13/01/2021 – Dipendenti pubblici ed incarichi di amministratori in società a controllo pubblico: un divieto assoluto

1. Inquadramento. 2. Le società in controllo pubblico e l’in house. 3. Le Pubbliche Amministrazioni vigilanti e il concetto di società vigilate. 4. Una possibile interpretazione del divieto del comma 8 dell’art. 11 del TUSP. 5. Un’ipotesi di divieto assoluto.

1. Inquadramento

L’emanazione del Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica (ex decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, c.d. TUSP) ha segnato anche il netto cambio di passo del legislatore in ordine all’affidamento a dipendenti pubblici di incarichi di amministrazione nelle società pubbliche, con l’intento di disciplinare un riassetto delle spese di funzionamento derivanti dalla gestione delle società in mano pubblica così da determinare la diminuzione dei costi di funzionamento della Pubblica Amministrazione, nell’ottica di contenimento del debito pubblico nazionale, cui il comparto degli Enti locali partecipa in sede di coordinamento della finanza pubblica allargata[1].

Infatti, nell’originario art. 4 del D.L. n. 95/2012, convertito in legge n. 135/2012 (c.d. spending review)[2] si era disposto per le società strumentali e le altre società totalmente partecipate da Pubbliche Amministrazioni l’obbligo per le Amministrazioni socie di individuare la maggioranza dei componenti del c.d.a. scegliendoli tra i dipendenti dell’Amministrazione titolare della partecipazione o del potere di indirizzo e vigilanza o di intesa fra le Amministrazioni socie; obbligo, comunque, già tramutato in facoltà dal 2014, con la modifica apportata dall’art. 28 della legge n. 114/2014.

Il d.lgs. n. 175/2016, nel comma 8, dell’articolo 11:

· sancisce che «gli amministratori delle società a controllo pubblico non possono essere dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti».

· mentre per le partecipazioni indirette dispone «qualora siano dipendenti della società controllante, in virtù del principio di onnicomprensività della retribuzione, fatto salvo il diritto alla copertura assicurativa e al rimborso delle spese documentate, nel rispetto del limite di spesa si cui al comma 6, essi hanno l’obbligo di riversare i relativi compensi alla società di appartenenza dall’applicazione del presente comma non possono derivare aumenti della spesa complessiva per i compensi degli amministratori».

Esaminiamo, dunque, la prima fattispecie, argomento qui d’interesse, ossia il divieto dei dipendenti delle Amministrazioni socie «controllanti o vigilanti» di fare parte dei c.d.a. aziendali, indicato in dottrina come «segno evidente della volontà legislativa di porre un invalicabile diaframma tra enti controllanti e controllati, anche sotto il profilo soggettivo degli individui legati da un rapporto di immedesimazione con gli uni e gli altri»[3].

Se fino all’entrata in vigore del TUSP le incompatibilità per i pubblici dipendenti rispetto alle cariche amministrative aziendali pubbliche erano fissate dagli art. 11 e 12 del d.lgs. n. 39/2013[4], norme che attengono a chi nella Pubblica Amministrazione socia rivesta incarichi amministrativi di vertice e dirigenziali rispetto le società controllate – rectius enti di diritto privato in controllo pubblico -, con il citato comma 8 viene configurata una nuova incompatibilità estesa, a prescindere dal ruolo organizzativo, a tutti i dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni controllanti o vigilanti la società stessa.

Come noto, la disciplina riguardante le inconferibilità e incompatibilità di incarichi (ex d.lgs. n. 39/2013) mira a prevenire e/o gestire situazioni che possono creare conflitti di interesse, sul presupposto di salvaguardare l’interesse pubblico senza che interessi privati ne condizionino il perseguimento.

La ratio della disciplina di cui al d.lgs. 39/2013 e quella delle disposizioni contenute nel d.lgs. 33/2013 – che hanno la medesima fonte nella legge n. 190/2012 – non sono, infatti, divergenti, avendo in comune la finalità di scongiurare il rischio di condizionamenti impropri dell’attività riconducibile alla sfera pubblicistica per favorire interessi di natura essenzialmente privatistica o alterare i principi di imparzialità, correlati ad un concetto di pubblicità sotto il profilo della concorrenza di derivazione comunitaria, mediante opportuni strumenti indicati nella legge delega: in un caso attraverso la predeterminazione di ipotesi di inconferibilità e incompatibilità di incarichi, per le quali si presume ex lege la sussistenza di un conflitto di interessi, e nell’altro mediante adeguate misure di trasparenza che consentono un controllo effettivo sulle misure di prevenzione della corruzione[5].

Invero, attraverso il microsistema contenuto nel d.lgs. n. 39/2013, il legislatore (in esecuzione della legge n. 190/2012 che ha recepito le indicazioni contenute nella Convenzione di Merida del 2003)[6] si è prefisso di stabilire l’obiettivo di sterilizzare i rischi di indebite pressioni sull’esercizio delle funzioni, fin dall’attribuzione ab origine dell’incarico, da parte di coloro che occupano i vertici amministrativi e dirigenziali, con una presunzione iuris e de iure di inconferibilità dell’incarico che si estende su due specifiche componenti:

· l’inconferibilità a seguito di una condanna anche non definitiva per determinati reati contro la P.A., previsti dal Capo I del titolo II libro II del c.p. (ex art. 54 Cost.)[7], ovvero a seguito del necessario periodo limitato (ossia, l’avere svolto precedenti incarichi o ricoperto cariche, c.d. di “raffreddamento”)[8];

· l’incompatibilità a rivestire contestualmente incarichi diversi, con l’obblio di opzione per uno dei due[9].

A dire il vero il Consiglio di Stato nel parere[10] espresso sullo schema di Testo Unico che prevedeva ab origine la seguente formulazione per il comma 8: «gli amministratori delle società in controllo pubblico non possono essere dipendenti delle amministrazioni pubbliche», aveva evidenziato come una dizione migliore fosse «limitare l’ambito applicativo del divieto ai solo dipendenti delle amministrazioni titolari di partecipazioni pubbliche che vengono in rilievo, al fine di evitare possibili conflitti di interessi».

Il testo normativo vigente rapporta tale divieto ai dipendenti delle Amministrazioni controllanti e vigilanti e prevede ciò nell’ambito dell’art. 11 rubricato «Organi amministrativi e di controllo delle società a controllo pubblico».

Per circoscrivere il perimetro di applicazione del citato comma 8 occorre definire quali siano le “società a controllo pubblico” e contemporaneamente quali siano le Pubbliche Amministrazioni “controllanti e vigilanti”.

2. Le società in controllo pubblico e l’in house

Giova riferire che con il decreto legislativo n. 175 del 19 agosto 2016 sono stati disciplinati vari aspetti delle società pubbliche, finalità perseguibili mediante l’acquisizione e la gestione di partecipazioni pubbliche, distinguendosi tra società a “controllo pubblico” (art. 1 lett. b) d) e m)) e a “mera partecipazione pubblica” (art. 1 lett. n)), senza tuttavia disciplinare il rapporto tra la partecipazione pubblica con i modelli e le categorie utilizzate dal codice civile, con particolare riferimento oltre alla causa, ai tipi di società ed allo scopo.

Con norma di sistema, l’art. 1 comma 3 del TUSP stabilisce che «per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato», che risulta un punto base di riferimento e regola interpretativa da seguire in sede applicativa.

L’art. 2, comma 1 del cit. TUSP, alla lett. m), definisce società a controllo pubblico «le società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi della lettera b)».

La lett. b), a sua volta, per «controllo» intende, al primo periodo, «la situazione descritta nell’articolo 2359 del codice civile» e soggiunge, al secondo periodo, che «il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo».

In tale ambito e per una prima immediata ricostruzione, la nozione di “controllo” deve giocoforza essere desunta dall’art. 2359 c.c., potendo essere o di tipo monocratico, ovvero spettante ad un solo soggetto, oppure in forma congiunta, ai sensi della lett. m)., non essendovi disposizioni ad hoc di tipo derogatorio nel Testo unico.

Ai sensi del citato art. 2359 c.c. «Sono considerate società controllate: 1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria; 2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa».

Sia in riferimento alla prima modalità di controllo c.d. di diritto, che alla seconda c.d. di fatto si computano anche i voti spettanti a società controllate, fiduciarie e a persona interposta.

La modalità di controllo sub 3) sussiste invece in presenza di vincoli contrattuali particolari, come in ipotesi di concessione, licenza di know how, somministrazione o franchising[11].

Numerose, tuttavia, sono state le interpretazioni date al combinato disposto delle lettere b) ed m), intervenute soprattutto laddove, in presenza di soci privati, la maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria (prevista nell’art. 2359 n. 1) o l’influenza dominante in assemblea (prevista nell’art. 2359 n. 2) derivasse dalla sommatoria delle quote percentuali delle varie partecipazioni pubbliche o dal cumulo della influenza contrattuale dei soci pubblici sulla società.

Ciò che emerge chiaramente sia in dottrina che in giurisprudenza[12] è che, soprattutto in relazione alla presenza di soci privati, il controllo pubblico sulla società è “comprovabile”[13] laddove vi siano norme di legge, clausole statutarie, patti parasociali che riducono, anche nel quadro delle ipotesi codicistiche dell’art. 2359 c.c., le volontà espresse dalle Pubbliche Amministrazioni ad un’unica volontà[14].

Ciò avviene quando, come ribadito dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 578/2019, esiste «un coordinamento stabile con altri soci pubblici (attraverso patti parasociali o norme statutarie) finalizzato a poter incidere sulle scelte strategiche della società, in particolare sotto il profilo della funzionalizzazione al soddisfacimento di interessi generali».

Ipotesi che concretamente si realizzano, ad esempio, con patti para sociali di consultazione preventiva e voto rispetto le assemblee societarie.

Donde, nelle società partecipate da più Amministrazioni pubbliche il “controllo pubblico” non sussiste in forza della mera sommatoria dei voti spettanti alle Amministrazioni socie; dette società sono a controllo pubblico solo allorquando le Amministrazioni socie ne condividano il dominio, perché sono vincolate – in forza di previsioni di legge, statuto o patto parasociale – ad esprimersi all’unanimità, anche attraverso gli amministratori da loro nominati, per l’assunzione delle “decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale”[15].

Non casualmente la Corte dei Conti, Sezioni Riunite in sede di controllo n. 11 del 20 giugno 2019, così si è espressa: «occorre ribadire che, nel caso di società a maggioranza o integralmente pubbliche (in disparte…) gli enti pubblici hanno l’obbligo di attuare e formalizzare, misure e strumenti coordinati di controllo (mediante stipula di appositi patti para sociali e/o modificando clausole statutarie) atti ad esercitare un’influenza dominante sulla società».

La stessa Corte dei Conti, Sezioni Riunite, ha precisato che ai fini dell’applicazione delle norme del TUSP, il Testo Unico richiama all’art 2, ma aggiungendo sia la fattispecie autonoma della lettera b) (cioè presenza di norme o patti incidenti sull’attività strategica della società con il consenso unanime delle parti effettuanti il controllo) che della lettera m) (cioè la previsione non solo di una, ma più amministrazioni titolari del potere di controllo indicato dall’art. 2359 del codice civile).

La Corte Sezioni Riunite statuisce che, pertanto, in virtù del combinato disposto della lett. b) ed m) dell’art. 2 del TUSP possono essere qualificate come “società a controllo pubblico” quelle in cui «una o più amministrazioni dispongono della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria (oppure di voti o rapporti contrattuali sufficienti a configurare un’influenza dominante)».

Sempre la medesima Corte, con riferimento alla quasi contestuale sentenza n. 16/2019 della Corte dei Conti, sezione giurisdizionale, evidenzia come il suddetto criterio interpretativo “deve essere rivisto” se nel caso concreto sussista «l’influenza dominante del socio privato o più soci privati (nel caso anche unitamente ad alcune amministrazioni pubbliche socie)».

Diversamente, la struttura dedicata del MEF si era precedentemente espressa[16] nel ritenere realizzate le fattispecie di cui all’art. 2359 anche quando «si riferiscono a più Pubbliche Amministrazioni, le quali esercitano tale controllo congiuntamente e mediante comportamenti concludenti, pure a prescindere da un coordinamento formalizzato», forse in ragione del fatto che ai sensi del T.U.F. (ex art. 122 del d.lgs. n. 58 del 1998) il patto parasociale dei soci di quotate può avere qualsiasi forma, pur essendo assoggettato a disposizioni pubblicitarie stringenti.

Dunque, anche, la struttura preposta al monitoraggio e alle indicazioni applicative del TUSP, parte dal presupposto che per la definizione di “società in controllo pubblico” si sia ampliata la fattispecie codicistica, riconoscendo che il controllo di cui all’art. 2359 c.c. possa essere esercitato da più Amministrazioni “congiuntamente”, aggiungendovi anche un ulteriore ipotesi di “controllo congiunto” quando «in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti para sociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo (rientra in tale fattispecie anche il caso dell’influenza interdittiva attribuita alla Pubblica Amministrazione come nell’ipotesi del patto parasociale che attribuisce al socio pubblico un potere di veto)».

Per quanto sopra, evidenziato come un intervento legislativo sulla definizione di “società in controllo pubblico” risulterebbe più che opportuno considerate le diverse interpretazioni della medesima norma (come anche sollecitato dall’Atto di indirizzo del Viminale, espresso ex art. 154 comma 2 del Tuel il 12 luglio 2019), alla luce della normativa vigente è ragionevole ritenere che laddove ci si trovi in presenza di società totalmente partecipata da Pubbliche Amministrazioni[17], disponendo le stesse della maggioranza o meglio della totalità dei voti esercitabili in assemblea ordinaria, la stessa sia da considerarsi “in controllo pubblico” ai fini dell’applicazione delle disposizioni del TUSP e, quindi, del citato comma 8, dell’art. 11 cit.: nell’ordinamento italiano rientrano in tale categoria le società in house providing[18].

Le “in house” sono società generalmente a totale capitale pubblico (o con soci privati privi di forme di controllo o veto solo laddove una legge lo preveda)[19], ai sensi art. 16 comma 1 del TUSP, dotate di forme “accordo formalizzato” circa la gestione e la strategia aziendale.

Si tratta di società in controllo pubblico, titolari di affidamenti diretti di contratti pubblici, in cui si realizza l’“autoproduzione” di beni, servizi o lavori da parte della Pubblica Amministrazione che, in tal modo, li acquisisce, attingendoli all’interno della propria compagine organizzativa, purché sussistano i requisiti previsti dall’ordinamento comunitario e vi sia il rispetto dei vincoli normativi vigenti.

In particolare, la giurisprudenza comunitaria consente la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, là dove l’applicazione delle regole di concorrenza non sia di ostacolo “all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione” che è affidata all’ente pubblico (ex art. 106 del “Trattato sull’Unione Europea e del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea”, T.F.U.E.), alle sole condizioni (sulla cui individuazione già si esprimeva la Corte di giustizia con la sentenza Teckal del 18 novembre 1999, in causa C-107/98 e che è proseguita nella valorizzazione degli aspetti di gestione con le sentenze Carbotermo dell’11 maggio 2006, in causa C-340/04 e Parking Brixen del 13 ottobre 2005, in causa C-458/03):

· del capitale totalmente pubblico della società affidataria;

· del cosiddetto controllo “analogo”, per il quale quello esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario deve essere di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri uffici;

· dello svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante.

Sugli indicati presupposti, si dovrà verificare se il “controllo analogo” a quello esercitato dall’Amministrazione sui propri servizi e la “destinazione prevalente dell’attività” della società all’Ente pubblico escludano la terzietà della prima all’ente qualificando la sua attività come servizio proprio dell’Amministrazione controllante, assimilabile alla situazione determinata dalla delegazione interorganica[20].

Le società in house risultano, quindi, munite di un quid pluris rispetto al controllo societario, consistente “nel controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”, che permette ai soci (anche indipendentemente dalla quota percentuale di partecipazione) di esercitare un potere di comando sulla gestione della società che, secondo il codice civile, spetta all’organo amministrativo nelle società di diritto ordinario.

Questa situazione – l’essere in controllo analogo congiunto, permette a tali società, che sono già qualificabili di per sé come in controllo pubblico (ai sensi del combinato disposto delle lett. b) ed m)), di ricevere gli affidamenti diretti, stante il rapporto di immedesimazione organica con le PP.AA. socie, ai sensi rispettivamente dell’art. 5 comma 5 e dell’art. 192 del D.lgs. n. 50/2016 che dell’art. 16 del TUSP medesimo (come già riferito).

Qualora, invece, le Pubbliche Amministrazioni partecipino a maggioranza la società e non vi siano tra i privati (o tra i privati e alcune Pubbliche Amministrazioni) patti parasociali, né norme statutarie che prevedono quorum di voto assembleare che permettano al privato o ai privati di influire sulle decisioni finanziarie e gestionali strategiche della società, la società può ritenersi in “controllo pubblico”, fermo restando l’obbligo per la Corte dei Conti, Sezioni Riunite, in sede di controllo, n. 11/2019, e l’opportunità per il diritto societario, di formalizzare misure e strumenti coordinati atti ad esercitare l’influenza dominante pubblica sulla società, quali ad esempio patti parasociali di consultazione e voto sulle decisioni strategiche della società o quorum assembleari statutari “rinforzati” rispetto le ordinarie prescrizioni codicistiche.

Si è certamente in “controllo pubblico” quando tra le Pubbliche Amministrazioni socie di maggioranza esista già un accordo formalizzato di controllo tramite norme di legge, statutarie o patti parasociali per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale, per cui sia richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo.

Qualora dal dato fattuale, ossia dal riscontro concreto, si assista alla assoluta mancanza di disposizioni statutarie o pattizie che impongano ai soci pubblici l’assunzione di decisioni unanimi per le scelte strategiche della società, si dovrà gioco forza negare la sussistenza del “controllo pubblico” nel senso delineato dall’art. 2359 c.c., più volte richiamato.

Naturalmente, osserva il giudice[21], in ossequio ai principi di imparzialità e buon andamento che caratterizzano l’attività anche privatistica di ogni Pubblica Amministrazione[22], tali accordi debbono necessariamente rivestire la forma scritta ed essere preventivamente deliberati dall’organo competente di ciascuna Amministrazione[23] non essendo sufficiente desumere il controllo pubblico dalla mera astratta possibilità per i soci pubblici di far valere la maggioranza azionaria in assemblea[24].

3. Le Pubbliche Amministrazioni vigilanti e il concetto di società vigilate

Il comma 8, dell’art. 11, del TUSP sancisce come non possano essere amministratori delle società a controllo pubblico, i dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni controllanti o vigilanti.

Occorre dunque comprendere quale società possa qualificarsi vigilata da una Pubblica Amministrazione.

L’art. 2 del TUSP rubricato “Definizioni” non prevede i tratti distintivi della società vigilata, terminologia che parrebbe essere retaggio della normativa spending review del 2012[25].

Il termine “vigilato”, più di recente, è stato utilizzato per definire i cosiddetti “obblighi di pubblicazione delle PP.AA. rispetto le proprie partecipazioni”, come definiti dall’art. 22 del d.lgs. n. 33/2013 ed attiene più che alle società agli enti pubblici e «agli enti di diritto privato, comunque denominati, in controllo pubblico oppure anche se non in controllo, comunque costituiti e vigilati, nei quali sono riconosciuti alle medesime p.a. poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi»[26].

In quest’ottica e bene ricordare che ai sensi dell’art. 2449 del codice civile «Società con partecipazione dello stato e degli enti pubblici», nelle spa senza capitale di rischio lo Stato o gli enti pubblici possono nominare per previsione statutaria amministratori, sindaci ovvero componenti del consiglio di sorveglianza in numero proporzionale alla partecipazione al capitale sociale.

Con il termine “vigilate”, coerentemente, dunque, si può ritenere, che nell’ambito del comma 8 dell’art. 11 cit., si voglia fare riferimento a quelle società in “controllo pubblico” dove la singola P.A. o le Pubbliche Amministrazioni possano avere anche il potere di nomina diretto dei componenti del c.d.a. per disposizione statutaria; del resto tale ipotesi risulta enunciata dal comma 7 dell’art. 9 del TUSP medesimo.

4. Una possibile interpretazione del divieto del comma 8 dell’art. 11 del TUSP

Ritornando all’argomento di nostro interesse, il comma 8 pone un evidente e chiaro divieto per taluni dipendenti pubblici di far parte dell’organo amministrativo delle società se controllate (come sopra illustrato) dalla Pubblica Amministrazione di appartenenza o in cui la stessa abbia per disposizione statutaria il potere di nomina diretta dei componenti o di alcuni dell’organo amministrativo.

Per comprendere l’importanza del comma in parola, occorre tenere presente il portato dei commi 2 e 3 dell’articolo 1 del TUSP stesso.

Il primo, rappresenta le finalità del Testo unico ossia prevede che «le disposizioni contenute nel presente decreto sono applicate avendo riguardo all’efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, alla tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché alla razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica».

Il secondo, invece, statuisce che «per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulla società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato».

Appare, dunque, evidente come il TUSP abbia voluto introdurre per gli amministratori delle società “in controllo pubblico” una nuova fattispecie di incompatibilità, in deroga all’ordinario regime codicistico.

