solo comprendendo, a monte, la portata dell’offerta “stanziale”, può programmarsene l’entità, finanche in termini di pressione antropica nelle zone a maggior flusso turistico.
 
Antonella Manzione
Consigliere di Stato
 
Pubblicato il 4 maggio 2020
 

[1] Cfr. al riguardo Cons. Stato, sez. V, n. 2280 dell’8 aprile 2019; id., 25 novembre 2019, n. 8011; nn. 139 e 141 dell’8 gennaio 2020; T.A.R. per il Lazio, sz. II ter, 2 aprile 2020, n. 3754; 20 marzo 2020, nn. 3481 e 3482; 28 febbraio 2020, n. 2619. 
[2] Cons. Stato, sez. V, 31 dicembre 2019, n. 8923, su cui più avanti nel testo.
[3] Cfr. sul punto Cons. Stato, sez. II, 14 novembre 2019, n. 7839.
[4] Per un’interessante problematica di settore correlata all’introduzione di una nuova tipologia di piani territoriali – quelli di gestione dello spazio marittimo, di cui al d.lgs. 17 ottobre 2016, n. 201, recante, appunto, “Attuazione della direttiva 2014/89/UE che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo“- cfr. Cons. Stato, sez. IV. 2 marzo 2020, n. 1486. Tra i piani di cui la pianificazione marittima dovrà tener conto, infatti, rientrano, a mero titolo di esempio, i piani regolatori portuali, i piani paesaggistici, i piani regionali di gestione del demanio marittimo e di zone di mare territoriale adottati da alcune Regioni come forma attuativa, in assenza di disciplina statale, della gestione integrata della zona costiera, o anche i piani attuativi comunali di gestione del demanio marittimo, o i piani comunali di costa adottati.
[5] La Corte Costituzionale, con sentenza 9 giugno – 9 luglio 2015, n. 140, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-bis e 4 bis del d.l. 8 agosto 2013, n. 91, convertito con modificazioni dalla l. 7 ottobre 2013, n. 112, nella parte in cui hanno introdotto un comma 1 bis all’art. 52 del d.lgs. 42/2004, consentendo l’individuazione di locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO, nella parte in cui non prevede l’intesa fra Stato e Regioni; dell’art. 4, comma 1, del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito con modificazioni, dalla l. 29 luglio 2014, n. 106 (che ha rinominato e modificato il comma 1-ter del presente articolo, destinato ad incidere sull’uso del suolo pubblico a fini commerciali, nella parte in cui non prevede alcuno strumento idoneo a garantire una leale collaborazione fra Stato e Regioni.
[6] L’art. 1 del d.l. n. 1/2012 prevedeva l’abrogazione di tutte le norme «che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi, ovvero impediscono, limitano o condizionano l’offerta di prodotti e servizi al consumatore, nel tempo nello spazio o nelle modalità, ovvero alterano le condizioni di piena concorrenza fra gli operatori economici oppure limitano o condizionano le tutele dei consumatori nei loro confronti». Quanto detto, tuttavia, solo con decorrenza dall’adozione di appositi decreti attuativi. La mancata adozione degli stessi ha comportato l’abrogazione del comma contenente il relativo rinvio (comma 3) ad opera del d.lgs. 2 gennaio 2016, n. 10, che nel tentativo di rafforzare l’efficacia normativa del sistema eliminando i provvedimenti non autoapplicativi ne ha acriticamente cassato la previsione, con ciò rendendo sostanzialmente inattuabile l’effetto tagliola, in quanto differito ad un momento che non potrà più sopravvenire. L’abrogazione delle disposizioni normative comportanti restrizioni alle attività economiche era già prevista nell’art. 34 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, non esteso tuttavia agli atti di programmazione territoriale.
[7] L’origine della valutazione dell’importanza del contesto a fini di recupero di sicurezza viene individuata nella cd. teoria delle finestre rotte introdotta nel 1982 in un articolo di scienze sociali di James Q. Wilson e George L. Kelling, facendo l’esempio, appunto, degli effetti emulativi di una semplice finestra rotta lasciata in tale stato nel tempo. L’importanza attribuita alla “rigenerazione urbana” nei piani urbanistici, con la previsione finanche di premi di cubatura per ristrutturazioni finalizzate allo scopo, è chiaro indice della convergenza di interessi insita nella pianificazione urbanistica, e della continua evoluzione di una loro corretta lettura.
[8] L’art. 9, comma 3, del decreto, demanda, appunto, ai regolamenti la individuazione di aree aggiuntive, oltre quelle normativamente previste al comma 1, ove applicare le limitazioni alle facoltà di stazionamento e occupazione e, conseguentemente, il previsto regime sanzionatorio. E’ evidente, per quanto qui di specifico interesse, che potrebbe motivatamente vietarsi non tanto e non solo il commercio su aree pubbliche, ma anche quelle occupazioni strumentali all’attività di somministrazione o ristorazione di cui più avanti nel testo, ad esempio allo scopo di calmierare l’afflusso di giovani e in tal modo prevenire fenomeniche di “movida” molesta.  
[9] Alcuni Comuni più lungimiranti hanno da tempo valorizzato anche le istanze di sicurezza nella progettazione dei propri spazi, nuovi o da recuperare. Ciò sulla teorica che non esiste una sola nozione di sicurezza, ma un contenitore unico nel quale convergono esigenze settoriali disparate, e comunque mirate al miglioramento della vivibilità cittadina. Per un approfondimento sul punto ci sia consentito rinviare a A. Manzione, in La Co-città”, a cura di P. Chirulli e C. Iaione Jovene Editore, 2018.
[10] Per un richiamo ai principi rivenienti dalla giurisprudenza comunitaria in materia di possibilità programmatorie restrittive per le attività economiche, cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 gennaio 2019, n. 298, ove si cita anche il riferimento alla razionale gestione del territorio di cui alla sentenza della Sez. I, 1 ottobre 2009, nella causa C-567/2007, Woningstchting Sint Servatius. Tale pronuncia in realtà si riferisce più propriamente ad un caso di attività trasfrontaliere da parte di un’impresa che è autorizzata ai sensi di legge a promuovere gli interessi dell’edilizia popolare nel Paese di appartenenza. Le importanti affermazioni di principio a carattere generale ivi riportate tornano comunque utili ai fini del suggerito punto di equilibrio tra esigenze di tutela della concorrenza ed altri interessi pubblici rilevanti. In particolare al § 35 si legge:«Tuttavia, la Corte ha anche più volte affermato che un regime di previa autorizzazione amministrativa non può legittimare un comportamento discrezionale da parte delle autorità nazionali, tale da vanificare le disposizioni comunitarie, in particolare quelle relative ad una libertà fondamentale come quella oggetto della causa principale. Pertanto, un regime di previa autorizzazione amministrativa, perché sia giustificato anche quando deroghi ad una libertà fondamentale siffatta, deve essere fondato su criteri oggettivi, non discriminatori e noti in anticipo, che garantiscono la sua idoneità a circoscrivere sufficientemente l’esercizio del potere discrezionale delle autorità nazionali (v., in particolare, sentenza 10 marzo 2009, causa C‑169/07, Hartlauer, Racc. pag. I‑1721, punto 64 e giurisprudenza ivi citata)».
[11] Per un’interessante ricostruzione delle possibilità di limitazione degli orari delle attività produttive in genere, v. Cons. Stato, sez. II consultiva, n. 2065 del 27 agosto 2018, avente ad oggetto la possibilità di incidere in senso riduttivo sull’orario delle attività artigianali di barbiere ed estetiste.
[12] La sentenza della Corte n. 200/2012 aveva ad oggetto la legittimità costituzionale dell’art. 3 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, a seguito di giudizi promossi con ricorsi delle Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria, Calabria e della Regione autonoma Sardegna. Al § 7.4. della pronuncia si legge: « Rispetto alla pretesa invasione delle competenze regionali in materia di commercio, attività produttive e tutela della salute, ex art. 117 Cost., occorre anzitutto osservare che il legislatore statale ha agito nell’ambito, ad esso spettante, della tutela della concorrenza, come correttamente specificato dall’art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 138 del 2011. Infatti, per quanto l’autoqualificazione offerta dal legislatore non sia mai di per sé risolutiva (ex multis, sentenze n. 164 del 2012, n. 182 del 2011 e n. 247 del 2010) in questo caso appare corretto inquadrare il principio della liberalizzazione delle attività economiche nell’ambito della competenza statale in tema di “tutela della concorrenza”. Quest’ultimo concetto, la concorrenza, ha un contenuto complesso in quanto ricomprende non solo l’insieme delle misure antitrust, ma anche azioni di liberalizzazione, che mirano ad assicurare e a promuovere la concorrenza “nel mercato” e “per il mercato”, secondo gli sviluppi ormai consolidati nell’ordinamento europeo e internazionale e più volte ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis, sentenze n. 45 e n. 270 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007). Pertanto, la liberalizzazione, intesa come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale».
 
[13] Nel caso di specie si trattava del giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 4, e 35, comma 7, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2012, n. 27, promossi dalle Regioni Toscana e Veneto, concluso nel senso della inammissibilità o infondatezza delle questioni sollevate. 
[14] Corte cost.,  11 novembre 2016, n. 239, cit. nel testo, ove peraltro si richiamano la sentenza n. 125 del 2014, che si è pronunciata sull’art. 43 della legge della Regione Umbria 6 maggio 2013, n. 10, previsioni regionali che a loro volta determinano una violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in materia di tutela della concorrenza, in quanto rendono eccessivamente oneroso l’ingresso di nuovi operatori entranti in un determinato settore di mercato, con correlativa discriminazione concorrenziale tra operatori già presenti e quelli che intendano accedervi; ovvero n. 105 del 2016, che pure ha ritenuto non illegittimo l’art. 1, comma 1, lettere d) ed e), della legge della Regione Lombardia 19 dicembre 2014, n. 34 che prevedeva la presenza contestuale di più tipologie di carburanti, con riferimento alla possibilità di attivazione dei relativi esercizi.
 
 
[15] Altro sono, infatti, molto banalmente, i requisiti strutturali richiesti alle attività di somministrazione, altro quelli per le attività artigiane e commerciali, ovvero tra ciò che nasce per il “take away”, e ciò che invece presuppone la prolungata presenza della clientela.  
 
 
[16] L’art. 11 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, al comma 2 precisa che «Il settore sviluppo economico attiene, in particolare, oltre alla materia “agricoltura e foreste”, che resta disciplinata dal decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143, alle materie “artigianato”, “industria”, “energia”, “miniere e risorse geotermiche”, “ordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura”, “fiere e mercati e commercio”, “turismo ed industria alberghiera“», poi sviluppate analiticamente nei titoli nei quali è suddiviso l’articolato.
[17] Lo Sportello unico per le attività produttive, noto con l’acronimo di S.U.A.P., è oggi disciplinato nel d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160, adottato in attuazione dell’art. 38, comma 3, del d.l. 25 giugno 2008, n.112, convertito dalla l. 6 agosto 2008, n. 133. Anche la cd. edilizia produttiva dovrebbe far capo allo stesso. Tuttavia in molti Enti, anche di grandi dimensioni, la resistenza a risolvere sul piano del coordinamento organizzativo le esigenze di semplificazione, fa sì che esso non assorba davvero le funzioni spettanti, nell’ambito dell’edilizia residenziale, all’analogo “Sportello unico”, ma per l’edilizia, appunto (S.U.E.). Il SUE è stato a sua volta istituito dall’art. 5 del d. P.R. n. 380/2001, e assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato, l’amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine all’intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il privato e l’amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi. La coesistenza delle due strutture fa sì che il cittadino imprenditore debba necessariamente rapportarsi ad entrambe distintamente per la realizzazione, “chiavi in mano”, della sua impresa. 
[18] Si veda Cassazione civ. sez. I, 5 maggio 2006, n. 10393 e, in campo giurisdizionale amministrativo, Cons. Stato, sez. V, 4 maggio 1998, n. 499; T.A.R. per la Campania, Salerno, sez. I, 15 ottobre 2018, n.1430; T.A.R. per il Lazio, sez. II, 26 novembre 2004, n. 14141; T.A.R. per la Toscana, sez. II, 17 settembre 2003, n. 5100. Un’analitica ricostruzione dell’evoluzione giuridica del relativo concetto è riportata di recente in T.A.R. per il Lazio, sez. II ter, 2 aprile 2020, n. 3754.
 
