01/03/2018 – Se ti spiffero il nome del Whistleblower…

Se ti spiffero il nome del Whistleblower…

Pubblicato da  su 28 febbraio 2018

 

Le “denunce segrete” (nel senso di “anonime“) sono state per almeno 5 secoli un modo per difendere la repubblica della Serenissima di Venezia. 

Dopo il tentativo di colpo di stato di Baiamonte Tiepolo, nel 1310, furono costruite a Venezia diverse Bocche di Leone (Boche de Leon) o Bocche per le denunce segrete (boche de le denuntie), simili alle nostre cassette postali. Le denunce potevano riguardare vari tipi di reati tra i quali l’inadempienza alla sanità, la bestemmia o l’evasione fiscale. Erano distribuite almeno una in ogni sestiere, vicino a collocazioni della Magistratura, a Palazzo Ducale o alle chiese, e servivano a raccogliere notizie, delazioni o segnalazioni contro coloro che si macchiavano dei crimini più vari.

I Savi dei Dieci e i Consiglieri dei Dieci accettavano le denunce anonime solo se si trattava di affari di Stato, con l’approvazione dei cinque sesti dei votanti. Non era però così facile, come si può pensare, accusare qualcuno. Nel 1387 il Consiglio dei Dieci ordinò che le accuse anonime inviate tramite lettera, senza firma dell’accusatore e senza attendibili testimoni d’accusa sulle circostanze segnalate, dovevano essere bruciate senza tenerne minimamente conto.

Tramite le Bocche di Leone e le denunce segrete furono scoperti molti reati di cui non si sarebbe mai venuto a conoscenza, con gravi danni per la Repubblica di Venezia. Probabilmente però vennero anche accusati e imprigionati degli innocenti.

Ingiustizia che non sembra essere capitata, tornando ai giorni nostri, ad un dipendente dell’Agenzia delle Entrate di Santa Maria Capua Vetere, accusato da una denuncia anonima. “Anonima“,  a leggere la sentenza n. 9047/2018 della sesta sezione della Cassazione Penale che conferma. “Riservata” come sarebbe più corretto affermare.

La denuncia cosiddetta “anonima” era stata inviata tramite il canale che il Responsabile della Prevenzione della Corruzione (RPCT) dell’Agenzia delle Entrate aveva predisposto come misura del Piano triennale della prevenzione della corruzione. Essa, come affermato dalla Suprema Corte “non costituisce mero spunto investigativo, bensì assurge al rango di vera e propria dichiarazione accusatoria“. Infatti, la segnalazione conteneva accuse molto precise, tali da spingere l’Autorità giudiziaria a svolgere ulteriori accertamenti e ad accertare comportamenti corruttivi espliciti da parte dell’accusato.

La Sentenza ha il pregio di fare un po’ di chiarezza su una questione che si trascina ormai da quando è stato introdotto l’istituto del whistleblowing in Italia.

Spesso si sente dire che la segnalazione o la denuncia è ANONIMA. Oppure, che l’identità del segnalante non verrà in nessuno modo rivelata! Affermazioni piuttosto enfatiche e poco corrette (ahimè). Il problema, si badi bene, non è solo di “paranoia lessicale”. Sulla promessa di riservatezza assoluta si gioca gran parte della motivazione che spinge un dipendente pubblico a segnalare o a denunciare. Lo abbiamo detto più volte, se al momento della segnalazione il segnalante non è pienamente certo che la sua identità NON sarà rivelata, avrà forti resistenze a segnalare o a denunciare. In pratica, si promette al segnalante che la segnalazione resterà “anonima”, ma poi un giudice pretenderà, in determinate circostanze, di avere il suo nome e il cognome e sarà obbligatorio fornirglielo. Insomma, una  promessa che rischia di non poter essere mantenuta e che indebolisce la fiducia nella strategia di prevenzione della corruzione nel suo complesso.

La prima formulazione della legge 190/2012 era piuttosto scarna a riguardo. La più recente legge n. 179/2017 ha almeno il pregio di chiarire questo punto. L’Articolo 1 comma 3, stabilisce che: “ L’identità del segnalante non può essere rivelata.

  • Nell’ambito del procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del codice di procedura penale.

Perciò, in ambito penale,  l’identità è “RISERVATA” fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Molto diverso dall’affermare che la segnalazione o la denuncia è anonima.

E infatti, nel caso di cui si occupa la sentenza, l’identità del whistleblower è saltata fuori . Il GIP aveva considerato la segnalazione come “anonima”, “salvo di fatto recuperarne il contenuto attraverso la nota della Direzione Centrale Audit dell’Agenzia delle Entrate di cui infra e la successiva informativa di p.g. – come pienamente utilizzabile ai fini dell’integrazione del requisito medesimo”. Insieme al contenuto, il GIP ha identificato anche il segnalante il cui nome e cognome sono scritti nero su bianco sulla sentenza. Ora, non credo che il segnalante in questione, al tempo in cui ha inviato il suo “esposto anonimo”, pensava che sarebbe andata a finire così.

Ma anche in ambito disciplinare funziona più o meno allo stesso modo. “Nell’ambito del procedimento disciplinare l’identità del segnalante non può essere rivelata, ove la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità.”

Perciò, se un dipendente pubblico segnala al RPCT che ha visto un suo collega risalire una pista da sci, nonostante fosse  in permesso ex legge 104 e la sua testimonianza rappresenta l’unica evidenza (d’altronde come potrebbe il Responsabile della prevenzione della corruzione indagare in questo caso?), allora, in sede di procedimento disciplinare, dovrà esprimere il consenso esplicito alla rivelazione della sua identità. In caso contrario, la segnalazione non potrà essere utilizzata e le accuse cadranno.

Questa parte della disposizione sui procedimenti disciplinari ha almeno il pregio di dare al segnalante l’ultima parola (@spazioetico aveva caldeggiato l’adozione di questa cautela). 

L’affermazione iniziale del comma 3 “L’identità del segnalante non può essere rivelata” risulta piuttosto ridimensionata dalle disposizioni successive. 

Per fare un minimo di chiarezza, esistono almeno 3 diverse categorie di segnalazioni e denunce:

  • La segnalazione o la denuncia “anonima” è quella che non permette alcuna rintracciabilità del segnalante (ad es., lettere firmate con nome di fantasia, o senza indicazione alcuna del segnalante). Esse non fanno parte del “sistema whistleblowing” così come è stato architettato dalla normativa italiana.
  • La segnalazione o la denuncia “riservata” è quella che permette la rintracciabilità del segnalante in particolari occasioni. Ad esempio, nel procedimento disciplinare, quando la segnalazione è l’unica evidenza della contestazione; nel procedimento penale, fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari. E’ il livello che viene utilizzato, ad esempio, dall’Agenzia delle Entrate che esplicitamente afferma: “il c.d. “canale del whistleblowing, deputato alla segnalazione all’ufficio del Responsabile per la prevenzione della corruzione (RPC) di possibili violazioni commesse da colleghi realizza un sistema che garantisce la riservatezza del segnalante nel senso che il dipendente che utilizza una casella di posta elettronica interna al fine di segnalare eventuali abusi non ha necessità di firmarsi, ma il soggetto effettua la segnalazione attraverso le proprie credenziali ed è quindi individuabile seppure protetto“.
  • La segnalazione o la denuncia “esplicita” è quella fatta dal segnalante in maniera aperta e pubblica. L’identità del segnalante, come è ovvio, in questo caso non necessità di alcuna tutela.

E la nuova piattaforma ANAC di gestione delle segnalazioni di quale delle tre categorie fa parte? 

Sul sito di ANAC si legge: “Grazie all’utilizzo di un protocollo di crittografia che garantisce il trasferimento di dati riservati, il codice identificativo univoco ottenuto a seguito della segnalazione registrata su questo portale consente al segnalante di “dialogare” con Anac in modo anonimo e spersonalizzato.

Grazie all’utilizzo di questo  protocollo, a partire dall’entrata in funzione del presente portale, il livello di riservatezza è dunque aumentato rispetto alle pregresse modalità di trattamento della segnalazione”.

Pertanto, nonostante un accenno al “modo anonimo e spersonalizzato” con cui dialogare (cosa ben diversa da segnalazione anonima), il “livello di riservatezza” è aumentato (ma di riservatezza parliamo). Pertanto anche la piattaforma ANAC (e non poteva essere diverso) gestisce segnalazioni RISERVATE. 

Resta il dubbio di fondo. E, cioè, se in un siffatto sistema il segnalante sia assai poco invogliato a segnalare. Non ha certezze a riguardo. In altri sistemi, proprio per mitigare il rischio di ritorsioni, si provvede velocemente a mettere in sicurezza il segnalante attraverso una pronuncia del giudice del lavoro. Ad esempio, in Serbia la normativa prevede che entro otto giorni il giudice si pronunci sulla richiesta di emanazione di una misura provvisoria a tutela dei whistleblower.

Considerando tutte le difficoltà che ha avuto la legge del novembre 2017, non prevediamo sviluppi particolarmente favorevoli a riguardo nel nostro Paese.   

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