03/07/2017 – Un nuovo comune policentrico per la nuova Italia

Un nuovo comune policentrico per la nuova Italia

2 luglio 2017, di Andrea Piraino

L’intervento svolto al Seminario tenutosi al Centro Bachelet della Luiss, il 29 maggio 2017, su “Riforme necessarie e possibili a volere costruire sul serio un sistema di autonomie responsabili”

 

Pubblichiamo la prima parte dell’intervento che Andrea Piraino ha effettuato al  Centro Bachelet della Luiss a Roma, il 29 maggio scorso,  sul tema delle  “Riforme necessarie e possibili a volere costruire sul serio un sistema di autonomie responsabili”. La seconda, ed ultima parte, verrà pubblicata nel Giornale dei Comuni  di domani.

 

Diceva ALCIDE DE GASPERI, al teatro Brancaccio, il 23 luglio 1944, all’indomani della liberazione di Roma: “Vogliamo fondare il nostro nuovo Stato, la nostra nuova Italia sopra la larga base del popolo italiano, unito, come è nei suoi Comuni (…). La base fondamentale (dell’Italia) deve essere il Comune, deve essere la Regione, deve essere il suffragio universale maschile e femminile. Il Comune, organo del nostro autogoverno, self government che, come parola, ci viene dalla storia inglese ma, come esperienza, più ancora dai nostri gloriosi Comuni italiani. Il Comune che raccoglie le famiglie del territorio in cui c’è la torre che ricorda un passato, un campanile che indica il cielo, delle libere istituzioni le quali vengono dai padri e rappresentano il patrimonio della nostra storia italiana. Il Comune deve rimanere la base della futura democrazia. Questa unità territoriale è tanto più necessaria perché l’esperimento che essa ha fatto è tutt’altro che negativo. Quando il fascismo ha voluto cominciare a distruggere il tessuto delle nostre libertà, ha iniziato il suo attacco ai Comuni perché è là nei consigli comunali, anche nei più piccoli, che il popolo impara a reggersi, e anche in molti consigli comunali dell’alta montagna certe volte i rappresentanti rurali hanno dimostrato molta più sapienza politica e amministrativa del gran consiglio del fascismo”.

In poche parole, con una lucidità ed una lungimiranza che danno immediatamente la dimensione dello statista, DE GASPERI ci inchioda a quello che deve essere il punto di partenza se vogliamo per il nostro Paese non solo rinnovare il sistema delle Autonomie locali, trasformandole in enti responsabili, ma anche riformare  la Democrazia repubblicana in senso comunitario e così renderla  più adeguata per affrontare un futuro che non presenta meno incertezze di quelle dell’immediato dopoguerra.

Dunque, è dai Comuni che dobbiamo ripartire se vogliamo, questa volta veramente, metterci in cammino per rifondare, pur nell’ambito del solco già tracciato dalla Costituzione repubblicana, il sistema dei nostri poteri pubblici che non possono continuare ad essere disciplinati per ambiti separati senza la forte guida di una visione sistemica che ne indichi ruolo e funzioni non tanto indipendenti quanto coordinati ed integrati. Senza una tale consapevolezza ogni intervento di cambiamento si rivelerà quanto meno effimero quando non addirittura dannoso. Ne sono la testimonianza più eclatante tutti i provvedimenti che si sono susseguiti nelle ultime legislature, ivi comprese la legge 56/2014 (cd. Delrio) e la deliberazione costituzionale voluta da Renzi e bocciata dal Referendum popolare del 4 dicembre 2016. E ne è conferma il complessivo degradarsi della nostra Democrazia sempre più declinante verso una inefficienza imbarazzante dovuta  alle fallimentari politiche istituzionali di revisione della iniziale riforma federalista del titolo V della Costituzione e del mancato adeguamento della “forma di governo”, alla insipienza della  riforma della pubblica amministrazione portata avanti dalla ministro Madia ed ancora in itinere e, soprattutto, al dequalificarsi della partecipazione politica dei cittadini e della rappresentatività del sistema, entrambi profili mortificati da leggi elettorali (ivi compresa quella in discussione) che espropriano agli elettori il potere di scegliere i propri rappresentanti  e rafforzano la tendenza a trasformare i partiti in strumenti personali a servizio del leader di turno, così agevolando lo scivolamento del sistema verso un populismo privo di programmi razionalmente formulati e quindi  capaci di futuro.

Al di là delle apparenze, però, questa di ripartire dai Comuni per rifondare l’intera impalcatura del sistema democratico non è una scelta facile. Perché non implica soltanto che al centro della riflessione e dell’azione riformatrice venga portata la istituzione  comunale ma che sia cambiata anche la prospettiva dell’approccio, passando da una quasi esclusiva considerazione dei meccanismi della governance  ad una analisi  che privilegi il territorio con le sue caratteristiche e vocazioni quale nuovo elemento centrale del sistema comunitario di base. Una prospettiva, in sostanza, che farebbe immediatamente comprendere come il problema consiste nella dimensione territoriale dei Comuni, completamente inadeguata sia con riferimento ai piccoli che ai grandi Comuni. Con il risultato che le Comunità in essi residenti, innanzi tutto, non godono di una qualità accettabile dei servizi e, poi, devono subire un esercizio delle funzioni sempre più inefficiente ed inefficace quando, addirittura, non trasparente, vessatorio  ed oppressivo.

