03/05/2019 – Dipendenti pubblici: non tutti i reati contro la P.A. determinano responsabilità erariale per danno all’immagine.

Dipendenti pubblici: non tutti i reati contro la P.A. determinano responsabilità erariale per danno all’immagine.

di Massimo Asaro – Specialista in Scienza delle autonomie costituzionali, funzionario universitario Responsabile affari legali e istituzionali
Il danno all’immagine delle PP.AA., quale danno patrimoniale ulteriore (danno conseguenza) rispetto a quello determinato dalla maggiore spesa o dalla minore entrata nel bilancio degli enti pubblici, è stata una costruzione che si è evoluta nel tempo. In principio la Corte dei Conti aveva affermato che il danno all’immagine di una P.A. non rientrasse nell’ambito di applicabilità dell’art. 2059 c.c., ma fosse una della fattispecie rientranti nella più generale figura del danno esistenziale (SS.RR. sent. n. 10/2003/QM). La linea era confermativa dell’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte volto a configurare il danno all’immagine come lesione di interessi qualificati da norme costituzionali, tutelabili ex art. 2043 c.c., dunque “patrimoniali in senso lato”, ossia suscettibili di valutazione economica (come tale rientrante nella giurisdizione della Corte dei Conti: Cass. civ., S.U. sent. n. 5668 del 1997). La ricostruzione è coerente nella sua impostazione fondamentale con la lettura dell’art. 2043 c.c., quale “norma in bianco”, data dalla Corte Costituzionale (sent. n. 184 del 1986) con riferimento al danno biologico [Raeli V., Il danno all’immagine della p.a. tra giurisprudenza e legislazione, su Federalismi.it, 2014]. Detto articolo del codice, che indica l’obbligazione risarcitoria ma non i beni protetti, messo in collegamento con l’art. 97 Cost., che tutela i valori dell’imparzialità e del buon andamento, costituisce dunque il fondamento normativo per il risarcimento del danno all’immagine della P.A. (così come, collegato al diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., consente la tutela del danno biologico).
Per l’esistenza del danno in questione, si riteneva non sufficiente la mera violazione dei doveri di imparzialità, legittimità e buon andamento da parte dei funzionari infedeli, né la sola illiceità sotto il profilo penalistico, essendo invece necessario l’accertamento delle concrete conseguenze di fatto in termini di lesione effettiva del prestigio e dell’onorabilità della Amministrazione. Sotto tale profilo non appariva sufficiente per la sussistenza della lesione la sola condanna penale o il semplice rinvio a giudizio penale, occorrendo la dimostrazione di circostanze precise tali da determinare il detrimento dell’immagine (quali lo strepitus fori, ossia la divulgazione della notizia, il sostenimento di costi per il ristoro dell’immagine, perdita di chance come lo sviamento di clientela) con la conseguenza che la domanda giudiziale doveva essere fondata su dati fattuali specifici senza alcun automatismo probatorio (si vedano, tra le tante, Sez. I Centr. sent. n. 15 del 2001 e le sentt. della Sez. giurisd. Friuli Venezia Giulia nn. 35 del 2001, 114 del 2001, 138 del 2001 e 285 del 2005 ). Deriva da questa impostazione che il mero ricorso all’art. 1226 c.c. non potesse attenere alla sussistenza del danno ex se bensì alla sua quantificazione, sempre che a monte ne fosse stata previamente provata l’esistenza. Una conferma è rinvenibile nella posizione della Cassazione che, con le note sentenze nn. 8827 e 8828 del 2003 (con riconduzione peraltro del danno esistenziale nel danno “non patrimoniale” ex art. 2059 c.c.), nel richiedere la allegazione delle conseguenze pregiudizievoli dell’illecito, non ritiene più dunque sufficiente, come in passato, il mero evento della lesione.
La recente sentenza toscana oggetto di commento desta interesse perché (ri)afferma che non tutti i reati commessi ai danni delle PP.AA. possano essere presupposto per la responsabilità erariale per danno all’immagine. Infatti, l’art. 17, comma 30-ter, D.L. n. 78 del 2009, conv. in L. n. 102 del 2009 stabilisce che l’azione per il risarcimento del danno di immagine può essere esercitata solo nei casi e nei modi previsti dall’art. 7L. n. 97 del 2001, ossia per i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione previsti dal Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale, accertati con sentenza penale irrevocabile di condanna. Le Sezioni Riunite hanno risolto i contrasti interpretativi sorti nell’ambito della giurisprudenza contabile affermando che l’art. 17, comma 30-ter, va inteso nel senso che le Procure della Corte dei Conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale (SS.RR., n. 8/2015/QM). Sulla fattispecie insiste la presenza di altre disposizioni normative successive:
1. l’art. 1, comma 1-sexies, L. n. 20 del 1994, inserito dall’art. 1, comma 62, L. n. 190 del 2012, che fa anch’esso riferimento al danno derivante dalla commissione di un (qualsiasi) reato contro la stessa P.A. accertato con sentenza passata in giudicato;
2. il Codice della giustizia contabile (D.Lgs. n. 174 del 2016) il quale all’art. 4, comma 1, lett. g) dell’Allegato 3 ha abrogato il citato art. 7L. n. 97 del 2001 e all’art. 4, comma 1, lett. h) ha abrogato anche il primo periodo dell’art. 17, comma 30-ter, D.L. n. 78 del 2009.
A seguito della stratificazione legislativa suddetta si sono formati due orientamenti:
a) gran parte della giurisprudenza contabile e la dottrina [Perrotta D., Il danno all’immagine della pubblica amministrazione, tra tendenze giurisprudenziali (espansive), scelte del legislatore (restrittive) e il nuovo codice di giustizia contabile, su Federalismi.it, 2018] hanno affermato che, anche a seguito dell’introduzione dell’art. 51, comma 7, del Codice i presupposti dell’azione per danno all’immagine sarebbero stati ridefiniti con la conseguenza che le condizioni per promuovere l’azione sarebbero che si tratti di un qualsiasi reato contro la P.A., e non più soltanto dei delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale (artt. 314335 bis), oltre che tale reato sia stato accertato con sentenza passata in giudicato (Sez. app. Sicilia, sent. n. 183 del 2016; Sez. giurisd. Piemonte, sent. n. 56 del 2017sez. giurisd. Veneto, sent. n. 101 del 2017Sez. giurisd. Emilia Romagna, sent. n. 7 del 2018);
b) altra parte della giurisprudenza contabile ha ritenuto invece che, pur a seguito dell’ingresso in vigore del Codice, siano tuttora vigenti le limitazioni al perseguimento del risarcimento del danno di immagine già previste dall’art. 17, comma 30-ter, D.L. n. 78 del 2009 e dell’art. 7L. n. 97 del 2001 (Sez. giurisd. Toscana, sent. n. 174 del 2018). Dunque, secondo questa posizione, il danno è (rimasto) connesso solo ai delitti ricompresi nel Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale (artt. 314335 bis), ossia i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Questa posizione, circoscrivendo i reati fonte, lascia fuori dall’obbligo risarcitorio tante fattispecie come i delitti contro l’amministrazione della giustizia (libro II, titolo III), i delitti contro la fede pubblica (libro II, titolo VII), vari delitti contro il patrimonio (libro II, titolo XIII), quali la truffa aggravata, di cui all’art. 640 comma 2 n. 1) c.p.
E’ necessario poi ricordare che, oltre all’ipotesi sopra indicata, sussistono altre due ipotesi autonome e tipizzate di danno all’immagine, infatti:
– anche il reato di falsa attestazione della presenza in servizio (c.d. assenteismo fraudolento), di cui all’art. 55-quinquiesD.Lgs. n. 165 del 2001, consumato o anche solo tentato, determina in capo al colpevole responsabilità per danno all’immagine della P.A. di appartenenza, ai sensi del comma 2 del citato articolo e del comma 3-quater dell’art. 55-quater (v. Sez. giurisd. Toscana, sent. n. 66 del 2017 che riguarda un reato accertato con sentenza penale irrevocabile, v C. Conti, SS.RR., sent. n. 1 del 2015 e Sez. giurisd. Puglia, sent. n. 711 del 2018 che stabilisce la non necessarietà di una sentenza penale definitiva di condanna);
– anche per la violazione degli obblighi di pubblicità e trasparenza previsti dalla normativa vigente e al rifiuto, al differimento e alla limitazione dell’accesso civico (art. 46D.Lgs. n. 33 del 2013), il legislatore ha previsto una forma di responsabilità per danno all’immagine.
Per quanto attiene alla quantificazione del danno all’immagine, per i fatti accaduti successivamente all’entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, le Corti applicano il criterio presuntivo introdotto nell’art. 1, comma 1-sexies, L. n. 20 del 1994 secondo cui “nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”, salvo quanto previsto per l’assenteismo fraudolento dall’art. 55-quater, comma 3-quater, ultimo periodo del D.Lgs. n. 165 del 2001, secondo cui “l’ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l’eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia”.

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