Del resto è opportuno ricordare come il decreto legislativo integrativo del Testo Unico (ex d.lgs. n. 100/2017) abbia appositamente previsto al comma 10 dell’art. 26 «Le società a controllo pubblico si adeguano alle previsioni dell’articolo 11 comma 8, entro il 31 luglio 2017».

Sul momento di efficacia della cessazione dalla carica dei dipendenti già nominati amministratori societari, la Corte dei Conti[27] si è espressa precisando «la tassatività della previsione contenuta nell’art. 11 impone che la stessa trovi applicazione immediata, tanto più che il comma 8 non si esprime nel senso che non possono essere “nominati” amministratori i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, ciò che lascerebbe pensare ad un divieto relativo ad una futura nomina rispetto quella in corso, bensì introduce il divieto del duplice ruolo».

Circa le modifiche agli statuti societari da apportarsi in tema di amministratori, la Corte specificava come le stesse fossero da attuarsi entro il 31 luglio 2017 qualora «in caso di primi amministratori la nomina sia prevista nell’atto costitutivo, ai sensi dell’art. 2383 comma 1, c.c., e allorquando in essi esista un’espressa previsione relativa ai componenti del consiglio di amministrazione contraria agli intervenuti precetti normativi».

Indubbiamente con la previsione del comma 10 dell’art. 26, «Altre disposizioni transitorie», del TUSP anzi citato ed il connesso obbligatorio adeguamento statutario alle previsioni del comma 8 dell’art. 11, si è voluto “rinforzare” questa particolare causa di incompatibilità al munus di amministratore societario da parte dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni controllanti e vigilanti, aggiungendole a quelle già previste dal codice civile (ex artt. 2382 e 2383) o da disposizioni di legge (quali, ad esempio, il d.lgs. n. 39 del 2013, il d.lgs. n. 165 del 2001, il d.lgs. n. 58 del 1998, il d.lgs. n. 235 del 1993).

Del resto la previsione di un apposito adeguamento statutario, in riferimento al divieto sancito dal comma 8 dell’art. 11, rappresenta la modalità per poter incasellare la violazione al precetto in parola, non solo come violazione di legge, ma anche come una causa di incompatibilità statutariamente prevista, fra lo status di dipendente pubblico di Pubblica Amministrazione socia e componente dell’organo amministrativo della società controllata, ferma la responsabilità degli amministratori per il mancato adeguamento (ovvero, potendo integrare un illecito sanzionabile ai sensi dell’art. 2631 c.c.).

5. Un’ipotesi di divieto assoluto

La stessa ANAC[28], pur declinando la propria competenza funzionale nella resa di parere concernente la violazione del comma 8, dell’art. 11, del TUSP, rende alle valutazioni degli enti controllanti la società, l’accertamento di tale incompatibilità, il cui iter procedurale non è prescritto nel TUSP.

Ora, tuttavia, poiché ai sensi dell’art 12 delle pre – leggi nell’«applicare la legge non si può ad essa attribuire un altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e della intenzione del legislatore», con il Testo unico si è voluto stabilire inequivocabilmente un divieto al duplice incarico dipendente pubblico -amministratore di società controllata, forse anche dopo le esperienze, non sempre positive, dei dipendenti pubblici – amministratori societari per obbligo della spending review del 2012.

Ed ancora, la previsione del comma 8 cit. appare coerente con i divieti posti dall’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 che a sua volta rimanda all’art. 60 e seguenti del d.P.R. n. 3 del 1957, quest’ultimo enuclea le limitate possibilità del pubblico dipendente di accettare e potere svolgere cariche in società.

Per altri versi, si potrebbe anche affermare che tale è la ragione che ha indotto il legislatore a mantenere questa materia al di fuori della contrattazione collettiva nazionale di comparto, rispondendo alle necessità di preservare i principi di buon andamento della Pubblica Amministrazione e di esclusività della prestazione del pubblico dipendente, entrambi costituzionalmente previsti, rispettivamente, degli artt. 97, comma 1 e 98, comma 1 Cost., e, quindi, di attuarli in modo omogeneo per tutti i rapporti di lavoro dei comparti del pubblico impiego, interessati o meno alla depubblicizzazione.

Il primato della legge rispetto ad eventuali previsioni negoziali impone che la materia delle incompatibilità e del cumulo di impieghi e degli incarichi sia assoggettata ad una riserva di regolazione tramite atti aventi forza di legge, affidando alla contrattazione collettiva nazionale di comparto le sanzioni per la violazione del dovere di esclusività che, nei casi più gravi, può portare al licenziamento disciplinare per il venir meno del rapporto di fedeltà che presiede l’intero comparto del lavoro pubblico e privato[29].

Con riferimento alle fonti primarie, per ciò che interessa, va ricordato che la disciplina dell’incompatibilità non era estranea all’ordinamento del pubblico impiego nella vigenza del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, il cui art. 60 elencava i casi di incompatibilità, indicando le attività precluse all’impiegato, disposizione integrata dal successivo art. 63 che stabiliva i provvedimenti per casi d’incompatibilità, prevedendo un regime sanzionatorio particolarmente severo, che poteva sfociare, come scritto, nella pronuncia di decadenza dall’impiego previa diffida alla cessazione della situazione contra ius (prima della vigenza dei testi unici, prima della legge 8 giugno 1990, n. 142, il regime delle incompatibilità, per i dipendenti degli Enti locali, era delineato dall’art. 241 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383, il quale prevedeva un regime di incompatibilità pressoché assoluto, escludendo che i dipendenti dei comuni e delle province potessero svolgere attività concomitanti con il loro rapporto di pubblico impiego).

A ben vedere per i dipendenti degli Enti locali, il regime delle incompatibilità risulta ora chiaramente riunificato sotto la generale disciplina di cui all’art. 53 TUPI che, a sua volta, sancisce per tutti i pubblici dipendenti (centrali e locali, privatizzati e non) l’ultravigenza nell’attuale regime dei datati artt. 60 – 64 del d.P.R. n. 3 del 1957, dove si dispone che «l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, ne alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente» (nello specifico dell’art. 60).

Va detto a questo proposito che nel corso del tempo, i commi 1, 2 e 9 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 sono rimasti inalterati, così come la giurisprudenza in materia che ha attribuito alla anzidetta disciplina di carattere generale natura cogente, in conformità con l’indirizzo della Corte costituzionale[30].

In definitiva, dalla lettura combinata e complessiva dell’art. 53 TUPI con l’art. 60 cit. deriva un’ipotesi di attività assolutamente incompatibile, ossia attività inibite, che non si possono esercitare nemmeno con autorizzazione, rispetto ad altre attività consentite (che sono le attività per cui non è necessaria l’autorizzazione, ex art. 53, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, e attività consentite previa autorizzazione, ovvero tutte le altre attività comprese nella sfera di applicabilità dell’art. 53 del TUPI)[31].

La previsione del comma 8, primo periodo, dell’art. 11, «Organi amministrativi e di controllo delle società a controllo pubblico», del TUSP si associa e rafforza la cogenza delle attività assolutamente incompatibili dell’art. 60 ss. del d.P.R. n. 3/1957: il comma 1, dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, infatti, dispone nella sua essenzialità «Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3», facendosi carico di riconfermare con «resta ferma» la previsione ampia, dal punto di vista oggettivo, che include nel divieto tutte le attività che presentino i caratteri della abitualità e professionalità idonee a disperdere all’esterno le energie lavorative del dipendente e ciò al fine di preservare queste ultime e tutelare il buon andamento della P.A. che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte dei propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto.

La lettura coordinata delle citate norme impedisce qualsiasi genere di deroga in relazione alla tipologia di rapporto che pur si potrebbe ipotizzare del quadro dell’art. 53 del TUPI, si tratta di un evidente impedimento che non può essere derogato nemmeno con una specifica autorizzazione da parte dell’Amministrazione conferente, violando nell’ipotesi, l’imperatività della norma del TUSP.

Nell’ambito di siffatto scrutinio si vuole impedire che l’incarico possa da una parte, pregiudicare il rispetto del dovere di esclusività che potrebbe turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e conseguentemente il prestigio della P.A., dall’altra, evitare un potenziale e reale conflitto di interessi, alterando il processo decisionale e valutativo, dove il dipendente inserito nel c.d.a. non godrebbe di quella neutralità, alias imparzialità, richiesta sia nell’interesse della società che del proprio socio di riferimento.

Appare evidente che si intende evitare un condizionamento o un’interferenza che potrebbe derivare dalla sua appartenenza alle dipendenze di un determinato datore di lavoro pubblico di riferimento, configurando una situazione di assoluta incompatibilità, specie ove si consideri l’obbligo di perseguire l’oggetto sociale anche a discapito degli interessi del socio che lo ha nominato.

Si vuole valorizzare quella funzione che distingue la responsabilità dell’agire in qualità di amministratore “senza alcun vincolo di mandato”, nel senso che gli atti posti in essere dall’amministratore sono assunti con responsabilità propria, un rapporto che pur se deve godere di un particolare “fiducia”, tra chi nomina e persona nominata, sussiste – in ogni caso – un distinto e separato rapporto (che appare di dubbia solvibilità nel caso di dipendente del socio pubblico) che non si sovrappone tra questi e la società: solo così si potrà seguire l’interesse sociale non anteposto a quello extra sociale (un obbligo di perseguire l’interesse sociale che non può costituire giusta causa di revoca da parte dell’Amministrazione pubblica di riferimento)[32].

Il quadro complessivo e gli aspetti trattati portano a concludere che gli incarichi amministrativi societari, da parte di dipendenti pubblici delle Amministrazioni di riferimento («controllanti o vigilanti») secondo le regole del TUSP vanno azzerati e non è consentita, dal chiaro tenore della norma (in claris non fit interpretatio) alcuna ipotesi derogatoria: tale fonte rappresenta un divieto assoluto[33].

[1] Corte Conti, sez. contr. Lombardia, delibera 1° marzo 2016, n. 64.

[2] La legge n. 135/2012, di conversione del D.L. n. 95/2012, all’art. 4 disponeva che «i consigli di amministrazione delle società di cui al comma 1 devono essere composti da non più di tre membri, di cui due dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione o di poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d’intesa tra le amministrazioni medesime, per le società a partecipazione diretta, ovvero due scelti tra dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione della società controllante o di poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d’intesa tra le amministrazioni medesime, e dipendenti della stessa società controllante per le società a partecipazione indiretta… Nel caso di consigli di amministrazione composti da cinque membri, la composizione dovrà assicurare la presenza di almeno tre dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione o di poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d’intesa tra le amministrazioni medesime, per le società a partecipazione diretta, ovvero almeno tre membri scelti tra dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione della società controllante o di poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d’intesa tra le amministrazioni medesime, e dipendenti della stessa società controllante per le società a partecipazione indiretta».

[3] CUSUMANO, La governance delle società pubbliche e le incompatibilità dei dirigenti pubblici; una possibile lettura sistematica alla luce del Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica, Filodiritto.it, 1° settembre 2017.

[4] Il primo comma dell’art. 11 del TUSP tra i requisiti degli amministratori prevede espressamente «Resta fermo quanto disposto dall’articolo 12 del decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39, e dall’articolo 5, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135».

[5]ANAC, delibera n. 1054 del 25 novembre 2020, «Interpretazione della locuzione “enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione” e di “svolgimento di attività professionali” di cui all’art. 15, co.1, lett. c) del d.lgs. 33/2013».

[6] Cfr. CANTONE, La prevenzione della corruzione nelle società pubbliche, a cura FIMMANÒ, CATRICALÀ, CANTONE, Le società pubbliche, Napoli, 2020, pagg. 1607 ss.

[7] Cfr. ANAC, delibera n. 159 del 27 febbraio 2019, relativa all’accertamento di una situazione di inconferibilità di cui all’art. 3 del d.lgs. 39/2013.

[8] Vedi, SIROTTI GAUDENZI, Brevi note sulla sanzione dell’interdizione al conferimento di incarichi per il periodo di tre mesi ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. n. 39/2013, diritto.it, 3 settembre 2020, ove si annota che «l’art. 18 del d.lgs. n. 39/2013, nel prevedere la responsabilità dei componenti degli organi che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli, esprima principi che dovrebbero essere riferiti non alle singole persone fisiche che rappresentano l’ente, ma – direttamente – all’ente», rilevando che le «Linee Guida ANAC del 3 agosto 2016, «Linee guida in materia di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi amministrativi da parte del Responsabile della prevenzione della corruzione», confermano che la sanzione dovrebbe essere applicata nei confronti di persone fisiche, atteso che la stessa è di tipo personale interdittivo, fissa e non graduabile, che non può essere applicata senza una valutazione congrua e motivata riferita all’elemento psicologico del destinatario.

[9] Pare giusto rammentare che l’ANAC ha uno specifico potere di controllo e di accertamento sulle ipotesi di inconferibilità ed incompatibilità disciplinate dal d.lgs. 39/2013 e, in generale, sulla corretta applicazione della suddetta normativa: si sostanzia in un provvedimento di accertamento costitutivo di effetti giuridici e come tale impugnabile davanti al giudice amministrativo, potere in cui è compreso il potere di dichiarare la eventuale nullità dell’incarico, Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 126/2018.

[10] Cons. Stato, Adunanza della commissione speciale del 16 marzo 2016, parere n. 968 del 21 aprile 2016.

[11] Cass. civ., sez. I, 27 settembre 2001, n. 12904.

[12] Orientamento MEF (ai sensi dell’art. 15, comma 2, del d.lgs. n. 175/2016) del 15 febbraio 2018, deliberazioni Corte Conti, Sezioni Riunite in sede giur., n. 16/2019 e 25/2019, Atto di indirizzo del Viminale ai sensi art. 154 comma 2 del Tuel del 12 luglio 2019, ANAC 25 settembre 2019, n. 859, deliberazione Corte Conti, sez. contr. Umbria, 3 ottobre 2019, n. 76.

[13] Si tratterebbe di dimostrare un “collegamento sostanziale” tra i diversi soci tale da far desumere senza esitazione alcuna un unico centro decisionale, e, dunque, una unanime volontà, rilevando a tale scopo che in riferimento alla disciplina in materia di appalti pubblici questa condizione, con una lettura a contrario, comporta l’esclusione dalla gara, ex art. 80, comma 5, lett. m), del d.lgs. n. 50/2016: in termini diversi, la valutazione operata dalla stazione appaltante circa l’unicità del centro decisionale richiede indizi connotati da gravità, precisione e concordanza per la dimostrazione del cit. “collegamento sostanziale”, qualora invocato per stabilire il “controllo pubblico”, Cons. Stato, sez. V, 15 aprile 2020, n. 2426; 22 ottobre 2018, n. 6010; 16 febbraio 2017, n. 496; sez. III, 10 maggio 2017, n. 2173; 23 dicembre 2014, n. 6379; sez. V, 18 luglio 2012, n. 4189.

[14] Si veda, in tal senso, Corte Conti, sez. giur., 22 maggio 2019, n. 16 e 29 luglio 2019, n. 25.

[15] Cons. Stato, sez. I, 4 giugno 2014, n. 1801; T.A.R. Marche, 11 novembre 2019, n. 695.

[16] Orientamento MEF (ai sensi dell’art. 15, comma 2, del d.lgs. n. 175/2016) del 15 febbraio 2018.

[17] Vedi, Corte Conti, sez. contr. Liguria, deliberazione n. 3 del 24 gennaio 2018.

[18] La Corte di Giustizia ha apprezzato quali validi strumenti per l’esercizio del controllo analogo congiunto (unitamente ai patti parasociali, sentenza 29 novembre 2012 nelle cause C-182/11 e 183/11 Econord) organi speciali come i Comitati unitari e i Comitati tecnici (nella sentenza 10 settembre 2009 nella causa C-573/07 Sea) a condizione che: a) in essi ogni socio pubblico abbia un proprio rappresentante e che le deliberazioni siano assunte con maggioranze formate per unità e b) che siano previsti poteri di controllo e di gestione tali da restringere l’autonomia decisionale del consiglio di amministrazione imponendo indirizzi e prescrizioni, nonché prevedendo poteri consultivi preventivi, Cons. Stato, sez. V, 26 ottobre 2020, n. 6460. Per una disamina si rinvia, TESSAROLO, Nota alla sentenza del Consiglio di Stato n. 6460 del 2020 sui requisiti per l’affidamento in house di un servizio pubblico, dirittodeiservizipubblici.it, 30 ottobre 2020.

[19] Cons. Stato, parere n. 1389 del 7 maggio 2019.

[20] Cass. civ., sez. I, 11 giugno 2020, n. 11265.

[21] T.A.R. Emilia – Romagna, sez. I, 28 dicembre 2020, n. 858.

[22] Cass. civ., sez. II, 23 aprile 2014, n. 9219 e sez. I, 4 novembre 2013, n. 24679; idem Cons. Stato, sez. V, 15 dicembre 2005, n. 7147.

[23] Corte Conti, sez. Riunite in sede giur. in speciale composizione, 29 luglio 2019, n. 25/2019/EL, punti 2.4. e 2.5.

[24] T.A.R. Marche, sez. I, 11 novembre 2019, nn. 624 e 695; Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2019, n. 578; T.A.R. Lazio, Roma, 19 aprile 2019, n. 5518.

[25] D.L. n. 95/2012 convertito in legge n. 135/2012.

[26] Deliberazione ANAC n. 1134 del 8 novembre 2017, «Nuove Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e dagli enti di diritto privato controllati o partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici».

[27] Corte Conti, sez. contr. Valle d’Aosta, delibera 14 luglio 2017, n. 7.

[28] Deliberazione ANAC n. 1243 del 8 novembre 2017, «Concernente una segnalazione in merito a presunte situazioni di inconferibilità ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n.39/2013 con riferimento all’Autorità … Fascicolo UVIF 4194/17», ove si precisa che «non sono state disciplinate le conseguenze della citata ipotesi di incompatibilità; non è stato stabilito cosa accade in caso di perdurante inosservanza di tale divieto; non è stato previsto alcun procedimento da seguire per l’accertamento dell’incompatibilità, ne è stato chiarito se il pubblico dipendente che si trovi in aspettativa possa continuare a ricoprire la carica di amministratore».

[29] Cfr. LUCCA, Profili di incompatibilità, in Incarichi di consulenza e di servizi legali, Maggioli, 2020, pagg. 189 ss., ove si rileva che l’obbligo di fedeltà va collegato con le regole di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., osservando che l’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 già offre delle indicazioni attraverso le quali si stabilisce dei limiti interni per lo svolgimento di incarichi esterni all’Amministrazione di riferimento, sussistendo a carico di ogni P.A. l’obbligo di adottare un regolamento che definisca nei dettagli le procedure per l’autorizzazione agli incarichi esterni, e la conseguente verifica di situazioni impeditive.

[30] Cfr. Cass., 2 maggio 2017, n. 10629.

[31] Cass., sez. lavoro, ordinanza 1° dicembre 2020, n. 27420.

[32] Cfr. Cass. civ., sez. un., 18 giugno 2019, n. 16335, ove si chiarisce che «il rapporto fra società ed ente pubblico è di assoluta autonomia, non essendo consentito all’ente di incidere unilateralmente sul suo svolgimento e sull’attività della società mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina pubblica presenti negli organi della società (Cass. S.U. n. 7799 del 2005); che l’ente pubblico, quando nomina e revoca gli amministratori della società, non esercita un potere a titolo proprio ma esercita l’ordinario potere dell’assemblea, ad essa surrogandosi, quale organo della società, per autorizzazione della legge o dello statuto; che l’amministratore di designazione pubblica non è soggetto agli ordini dell’ente nominante ed anzi, per testuale previsione del codice civile (art. 2449 c.c.), ha i medesimi diritti ed i medesimi obblighi dell’amministratore di nomina assembleare (Cass. n. 23381 del 2013)», soffermandosi, altresì, sulla previsione di cui all’art. 50, commi 8 e 9 TUEL, quale può integrare ex se una giusta causa oggettiva di revoca degli amministratori. Si rinvia, LUCCA, Revoca degli amministratori nelle società partecipate, public-utilities.it, 2 settembre 2019.

[33] Diversamente si potrebbe invocare (ma la condizione soggettiva muta il rapporto attivo) il comma 1 dell’art. 23 bis del d.lgs. n. 165/2001 ove è previsto «In deroga all’articolo 60 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, di cui al d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ivi compresi gli appartenenti alle carriere diplomatica e prefettizia e, limitatamente agli incarichi pubblici, i magistrati ordinari, amministrativi e contabili e gli avvocati e procuratori dello Stato sono collocati, salvo motivato diniego dell’amministrazione di appartenenza in ordine alle proprie preminenti esigenze organizzative, in aspettativa senza assegni per lo svolgimento di attività presso soggetti e organismi, pubblici o privati, anche operanti in sede internazionale, i quali provvedono al relativo trattamento previdenziale. Resta ferma la disciplina vigente in materia di collocamento fuori ruolo nei casi consentiti». In analogo istituto previsto dal comma 12 dell’art. 11 del TUSP a fronte del quale «Coloro che hanno un rapporto di lavoro con società a controllo pubblico e che sono al tempo stesso componenti degli organi di amministrazione della società con cui è instaurato il rapporto di lavoro, sono collocati in aspettativa non retribuita e con sospensione della loro iscrizione ai competenti istituti di previdenza e di assistenza, salvo che rinuncino ai compensi dovuti a qualunque titolo agli amministratori».

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