Naturalmente, tale questione della dimensione territoriale dei Comuni non è per nulla nuova. Anzi la dottrina la segnala da molto tempo. Basta ricordare M.S. GIANNINI e la sua battaglia per il superamento dei “comuni polvere”. Soltanto che finora è stata affrontata se non in modo sbagliato almeno in modo non completo fermandosi esclusivamente alla considerazione dei parametri economici che se non possono essere trascurati certo non devono essere gli unici ad essere presi in considerazione tralasciando invece i criteri socio-ambientali, storico-culturali, quelli politici e quant’altri ineriscono direttamente al territorio ed alle comunità. Quindi l’approccio non può essere quello esclusivo dell’aggregazione delle funzioni o dei servizi in base al criterio  dei costi e dei benefici ma deve riguardare anche la dimensione  storico-ambientale  e socio-politica che partendo dai territori e dalle comunità è in grado di indicare le linee unitarie di nuove fondazioni comunali adeguate all’era della globalizzazione che costituisce l’altra complementare faccia del localismo

E’ qui, infatti, che si gioca la partita che finora è risultata perdente pur essendosi tentate, dalla 142/1990 alla 56/2014, diverse modalità di gestione associata delle funzioni e dei servizi che non hanno prodotto né semplificazione né efficientizzazione del sistema. Anzi, se dovessimo fermarci a considerare la situazione attuale, dovremmo registrare il paradossale risultato di avere aumentato gli enti territoriali da 8104 (quanto erano i Comuni) a 8332 (quanto risultano dalla somma degli attuali 7792 Comuni con le 540 nuove Unioni).

Dunque, non è per mezzo di unioni, fusioni, incorporazioni, aggregazioni, consorzi, associazioni, convenzioni che si possono riperimetrare i Comuni per dotarli di ambiti territoriali adeguati alle sfide storiche che le Comunità in essi insediate sono chiamate a vivere. A cominciare da quella della modernizzazione che ha già trovato da tempo nelle Città i luoghi che ospiteranno le innovazioni per proiettare l’economia nella quarta rivoluzione industriale e creare formidabili opportunità di crescita.

Naturalmente, i Comuni o le Città “intelligenti” non potranno corrispondere più ad organizzazioni monocentriche frutto di sovrapposizioni urbanistiche oltre che di una relazionalità sociale di tipo personale. Ma dovranno attrezzarsi secondo una logica policentrica in grado di garantire una maggiore aderenza delle comunità ai territori senza per questo perdere, però, quelle identità proprie che le vicende storico-culturali e le emergenze geo-politiche ed ambientali attuali hanno scolpito nel loro codice genetico. Insomma, non si tratterà più del vecchio Comune allargato ed ingrandito da innesti più o meno forzosi di altre Comunità che in tale operazione vedono, a ragione, la negazione della propria identità a fronte dello rafforzarsi e diventare dominante di quella del Comune egemone ma di un Comune nuovo che tutte le preesistenti organizzazioni comunali concorreranno a fondare secondo un modello diffuso nel quale ogni comunità storica presente nel territorio individuato troverà il modo di diventare protagonista dell’amministrazione comune.

Ma come tutto ciò potrà avvenire senza ledere il principio di autonomia di cui i Comuni sono molto gelosi fino al punto da contrapporlo a quello di sussidiarietà e soprattutto di adeguatezza che la revisione del Titolo V della Costituzione nel 2001 ha posto come nuovo e fondamentale criterio di attribuzione delle funzioni non solo dei Comuni ma di tutte le istituzioni territoriali che costituiscono la Repubblica? Naturalmente, utilizzando la procedura dettata dal 2° comma dell’art. 133 della Costituzione che prevede che nel proprio territorio le Regioni possono non solo istituire nuovi Comuni ma anche modificare le circoscrizioni e le denominazioni di quelli esistenti. Il che significa che è possibile una grande iniziativa, Regione per Regione, in cui ogni ente regionale si assume la responsabilità politica, magari a seguito di una proposta formulata dal corrispondente Consiglio delle Autonomie locali (CAL) di cui all’ultimo comma dell’art. 123 Cost, di ridisegnare la mappa dei propri Comuni, sottoponendola poi a referendum o altra forma di consultazione popolare, come dice sempre il 2° comma dell’art. 133 Cost..

Sarebbe oltretutto l’occasione perché la politica, dopo anni di latitanza a livello regionale, ritornasse protagonista di un grande processo di trasformazione dell’intera società che, come è evidente e come è noto, non ha bisogno di essere riorganizzata solo in ambito comunale ma anche in sede provinciale e metropolitana con una corretta individuazione delle cd. aree vaste e, soprattutto, nella dimensione regionale con l’introduzione della più urgente delle riforme territoriali e cioè quella delle macro regioni (europee). Ma qui il discorso si allargherebbe enormemente e quindi conviene ritornare al problema della rifondazione territoriale ed organizzativa dei piccoli Comuni, interni o costieri che siano, i cui ambiti ottimali vanno determinati non solo in base alla attribuzione delle competenze che ineriscono alla sfera personale e famigliare delle popolazioni ma devono tenere in considerazione le esigenze di natura geo-morfologica delle aree interessate ed i profili socio-culturali della tradizione e della storia delle Comunità interessate. Solo che non ci si può fermare ad essi. Bisogna contemporaneamente affrontare anche la diversa ma connessa questione dei grandi Comuni, in specie di quelli caratterizzati da una forte conurbazione, che costituiscono il nucleo centrale delle Città metropolitane previste in alcune aree al posto delle Province.

(Continua. la seconda parte dell’articolo verrà pubblicato domani sul Giornali dei Comuni)

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto