03/08/2016 – Incarichi extra: l’assoluzione civile non esclude la responsabilità erariale

Incarichi extra: l’assoluzione civile non esclude la responsabilità erariale

A. Bianco (La Gazzetta degli Enti Locali 1/8/2016)

Matura responsabilità amministrativa per lo svolgimento di attività ulteriori da parte dei dipendenti pubblici senza la preventiva autorizzazione da parte del proprio ente. Non danno luogo ad esimenti né lo svolgimento di tali attività per conto di altre pubbliche amministrazioni né addirittura l’assoluzione dinanzi al giudice del lavoro in presenza della richiesta dell’ente di recupero delle somme illegittimamente percepite. 

Lo svolgimento della attività di consulente tecnico d’ufficio su incarico di un magistrato non richiede invece la necessità della preventiva autorizzazione da parte della propria amministrazione. Sono queste le più recenti indicazioni formulate dalla magistratura contabile.

La competenza del giudice contabile

In premessa, occorre evidenziare che le pronunce ricordano che siamo in una materia in cui il contenzioso spetta al giudice contabile. Infatti, come ci ricorda la sentenza della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti del Piemonte n. 226 dello scorso 28 giugno si deve pervenire a questa conclusione “per il solo fatto obiettivo dello svolgimento di tale attività non autorizzata, in violazione del principio della esclusività della funzione pubblica, tenuto conto che l’obbligo imposto al dipendente pubblico dall’art.53, comma 7, del d.lgs. n.165 del 2001, giusta la tesi di parte pubblica, scaturisce dai vincoli gravanti in ragione proprio del rapporto di servizio che, anche dopo la riforma intervenuta a partire dal d.lgs. n. 29 del 1993 alla disciplina del rapporto di lavoro, lo lega alla P.A., trovando il suo fondamento negli artt.28, 54, 97 e 98 Costituzione”.

Ed ancora, “la ratio sottesa alla disciplina in questione è chiaramente quella di consentire una preventiva verifica, mediante il provvedimento autorizzativo, che il dipendente pubblico non sia destinatario di un incarico esterno che possa influire negativamente sull’ordinario svolgimento delle mansioni istituzionalmente attribuite”. “Ne discende senza ombra di dubbio che il dipendente, che abbia svolto attività extraistituzionale retribuita senza avere preventivamente ottenuto l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza, debba rifondere quest’ultima mediante il versamento di un importo corrispondente al compenso incamerato”.

La mancanza di autorizzazione

Il dipendente deve rifondere all’ente quanto ha percepito da altri soggetti, pubblici o privati non importa, per attività ulteriori svolte senza la preventiva autorizzazione. E’ quanto evidenzia la sentenza della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti del Piemonte n. 235 del 12 luglio.

In essa leggiamo che “l’obbligo di richiedere l’autorizzazione all’amministrazione di appartenenza del dipendente non ricade in via esclusiva sull’ente conferente, ma riguarda naturalmente e contestualmente anche il lavoratore interessato, il quale, essendo il diretto destinatario del descritto divieto, ha comunque l’onere, oltre che l’interesse, prima di iniziare l’attività extra, al fine di non violare il precetto .., di accertarsi che l’autorizzazione sia stata richiesta dall’ente conferente e rilasciata dalla propria amministrazione.  In difetto, deve egli stesso inoltrare la richiesta di autorizzazione in anticipo rispetto all’inizio dell’incarico.. Non rileva in contrario l’utilizzo, nella norma citata, del termine può in luogo di deve: l’autorizzazione, infatti, deve essere richiesta, in linea di principio, dal conferente, ma se questo non provvede per qualsiasi motivo, compresa la mancata consapevolezza dell’adempimento stesso, l’obbligo non può che ricadere sul dipendente quale diretto interessato all’incarico e soggetto a responsabilità amministrativa”.

L’interpretazione più coerente della disciplina – della parte in cui essa dispone che il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte debba essere versato a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore – impone di ritenere che il versamento del compenso da parte del soggetto erogante debba avvenire qualora non lo abbia già corrisposto al prestatore non autorizzato. Qualora, invece, il compenso sia stato già versato a quest’ultimo, come nel caso di specie, l’amministrazione deve necessariamente rivalersi direttamente ed esclusivamente sul dipendente”.

Il rapporto con le sentenze del giudice ordinario

In ambedue le vicende oggetto delle citate sentenze della Corte dei Conti del Piemonte n. 226 e 235, ambedue del 2016, i dipendenti erano stati prosciolti dinanzi al giudice ordinario rispetto alla richiesta di versare alla propria amministrazione i compensi percepiti senza preventiva autorizzazione. 

Leggiamo che “Collegio non ravvisa alcun condizionamento discendente dal giudicato formatosi sulla ricordata pronuncia del Giudice Ordinario. In effetti, la domanda proposta dalla Procura contabile avanti a questo Giudice concerne non il recupero avviato dall’ente bensì l’accertamento di responsabilità concernente l’omesso riversamento da parte della pubblica dipendente dell’Amministrazione dei compensi ricevuti per gli incarichi non autorizzati rientrante, ad avviso del Collegio, ai sensi del comma 7 bis dell’art. 53 d.lgs. n. 165/2001 nell’alveo della giurisdizione della Corte dei conti”. Ed ancora l’azione intentata dall’ente aveva “natura restitutoria e basata sugli adempimenti derivanti dallo svolgimento del rapporto di lavoro, mentre quella incardinata dalla Procura Regionale ha natura risarcitoria a fronte del danno erariale cagionato dalla convenuta, almeno secondo la prospettazione attorea, per non avere l’interessata riversato i compensi comunque incassati, osserva il Collegio che il giudicato civile non può mai fare stato nel processo contabile .. Rimane, pertanto, assolutamente integro ed intangibile il principio del libero convincimento della Sezione in relazione sia all’apprezzamento dei fatti che emergono dal fascicolo processuale, sia naturalmente all’attività ermeneutica relativa alle norme che disciplinano la fattispecie concreta”.

La colpa grave

Essa sussiste in quanto “avere accettato plurimi incarichi retribuiti in modo continuativo senza mai chiedersi se fosse necessaria l’autorizzazione preventiva della propria Amministrazione, ignorando presumibilmente che la stessa doveva essere richiesta in prima battuta dall’Ente conferente, e, comunque, disinteressandosi completamente per un periodo così ampio della naturale e doverosa verifica, nel proprio ed esclusivo interesse personale, in ordine all’effettivo rispetto di siffatto adempimento da parte” della PA presso cui sono state svolte le attività aggiuntive “integra indubbiamente un contegno ingiustificabile connotato dalla presenza del requisito soggettivo della colpa grave, tenendo conto, peraltro, che la disposizione violata si presentava di assoluta chiarezza e di immediata percezione”.

Lo svolgimento delle attività di consulente tecnico d’ufficio

I dipendenti delle PA possono svolgere le attività di consulente tecnico d’ufficio anche senza la preventiva autorizzazione ed esse non rientrano tra quelle per le quali è necessario che il rapporto di lavoro sia a part time per un periodo non superiore al 50%. Sono queste le indicazioni di maggiore rilievo dettate dalla sentenza della terza sezione di appello della Corte dei Conti n. 331 dello scorso 21 luglio.

Leggiamo testualmente che “con una circolare del 4 gennaio 1999 il Ministero della Giustizia ha emesso il (condivisibile) avviso secondo cui gli incarichi professionali di matrice giudiziaria per un verso non rientrano tra quelli che alle PP.AA. è precluso conferire a dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali (art. 1 comma 56-bis della legge n. 662/1996) (nda cd finanziaria 1997); e, per altro verso, non sono condizionati all’autorizzazione della P.A. a cui appartenga il dipendente destinatario dell’incarico stesso (art. 58 del d.lgs. n. 29/1993 all’epoca vigente, poi confluito nell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001)”. Sulla base di queste considerazioni la sentenza trae la conclusione che “le prestazioni rese quale consulente tecnico d’ufficio non collidevano con il regime di esclusività del rapporto di lavoro”.

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