[19] L’art. 4 della l. n. 77/1997 definisce “Servizi sostitutivi di mensa” «le somministrazioni di alimenti e bevande, effettuate dai pubblici esercizi, nonché le cessioni di prodotti di gastronomia pronti per il consumo immediato effettuate da mense aziendali, interaziendali, rosticcerie e gastronomie artigianali, pubblici esercizi e dagli esercizi commerciali muniti dell’autorizzazione di cui all’articolo 24 della legge 11 giugno 1971, n. 426, per la vendita dei generi compresi nella tabella I dell’allegato 5 al decreto del Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato 4 agosto 1988, n. 375, nonché dell’autorizzazione di cui all’articolo 2 della legge 30 aprile 1962, n. 283, per la produzione, preparazione e vendita al pubblico di generi alimentari, anche su area pubblica, e operate dietro commesse di imprese che forniscono servizi sostitutivi di mensa aziendale». I richiami normativi si riferiscono alle vecchie tabelle merceologiche alimentari e all’autorizzazione sanitaria per produzione, preparazione e vendita di generi alimentari. A seguito di entrata in vigore dei regolamenti comunitari di settore, le autorizzazioni sanitarie sono state abrogate e sostituite da procedure semplificate. L’attuazione delle predette procedure è stata effettuata mediante l’emanazione del d.lgs. del 6 novembre 2007, n. 193, nonché mediante le disciplina regionale di settore.
[20] Art. 7 del d.lgs. n. 114/1998: «Fermi restando i requisiti igienico-sanitari, negli esercizi di vicinato autorizzati alla vendita dei prodotti di cui all’articolo 4 della legge 25 marzo 1997, n. 77, é consentito il consumo immediato dei medesimi a condizione che siano esclusi il servizio di somministrazione e le attrezzature ad esso direttamente finalizzati».
[21] Nel concetto di prodotti “strettamente accessori” non dovrebbero rientrare le bevande, che tuttavia anche la giurisprudenza più restrittiva, con una inspiegabile limitazione a quelle “gassate”, include. Cfr. TAR per il Lazio, sez. II ter, 2 aprile 2020, n. 3754. Essa può viceversa riferirsi alla brioche o alle cialde o ad altri tipi di decorazioni/ arricchimento utilizzate per i gelati dagli artigiani.
[22] Tipicamente proprio la collocazione delle sedute in funzione della visualizzazione dello spettacolo.
[23] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 25 novembre 2019, n. 8011
[24] Emblematica al riguardo la risonanza nazionale data alla circolare della Polizia locale di Roma capitale sulla tipologia di “pizza” la cui produzione è consentita agli artigiani panificatori, a fronte della disposta chiusura delle cd. “pizzerie a taglio”, che pur rischiando di apparire eccessiva o bizantina, evidenzia invece un apprezzabile tentativo di ricondurre ad armonia le scelte di sistema fornendone una lettura teleologicamente orientata.
[25] Nelle sezioni 55 e 56, rubricate “Alloggio” e “Attività dei servizi di ristorazione” sono incluse le strutture che forniscono alloggio per brevi periodi a visitatori e viaggiatori, nonché pasti e bevande pronti per il consumo. La quantità e i tipi di servizi complementari forniti dalle strutture di questa sezione possono variare ampiamente. La sezione esclude la fornitura di alloggio per lunghi periodi, che viene classificata nelle Attività Immobiliari (sezione L). Inoltre, per quanto di interesse in questa sede, è esclusa la preparazione di alimenti o bevande non pronte per il consumo immediato o vendute tramite canali di distribuzione indipendenti, ovvero tramite attività di commercio all’ingrosso o al dettaglio. La preparazione di questo tipo di alimenti è classificata nelle Attività manifatturiere (sezione C).
[26] Punto 56.10.2 “Ristorazione senza somministrazione”, ovvero preparazione di cibo da asporto. Analogamente si è legittimata l’apertura degli esercizi artigianali con la medesima finalità di vendita per asporto.
[27] Cons. Stato, sez. V, 31 dicembre 2019, n. 8923.
[28] T.A.R. Lazio, sez. II ter, 28 febbraio 2020, n. 2619, già citata sub nota 1.
Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto