01/12/2020 – Consiglio di Stato. Niente rimborso delle spese legali “in occasione” dell’attività lavorativa

Consiglio di Stato. Niente rimborso delle spese legali “in occasione” dell’attività lavorativa

La sez. IV del Consiglio di Stato, con la sentenza 11 novembre 2020, n. 6928 (Est. Forlenza), delimita il rimborso delle spese legali che possono essere liquidate solamente se viene dimostrato una relazione diretta tra prestazione lavorativa e attività istituzionale, oltre all’assenza di responsabilità.

Nella sua essenzialità un dipendente dello Stato, dopo aver ottenuto l’assoluzione con formula piena nel processo penale nel quale era imputato per i reati di concussione (per la stipulazione di un fittizio contratto di consulenza con società facenti capo ad esponenti politici sulla base di un “rapporto amichevole”) e corruzione, formulava, ai sensi dell’art. 18 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito in legge n. 135/1117, la richiesta di rimborso delle parcelle dei difensori di fiducia, vedendosi liquidare, su parere vincolante dell’Avvocatura di Stato dovutamente richiesto dall’Amministrazione, solo una parte delle somme relative al processo penale (quelle della corruzione).

Il dipendente impugna (in primo grado) i provvedimenti con i quali il Ministero lo aveva invitato a trasmettere i suoi dati e le fatture quietanzate dei suoi legali, al fine di rimborsare le spese di patrocinio legale nella misura determinata dall’Avvocatura generale dello Stato: il ricorso veniva accolto con annullamento della somma definita dall’Avvocatura.

Giova rammentare che l’art. 18 del d.l. n. 67 del 1997 costituisce una disposizione di carattere eccezionale, in quanto incidente sulle finanze pubbliche[1], e di essa va, pertanto, data un’interpretazione restrittiva; interpretazione che peraltro deve essere coerente con la ratio legis, che è quella di tenere indenne il dipendente pubblico per condotte riferibili al servizio, in cui il dipendente agisce in qualità di organo o comunque di agente della Pubblica Amministrazione.

Inoltre, il rimborso spese legali presuppone che il giudizio di responsabilità penale si sia concluso con sentenza od altro provvedimento che abbia escluso la responsabilità dell’imputato, a prescindere da quale sia stata la statuizione sulle spese di lite; cosicché non sussiste il diritto al rimborso nel caso di proscioglimento disposto esclusivamente per ragioni di rito, o comunque senza che sia stata effettivamente esclusa, con certezza, la responsabilità in ordine ai fatti addebitati[2].

In primo grado si rilevava che:

il diritto al rimborso non è un diritto al completo ristoro delle spese legali sostenute dal dipendente ma un diritto da soddisfare e liquidare nei termini riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato;

legittimamente il ricorrente poteva farsi assistere da due difensori, con conseguente aumento dell’attività di patrocinio che viene, dunque, compartecipata, specie per le parti non “sovrapponibili”, con relativo aumento di spesa.

Il Ministero impugna la sentenza di primo grado in quanto l’istituto del rimborso delle spese legali viene accordato al dipendente su due presupposti normativi:

la connessione dei fatti o atti contestati con l’espletamento del servizio o l’assolvimento di obblighi istituzionali;

la definizione del processo con sentenza o provvedimento che escluda la responsabilità del dipendente;

la sentenza di assoluzione, tuttavia, fonda il rapporto al presunto imprenditore concusso «in via amichevole nell’ambito di un rapporto di conoscenza personale», sicché può validamente dedursi che tale circostanza abbia determinato la rottura del nesso di immedesimazione organica con l’Amministrazione stessa, in quanto seguito dal dipendente un canale non istituzionale che esclude la manifestazione propria dell’Amministrazione, cui lo stesso dipendente è istituzionalmente portatore: manca la spendita “in nome e per conto”.

Va aggiunto, a margine, per chiarezza d’insieme che è necessario che il fatto di reato oggetto dell’imputazione penale non configuri una fattispecie ontologicamente in conflitto con i doveri d’ufficio che determini ipso facto la legittimazione dello stesso Ente di costituirsi parte civile.

Donde, si vuole ribadire la coerenza e legittimità dell’impostazione formulata dall’Avvocatura di Stato[3], secondo la quale «affinché possa dirsi esistente il requisito della connessione, non è sufficiente la mera occasione del rapporto di lavoro per il compimento di atti che hanno dato origine al procedimento di responsabilità, essendo invece indispensabile che la condotta contestata sia stata tenuta dal dipendente per adempiere i suoi incarichi istituzionali»: un vera e propria immedesimazione organica tra il comportamento del dipendente e l’Amministrazione di appartenenza, secondo il paradigma dell’art. 18 del d.l. n. 67/97.

In termini più pratici, manca il richiesto nesso di causalità, proprio perché la relazione afferente all’attività svolta non risulta avvenuta nel corso del rapporto istituzionale, ma attraverso incontri del tutto “amichevoli” che ex se esulano dal contenuto dei doveri d’ufficio e degli obblighi di servizio.

L’utilizzo delle proprie conoscenze personali non possono risultare espressioni di una relazione di servizio, non inquadrandosi nell’ambito del rapporto di immedesimazione organica, scevro da una identificazione con il volere dell’Amministrazione.

Si deve dedurre che non basta, quindi, il favorevole esito del procedimento giudiziario, occorrendo altresì, quale ulteriore fondamentale presupposto, che il procedimento ai danni dell’interessato sia stato promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali, non essendo sufficiente che lo svolgimento del servizio costituisca mera “occasione” per il compimento degli atti che danno origine al procedimento di responsabilità: è necessario che la condotta sia finalizzata all’espletamento del servizio.

In effetti, tale ultimo aspetto risulta dirimente per l’esito dell’appello che viene accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata, sulla base di una consolidata giurisprudenza sull’applicazione dell’istituto del rimborso delle spese legali, ex art. 18 del d.l. n. 67 del 1997, convertito in legge n. 135 del 1997.

Il pregio della sentenza n. 6928 del 11 novembre 2020, della IV sez. del Consiglio di Stato, è quello di aver esposto i principi di riferimento per il rimborso delle spese legali:

una pronuncia del giudice che abbia espressamente escluso la responsabilità del dipendente;

la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali, dovendo acclarare che il dipendente abbia agito in nome e per conto, oltre che nell’interesse della Amministrazione, il c.d. ‘nesso di immedesimazione organica’;

la disciplina di stretta applicazione si applica quando il dipendente sia stato coinvolto nel processo per aver svolto il proprio lavoro, inteso nel senso materiale dello svolgimento dei suoi obblighi istituzionali che si valorizzano sul concreto dal nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere ed il compimento dell’atto o del comportamento;

l’assolvimento diligente dei compiti specificamente richiesti dal ruolo ricoperto, e non anche quando la condotta oggetto della contestazione sia stata posta in essere ‘in occasione’ dell’attività lavorativa[4];

il rimborso delle spese legali costituisce un meccanismo volto ad imputare al titolare dell’interesse sostanziale le conseguenze dell’operato di chi abbia agito per suo conto;

il meccanismo di imputazione può operare solo in quanto sia ravvisabile quel rapporto di stretta dipendenza, nonché quel nesso di strumentalità tra l’adempimento dei doveri istituzionali e il compimento dell’atto, non potendo il dipendente assolvere ai propri compiti, se non tenendo quella determinata condotta[5];

una diversa conclusione che escludesse tale immedesimazione condurrebbe a riconoscere la spettanza del beneficio in ogni ipotesi di reato proprio, anche laddove il fatto addebitato esuli dai doveri istituzionali, senza che possa ravvisarsi un collegamento, diretto e di tipo oggettivo, con l’interesse dell’Amministrazione[6].

Alla luce di siffatto quadro esegetico, l’assoluzione in sede penale dal reato di concussione («l’avere dato l’appellato una indicazione ad un imprenditore in via amichevole nell’ambito di un rapporto di conoscenza personale») esclude – allo stesso tempo – ogni riferibilità della condotta tenuta alla Pubblica Amministrazione di appartenenza, impedendo di configurare un qualsivoglia rapporto di immedesimazione organica.

Si comprende che quando la sentenza di assoluzione ha escluso che le ragioni della richiesta di utilità si fondassero sulle funzioni inerenti alla qualifica di pubblico ufficiale, individuandole in un rapporto di conoscenza personale, viene meno conseguentemente anche l’imputabilità all’ufficio ricoperto, ossia ogni connessione con l’esercizio della pubblica funzione e il connesso diritto ad ottenere il rimborso delle spese legali.

In definitiva, non è sufficiente che l’ipotesi delittuosa ascritta e da cui si è stati assolti in sede penale costituisca un reato proprio del pubblico ufficiale, dovendo essere esaminate le concrete circostanze e la concreta condotta tenuta dal richiedente il rimborso, dalle quali è scaturito il procedimento penale e dovendo essere valutato se le stesse siano funzionali al corretto ed efficace assolvimento del dovere d’ufficio in relazione diretta con gli obblighi istituzionali ricoperti[7].

[1] Cons. Stato, sez. II, ad. 9 aprile 2014, parere n. 1850/2014.

[2] Cfr. Cons. Stato, sez. II, 21 giugno 2013 n. 2908, sulle differenze tra le varie formule assolutorie dell’art. 530, comma 1, c.p.p., dovendo anche riferire che il rimborso non è dovuto in mancanza del presupposto oggettivo quando i fatti, per cui il soggetto viene inquisito, hanno dato luogo all’archiviazione, in quanto non riconducibili all’assolvimento degli obblighi istituzionali, Cons. Stato, sez. II, ad. 11 maggio 2011, numero affare 03538/2009.

[3] Il parere dell’Avvocatura di Stato costituisce frutto di valutazioni discrezionali esclusivamente tecniche, che deve considerare la natura e la complessità della causa, l’importanza delle questioni trattate, la durata del processo, la qualità dell’opera professionale prestata ed il vantaggio arrecato al cliente, dovendo anche verificare non solo la conformità della parcella alla tariffa forense (oltre la quale il rimborso sarebbe illegittimo), ma anche il rapporto tra l’importanza e la delicatezza della causa e le somme spese per la difesa e delle quali si chiede il rimborso, Cons. Stato, sez. VI, 13 marzo 2017, n. 1154 e sez. II, 30 giugno 2015, n. 7722.

[4] Cons. Stato, sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8146.

 

[5] Cons. Stato, sez. IV, 11 gennaio 2020, n. 281.

 

[6] Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2020, n. 239 e 5 aprile 2017, n. 1568.

 

[7] Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2020, n. 6554.

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