20/08/2019 – La stabilizzazione dei precari e la precarizzazione dei dirigenti

Giornale Dir. Amm., 2019, 4, 455 (nota a sentenza)

La stabilizzazione dei precari e la precarizzazione dei dirigenti

di Benedetto Cimino
 
Negli ultimi venti anni, il principio del concorso per l’accesso ai pubblici impieghi è stato violato tramite chiamate fiduciarie per coprire le posizioni apicali e con l’assunzione e successiva stabilizzazione di personale precario per i gradi intermedi e inferiori. Per queste vie, la competenza e l’indipendenza di dipendenti e dirigenti pubblici sono state compromesse.

A partire dal 2007, nella legislazione e nella giurisprudenza, si sono registrati dei tentativi di correggere le distorsioni più gravi, senza tuttavia incidere in profondità sulle prassi e sui modelli di reclutamento. Gli equilibri raggiunti, inoltre, appaiono instabili ed esposti a costanti rischi di arretramento, ben evidenziati dalle due sentenze in esame: Corte cost. n. 23 del 2019, che ritiene legittimo lo spoils system applicato ai segretari comunali, e T.A.R. Sicilia n. 234 del 2019, che reputa prioritarie le procedure di stabilizzazione dei precari rispetto all’indizione di nuovi concorsi pubblici.

Le sentenze che si commentano – l’una della Corte costituzionale, l’altra del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – affrontano due tra i principali problemi del pubblico impiego italiano. L’uno riguarda il vertice delle amministrazioni: l’assegnazione delle funzioni direttive. L’altro la base: i meccanismi di reclutamento del personale.
Su entrambi i temi, vengono date risposte che non convincono.
La Corte costituzionale afferma che anche incarichi dirigenziali di natura tecnica o gestionale e persino quelli con funzioni di garanzia possono essere revocati ad nutum dall’autorità politica; il T.A.R. Sicilia stabilisce che le procedure di stabilizzazione del personale precario hanno precedenza incondizionata rispetto ai concorsi. Certamente, si tratta di decisioni condizionate da alcune particolarità dei casi trattati; i principi che vengono invocati, tuttavia hanno portata più ampia e, quindi, più pericolosa.
All’inizio del 2007, Sabino Cassese, in occasione di una lectio magistralis, metteva in collegamento questi due temi: stabilizzazione dei precari e precarizzazione e dei dirigenti “pur se orientati in direzioni opposte […] rispondono a una esigenza unica, quella di lasciare mano più libera alla classe politica, prima vincolata nella scelta del personale dal sistema dei concorsi e nella scelta dei dirigenti dalla durata in carica. Essi sono, quindi, il segno di un cambiamento dei rapporti tra politica e amministrazione, nel senso di una maggiore sottomissione della seconda alla prima”(1).
Questo giudizio era reso al termine delle prime legislature elette con sistema maggioritario. Si trattava degli anni che storicamente hanno segnato, al tempo stesso: per un verso, il maggior ricorso a personale precario per coprire vacanze in organico; per altro verso, la più veloce turnazione di dirigenti pubblici al vertice degli uffici amministrativi. Si trattava di una fase gravemente instabile e fortemente conflittuale del sistema amministrativo, come testimoniato sia dai continui (e non di rado contraddittori) interventi legislativi e regolamentari in materia, sia dal contenzioso giudiziario, veramente elevato in termini quantitativi e distribuito su una pluralità di giurisdizioni nazionali ed europee.
Nel decennio successivo, a ben vedere, alcune delle maggiori asperità sono state smussate; questo esito, tuttavia, non è stato il frutto di un superamento strutturale dei problemi descritti, che sono piuttosto diventati carsici e solo meno apparenti. Da un lato, il precariato è stato ridotto, ma tramite stabilizzazioni o licenziamenti, non avviando un sistema fisiologico di reclutamento del personale, in grado di assicurare il normale turn over dei dipendenti selezionando in base al merito; sul lato della dirigenza, poi, se è vero che la politica ha fatto a meno ricorso al potere di revoca degli incarichi, essa ha però mantenuto, consolidato e messo a regime il sistema delle nomine fiduciarie a tempo, che oggi sembra non poter più essere rimesso in discussione. Per varie ragioni, nonostante si possa registrare una copiosissima giurisprudenza costituzionale in queste due materie, la Corte ha sempre evitato di prendere una posizione definitiva sulle due questioni di fondo: se sia legittima la regola della temporaneità degli incarichi dirigenziali; se siano legittime tornate orizzontali e generalizzate di stabilizzazione del personale precario.
Fatto questo rapido inquadramento della questione, si procederà come segue: innanzitutto, si ricostruiranno brevemente il contesto amministrativo e i precedenti giurisprudenziali nei quali si collocano le pronunce in esame, evidenziando alcuni profili comuni (par. 2); di poi, si tratteranno distintamente le due sentenze della Corte costituzionale e del T.A.R. Sicilia (parr. 3 e 4); infine, si renderanno alcune valutazioni di sintesi in ordine alla perdurante debolezza della regolazione vigente e alla necessità di correttivi di sistema.
Per ricostruire i fenomeni di cui si discute (come sempre accade nei problemi del pubblico impiego e di organizzazione amministrativa) occorre valutare gli interventi legislativi e giurisprudenziali in rapporto agli andamenti quantitativi e finanziari, rilevati dalle statistiche.
Il precariato nel pubblico impiego nazionale ha sempre segnato una dinamica pendolare. Nonostante i parlamenti abbiano sempre tentato di arginare il ricorso all’impiego non di ruolo, esso ha proliferato ugualmente per esigenze di bilancio (considerati i minori costi), per l’inefficienza della burocrazia (che non riesce a programmare i concorsi) e per ragioni clientelari (specie nelle amministrazioni locali). A cadenze periodiche, quando il numero dei precari raggiunge dimensioni ragguardevoli (e, quindi, rilevanti anche da un punto di vista elettorale) o, comunque, si registrano situazioni di abuso oramai insostenibili, i parlamenti intervengono con norme di stabilizzazione una tantum, accompagnate da divieti che mirano ad evitare che si riformino in futuro nuove masse di avventizi. Questi divieti, apparentemente rigidi, vengono tuttavia aggirati e il ciclo riprende(2).
L’ultimo picco si è registrato nel 2007. Nel decennio precedente, per ragioni di contenimento della spesa, la legge aveva imposto un rigido contenimento del turn over, che ha spinto le amministrazioni a massicce assunzioni tramite contratti flessibili. Si è potuto assistere, peraltro, ad un peculiare fenomeno di fuga e inseguimento tra amministrazioni e legislatore: mentre il secondo introduceva sempre nuovi limiti al reclutamento nelle sue diverse forme, le prime andavano alla ricerca di tipologie di rapporto ancora non contemplate dai divieti (e così, in progressione: contratti a tempo determinato, collaborazioni coordinate, incarichi professionali, contratti di somministrazione con agenzie interinali, appalti di servizi, ecc.). Si è formato, in questo modo, un precariato sempre deteriore, sia sotto il profilo della remunerazione e delle tutele assicurate al lavoratore, sia sotto il profilo della selettività delle procedure di reclutamento(3). All’apice del fenomeno, si contavano circa 120mila dipendenti in regime di tempo determinato, 36mila lavoratori interinali o socialmente utili, 50mila precari del comparto difesa, 230mila supplenti a contratto della scuola, 82mila collaborazioni coordinate e continuative, 46mila incarichi libero-professionali.
Dal 2007 in poi, si sono succedute numerose leggi di stabilizzazione, sia di carattere generale(4), sia relative a settori specifici (e, in particolare, nella scuola e nella sanità(5)). Accanto a queste misure una tantum, la legge di stabilità per il 2013 ha poi istituito, a regime, una riserva, in ogni pubblico concorso, di una quota di posti per il personale titolare di contratto a termine; si è prevista, inoltre, la possibilità di attribuire speciali punteggi aggiuntivi per i titolari di altri contratti di flessibilità (attuale art. 35, comma 3 bis, t.u.p.i). Altre norme speciali, infine, hanno riguardato le graduatorie dei concorsi, la cui validità è stata prolungata a dismisura, fino a quindici anni e più dal termine della procedura: per questa via si è creata una ulteriore massa di canditati con aspettative di assunzione nei ruoli pubblici, in assenza di una seria (e recente) verifica delle loro capacità.
Per ragioni diverse, queste procedure sono state molto diluite nel tempo, cosicché, negli ultimi dodici anni, è stato sempre aperto un qualche canale di stabilizzazione di personale precario. A differenza del passato, sul piano finanziario, il Parlamento non ha sempre stanziato risorse aggiuntive: gli oneri derivanti dalle stabilizzazioni, dunque, hanno gravato sui capitoli di bilancio destinati al reclutamento ordinario, così riducendo le relative “capacità(6). Questo quadro è stato aggravato anche dalla riforma del sistema pensionistico, che ha allungato le carriere e, quindi, ulteriormente rallentato il turn over. Si è dovuto registrare, in questo modo, un fenomeno nuovo, almeno per dimensioni e durata: quello della concorrenza, invero davvero perniciosa, tra concorsi e stabilizzazioni.
Attualmente, grazie alle politiche descritte, il numero dei precari si è all’incirca dimezzato rispetto al picco del 2007, con una riduzione costante di tutte le sue componenti e in tutti i comparti di rilevamento. Nello stesso periodo, tuttavia, anche il personale stabile si è a sua volta ridotto di oltre duecentomila unità, scendendo sotto la soglia dei tre milioni di dipendenti(7), a causa del blocco dei concorsi. Le disposizioni sulla proroga di efficacia delle graduatorie, inoltre, hanno imposto alle amministrazioni di attingere preferenzialmente a candidati risultati idonei in precedenti tornate concorsuali (spesso molto risalenti nel tempo), riducendo ulteriormente le posizioni di ruolo da mettere a bando. Per l’insieme di questi fattori, dunque, la riduzione del precariato non si è accompagnata a maggiori opportunità di ingresso nel pubblico impiego per gli esterni e più capaci.
È difficile che la legittimità di queste politiche arrivi a giudizio dinnanzi la Corte costituzionale: le stabilizzazioni sono norme di favore, quindi non sono oggetto di contenzioso dinnanzi ai tribunali, se non per estenderne la portata. Le pronunce in materia, dunque, sono solitamente rese in giudizi in via principale, avverso le ruolizzazioni disposte con leggi regionali. Per queste ultime, la Corte è intervenuta con una certa decisione, annullando disposizioni volte ad introdurre nuove procedure non previste dalla legislazione statale o a estenderne le condizioni e i presupposti(8). I principi affermati dalla Corte sono essenzialmente due: sul piano soggettivo, la stabilizzazione non può prescindere da una selezione e da una verifica di idoneità all’impiego; sul piano oggettivo, le procedure non possono essere finalizzate a soddisfare le aspettative del personale precario, ma devono trovare giustificazione in un qualche interesse organizzativo dell’amministrazione (quale, in particolare, quello di reclutare personale competente).
È evidente che queste salvaguardie, se intese ed applicate con rigore, sono incompatibili con le tornate generalizzate di stabilizzazione stabilite a livello nazionale. Anche ammettendo che le verifiche siano svolte seriamente, il principio del merito non è soddisfatto quando l’amministrazione assume personale idoneo purché sia, ma solo se assume i migliori: è facile osservare, allora, che, a monte, i concorsi per le assunzioni a termine non sono in grado di attirare i candidati più preparati, che dedicano il loro impegno per i concorsi in ruolo; e che, a valle, i concorsi riservati o con riserve di posti a favore dei dipendenti a termine si sostanziano in mere verifiche di idoneità perché l’elemento della competizione è escluso o fortemente limitato.
Nelle procedure di stabilizzazione, poi, l’interesse organizzativo finisce inevitabilmente per essere sempre presunto e si giustifica trasversalmente con l’opportunità di “valorizzare la professionalità acquisita dal personale con rapporto di lavoro a tempo determinato”, senza alcuna verifica casistica. È del resto inimmaginabile, per i conflitti che solleverebbe, che un’amministrazione possa decidere di stabilizzare solo alcune figure professionali e non altre: nella prassi, anzi, si seguono rigidi criteri di preferenza basati sull’anzianità e sulla permanenza in servizio(9).
Mentre la stabilizzazione del personale precario è una costante del sistema amministrativo italiano, la precarizzazione della dirigenza è un fenomeno dell’ultimo ventennio. Anche in precedenza, ovviamente, vi era una pletora di figure di vertice nominate fiduciariamente dalla politica, ma ciò accadeva negli enti del parastato e nelle società partecipate e non anche nei ministeri e negli enti territoriali.
Nel 1999 e nel 2003, per la prima volta, si è disposto l’azzeramento automatico di tutti gli incarichi dirigenziali nello Stato, in occasione di due successive riforme approvate durante la XIII e la XIV legislatura. Con norme di prima applicazione e in via contestuale, si è assegnata ai ministri la possibilità di ridistribuire i dirigenti tra gli uffici, e persino di lasciare alcuni dirigenti senza incarico o con meri incarichi di studio(10). Norme similari sono state poi diffusamente adottate nella legislazione regionale.
Accanto a queste misure una tantum, sono state approvate un profluvio di disposizioni operanti a regime, negli ambiti più disparati, che legano la durata di incarichi amministrativi al mandato dell’autorità politica nominante. Nei ministeri, norme di tal fatta hanno riguardato solo i segretari generali e i capi dipartimento; nelle regioni e negli enti territoriali, viceversa, molte leggi e statuti hanno previsto la decadenza automatica, al termine delle consiliature o al giuramento di nuovi presidenti e sindaci, di tutte le nomine di competenza degli organi politici, anche negli enti controllati e nelle aziende sanitarie(11).
Con una significativa coincidenza temporale, anche la precarizzazione della dirigenza ha toccato il suo apice nel 2007. Le ragioni sono più d’una e tutte convergenti. A livello statale, le coalizioni di centro-sinistra e di centro-destra, per la prima volta al governo nazionale, mancavano di rapporti istituzionali consolidati con la dirigenza amministrativa, alla quale guardavano con diffidenza: per ragioni ideologiche, dunque, entrambe ritenevano legittimo procedere a profondi riassetti dell’alta burocrazia. A livello regionale, come era prevedibile, si è registrato un fenomeno mimetico, favorito dall’accresciuta autonomia legislativa e amministrativa dopo la riforma costituzionale del 2001 e dalla forte personalizzazione della politica locale assicurata dai sistemi elettorali. Infine, la precarizzazione della funzione dirigenziale, una volta avviata, si è autoalimentata: a cascata, infatti, il personale di nomina politica ha reiterato ed esteso la concezione fiduciaria dei rapporti burocratici anche ai livelli inferiori, fino a coinvolgere tutte le fasce dirigenziali.
Ancora nel 2006, con la sentenza n. 233, la Corte costituzionale aveva reso un importante avallo alle differenti tecniche spoils system, sul presupposto che esse consentono di scegliere “su base eminentemente personale, soggetti idonei a garantire proprio l’efficienza e il buon andamento dell’azione [del nuovo esecutivo], per evitare che essa risulti condizionata dalle nomine effettuate” dai predecessori.
Negli anni successivi, come anticipato, si è assistito ad un graduale contenimento di questi eccessi. Sul piano legislativo, innanzitutto, non si sono reiterate tornate generalizzate di decadenza e rinnovo degli incarichi in essere. Nella disciplina a regime, poi, sono stati introdotti una serie di correttivi, sul piano procedurale e motivazionale, per limitare la discrezionalità dell’autorità politica. In alcuni settori, come la sanità o i beni culturali, si sono previste procedure di natura para-concorsuale. In generale, nella prassi, si segnala il diffuso ricorso a interpelli e valutazioni comparative(12).
Una parallela evoluzione si registra sul piano giurisprudenziale. La Corte di cassazione, che inizialmente aveva qualificato in termini squisitamente privatistici l’atto di conferimento di incarico dirigenziale, ha poi mitigato questo approccio, applicando in modo estensivo le clausole di buona fede e correttezza quali tecniche di controllo dei poteri privati(13). A partire dalle sentenze n. 103 e n. 104 del 2007, con un significativo overruling, la Corte costituzionale ha a sua volta avviato un’opera di disboscamento delle più gravi fattispecie di spoils system. In una serie di pronunce, la Corte ha affermato “l’incompatibilità con l’articolo 97 Cost. di meccanismi di decadenza automatica o del tutto discrezionale, dovuta a cause estranee alle vicende del rapporto d’ufficio e sganciata da qualsiasi valutazione concernente i risultati conseguiti”. Un rapporto fiduciario resta ammissibile solo in presenza di due presupposti: il primo strutturale, che la decadenza abbia a riguardo titolari di organi apicali dell’amministrazione, nominati da organi politici; il secondo funzionale, che tali soggetti partecipino alla definizione dell’indirizzo politico e, quindi, possano essere legittimamente prescelti sulla base di “valutazioni personali coerenti all’indirizzo politico” del nominante(14).
Come anticipato, tuttavia, questa normalizzazione dei rapporti tra politica e amministrazione ha agito solo sulla superficie del fenomeno. L’attuale modello, anche con i correttivi indicati, non garantisce né l’effettiva libertà dei dirigenti da condizionamenti impropri, né la selezione dei migliori. Gli interventi della Corte costituzionale, infatti, hanno riguardato la patologia in sede di revoca degli incarichi, ma non affrontano le procedure di nomina. In questa fase, la discrezionalità della classe politica è ancora molto lata, grazie all’effetto congiunto della temporaneità degli incarichi, dell’assenza di adeguati meccanismi di valutazione dei risultati raggiunti dai dirigenti e della difficoltà (dovuta sia a ragioni di merito, sia di procedura) di sindacare in sede giurisdizionale le decisioni adottate.
In assenza di criteri oggettivi di scelta e di controlli esterni efficaci, la personale consonanza tra nominato e nominante resta ancora decisiva. In prospettiva, inoltre, anche le salvaguardie che finora la legislazione e la giurisprudenza sono riuscite ad imporre alla classe politica non appaiono affatto un’acquisizione definitiva e la possibilità di arretramenti resta sempre concreta.
Si sono descritte due vicende parallele, sia sul piano strettamente temporale, sia in ordine alle cause e sia dal punto di vista delle azioni e delle reazioni dei diversi attori istituzionali coinvolti. Come visto, per entrambi i fenomeni si registrano, nell’ultimo ventennio, due fasi.
La prima è quella che va fino agli anni 2006 e 2007 ed è connotata da un crescente disordine; essa coincide, sul piano politico, con le prime legislature dell’alternanza; sul piano istituzionale, con il massimo slancio del regionalismo; sul piano normativo, con il completamento della c.d. privatizzazione del pubblico impiego. Il tessuto normativo e il sistema amministrativo vengono sottoposti ad un eccezionale stress; la classe politica (nazionale e, ancora di più, locale) ritiene di poter disporre liberamente dei rapporti di lavoro con i propri dipendenti (assumendoli anche senza concorso e con qualunque forma contrattuale utile ad aggirare i divieti di legge) e con i propri dirigenti (nominandoli e rimuovendoli ad nutum, scegliendoli indifferentemente all’interno, come all’esterno dei ruoli). Per dimensioni e intensità, queste manovre sono state rese possibili (o, quantomeno, fortemente favorite) dai nuovi strumenti giuridici offerti dalla privatizzazione (le amministrazioni hanno potuto ricorrere alla panoplia di rapporti flessibili conosciuta nel lavoro privato; la classe politica ha potuto gestire i rapporti con la dirigenza esercitando “poteri datoriali” di natura privatistica e, quindi, essenzialmente liberi da controllo). In queste fasi, decisive per il consolidamento dei modelli di reclutamento oggi in discussione, i giudici (sia la Corte costituzionale, sia quelli comuni) non solo hanno mantenuto un atteggiamento di forte self restraint, ma sono sembrati addirittura avallarne la logica di fondo.
La seconda fase è invece quella che va dal 2007 ad oggi ed è caratterizzata da un ordine apparente. È un periodo certamente connotato da una maggiore consapevolezza delle distorsioni generate dall’eccesso di deregolamentazione del periodo precedente. Vengono reintrodotti maggiori controlli sul sistema delle autonomie territoriali, la privatizzazione è rimessa in discussione da interventi che attraggono a livello legislativo alcuni aspetti salienti della disciplina dei rapporti di lavoro, vi è una presa di coscienza degli effetti dello spoils system sulla continuità dell’azione amministrativa. Si afferma la necessità di una regolamentazione e di un graduale superamento della precarietà generatasi nel sistema amministrativo. Si sono reintrodotti controlli e strumenti propri del diritto pubblico: procedure maggiormente selettive sono previste sia nella scelta dei dirigenti (interpelli, commissioni di pre-valutazione, obbligo di motivazione delle nomine), sia nell’assunzione dei precari (estendendo l’obbligo del previo concorso anche la stipula di contratti termine e indicendo selezioni pubbliche per le collaborazioni esterne), al fine di contenere la discrezionalità della classe politica. Il precariato di funzionari e impiegati, in termini quantitativi, è stato gradualmente ridotto e così, del pari, si sono rarefatte le fattispecie che consentivano alla politica di revocare ante tempus gli incarichi dirigenziali in corso. Il governo nazionale, poi, ha esercitato un controllo più efficace sulle leggi regionali che, in materia di dirigenza e di precariato, aprissero varchi più ampi di quelli previsti dalla legislazione nazionale.
Questi correttivi, tutti utili, non hanno però mai affrontato il tema centrale, che è quello dei modelli di reclutamento del personale pubblico. Troppi rapporti di impiego pubblico, al vertice come alla base dell’organizzazione amministrativa, sono ancora perniciosamente connotati dal dato della temporaneità e della consentaneità al soggetto nominante, il che genera un doppio condizionamento: in sede di nomina e in sede di proroga o riconferma. Il ricorso a procedure selettive o para-concorsuali costituisce un palliativo, quando non un alibi per rinviare interventi di riforma organica.
Di questo approccio parziale e incompleto è responsabile anche la Corte costituzionale. Innanzitutto, essa è intervenuta con ritardo: l’azione di disboscamento delle fattispecie più gravi di spoils system è iniziata solo nel 2007, quando oramai l’effetto di precarizzazione si era consolidato; come visto, inoltre, la Corte si è sempre interessata delle procedure di revoca e mai di quelle di nomina; del pari, in materia di stabilizzazioni, dal 2007 in avanti la giurisprudenza costituzionale si è intensificata sia per numero di precedenti, sia per chiarezza dei principi affermati, ma ha agito solo sulla legislazione regionale, non sulle scelte nazionali che hanno dapprima consentito il formarsi del precariato e, di poi, lo hanno stabilizzato. Su entrambi i temi in discussione, in definitiva, la Corte è stata in grado di intervenire solo al margine, elidendo le disposizioni più scabrose, ma senza riuscire ad incidere sulle scelte di fondo.
All’esito delle due fasi che si sono descritte, prima quella del disordine e poi quella dell’ordine apparente, il tessuto amministrativo appare fortemente indebolito, i corpi tecnici sono diradati, il personale invecchiato e scarsamente motivato, l’azione della dirigenza condizionata da impellenze contingenti e da obbiettivi di breve periodo.
Ciò che emerge, al fondo, è un sostanziale disinteresse sia della classe politica, sia della stessa amministrazione per il problema del reclutamento. Il ricambio del personale non è gestito tramite una serie ordinata e prevedibile di concorsi a ruolo; ma tramite i due strumenti della chiamata fiduciaria al vertice e della stabilizzazione del personale precario alla base. Il principio del concorso, per questa via, da regola diviene eccezione. La programmazione dei fabbisogni di personale diviene un esercizio astratto, perché l’amministrazione non può scegliere le figure professionali di cui ha realmente bisogno, ma deve impiegare le risorse a disposizione per la stabilizzazione del precariato storico (o dei candidati risultati idonei in risalenti procedure concorsuali). Le procedure di selezione dell’alta dirigenza si indeboliscono e divengono meno attrattive per i migliori, in quanto la carriera dei funzionari dipende da valutazioni contingenti dell’autorità politica; e la stessa classe politica ha un interesse contrario a rafforzare i percorsi e le scuole di selezione e formazione della dirigenza, preferendo sfruttare la leva della chiamata fiduciaria.
Questi esiti, va riconosciuto, non sono imputabili esclusivamente alla classe politica, né essi sono sempre frutto di un disegno preordinato di asservimento dell’amministrazione. Spesso, governo e parlamento assumono decisioni che aggravano, per interessi politici, situazioni causate dall’inefficienza dell’amministrazione o da suoi interessi corporativi. Chiamate fiduciarie di dirigenti, assunzioni e stabilizzazioni di personale precario, nel breve periodo, suppliscono alla difficoltà di organizzare concorsi, consentono risparmi di spesa, abbreviano le procedure di provvista degli uffici, sanano gli illeciti legati all’abuso di contratti a termine. Sono, quindi, in definitiva, delle soluzioni di minore resistenza per il sistema amministrativo.
Tratteggiato il contesto nel quale si inseriscono le due pronunce in esame, si può ora affrontare il merito delle decisioni. Nella sentenza n. 23 del 2019, la Corte costituzionale affronta la legittimità delle norme che consentono ai sindaci, entro un certo termine dall’insediamento, di confermare o rimuovere il segretario comunale in carica.
Il giudice a quo aveva colto perfettamente il problema, con riferimento ai due presupposti richiesti dalla (finora) consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di spoils system: benché fosse soddisfatto il presupposto strutturale (la “posizione di apicalità della figura”), difettava quello funzionale (“il segretario comunale è essenzialmente titolare di funzioni tecnico-professionali, gestionali e consultive di carattere neutrale”, quali la verifica del “rispetto della legge” e della “regolarità delle procedure”). Di conseguenza, per ricoprire tale incarico non può richiedersi la “personale adesione agli orientamenti politici di chi lo nomina”.
Nel proprio percorso argomentativo, la Corte muove da un presupposto corretto: “apicalità e immediatezza di rapporto [del segretario] col vertice del Comune non richiedono necessariamente una sua personale adesione agli obbiettivi politico-amministrativi del sindaco”; subito dopo, tuttavia, essa volge in negativo questa inziale presa di posizione, ammettendo che “il carattere fiduciario insito nell’atto di nomina non si esaurisce con esso”.
La Corte procede, a questo punto, ad una analisi delle funzioni che la legge affida al segretario, evidentemente al fine di valutare se esse presuppongano o meno l’adesione agli orientamenti politici del soggetto nominante. La Corte le riconduce a tre gruppi. Il primo costituisce il “nucleo originario e tradizionale della funzione segretariale” e si traduce nei compiti notarili di verbalizzazione, autenticazione e rogito. Il secondo sono le “cruciali funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi comunali in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti”, riconducibili al novero delle “funzioni consultive, referenti e di supporto”. Un terzo gruppo di funzioni del segretario comunale è di carattere eminentemente gestionale: “sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti, coordinandone l’attività” e le altre funzioni gestorie, attribuite dallo statuto, dai regolamenti o conferite dal sindaco (art. 97, comma 4, lett. dD.Lgs. n. 267 del 2000). Stando alla giurisprudenza consolidata della Corte nessuna di queste funzioni potrebbe mai giustificare il mantenimento di un vincolo fiduciario in corso di rapporto.
Di certo non le prime, per le quali è impossibile anche solo ipotizzare una connotazione politica. Del pari le seconde appaiono spiccatamente tecniche. Con un ragionamento non poco sorprendente, tuttavia, la sentenza ritiene che in esse vi sia ugualmente partecipazione alla definizione dell’indirizzo politico: la decisione politica, infatti, sarebbe “influenzata” dall’assistenza giuridico-amministrativa del segretario, perché compete a questi di “mostrare se quegli obbiettivi possono essere legittimamente inclusi fra i risultati che gli organi di direzione politico-amministrativa intendono raggiungere, indicando anche, nel momento stesso in cui la decisione deve essere assunta, i percorsi preclusi, o anche solo resi più difficoltosi, dalla necessità di rispettare leggi, statuto e regolamenti”. La tesi è pericolosa e prova evidentemente troppo: la Corte accomuna (e forse confonde) le attività di controllo e consulenza di merito (che costituiscono, effettivamente, altrettante fattispecie di co-decisione e, infatti, sono normalmente affidate a corpi politici), con quelle rese nell’interesse esclusivo della legge (tradizionalmente riservate a corpi tecnici, operanti in posizione d’indipendenza). È facile obbiettare che, accettando questa logica, anche i pareri e i visti della Corte dei conti e del Consiglio di Stato costituirebbero atti di compartecipazione al potere politico.
La pronuncia solleva perplessità ancora maggiori con riferimento al terzo gruppo di funzioni dei segretari. Finora, la natura “gestionale” di una attività era invocata dalla Corte per proteggerla da condizionamenti politici e da tecniche di spoils system: il concetto di “gestione” era posto in contrapposizione a quello di “indirizzo politico”. La sentenza n. 23 del 2019 sembra addirittura ribaltare questo approccio: anche le funzioni gestionali possono essere agganciate al mandato dell’autorità politica; e peraltro non solo quelle di “coordinamento”, ma anche quelle volte al disbrigo di incarichi specifici.
Potrebbe darsi che, nel caso di specie, abbia pesato il tema dell’autonomia locale. I segretari comunali costituivano, tradizionalmente, uno strumento di controllo statale sulle decisioni comunali; mantenendo questa figura nell’organigramma degli enti locali, ma affidando ai sindaci il potere di nomina e revoca, il legislatore aveva ricercato “punti di equilibrio fra due esigenze non facilmente conciliabili: il riconoscimento dell’autonomia degli enti locali, da una parte, e la necessità, dall’altra, di garantire adeguati strumenti di controllo della loro attività”(15). Può dunque credersi che la Corte costituzionale abbia voluto rispettare questo assetto e questi “punti di equilibrio”. E tuttavia, anche in questa logica, altra poteva essere la portata della decisione e, soprattutto, altre le sue motivazioni. Per assicurare l’autonomia locale, infatti, poteva già dirsi sufficiente che il segretario fosse nominato dal sindaco, senza necessità di allineare i rispettivi mandati; a ben vedere, del resto, i temi autonomistici sono richiamati solo nella parte iniziale della pronuncia, quando la Corte ricostruisce l’evoluzione storica della figura del segretario, ma il successivo impianto motivazionale ne prescinde completamente e ruota tutto intorno alla natura dell’incarico di segretario e alle sue funzioni rispetto al sindaco.
I principi affermati, dunque, si prestano pericolosamente ad una applicazione ampia, decisamente più estesa dello specifico caso trattato(16).
La sentenza n. 234 del 2019 del T.A.R. Sicilia decide il ricorso di un dipendente del Comune di Palermo, che aveva impugnato la procedura di stabilizzazione dei precari indetta dall’amministrazione in attuazione dell’art. 4 del D.L. n. 101 del 2013: il ricorrente lamentava la violazione delle riserve di posti a favore dei dipendenti interni di ruolo.
Questo è il passaggio più rilevante della pronuncia: “le disposizioni […] che prevedono un limite alla riserva di posti in favore del personale interno, recedono, dunque, innanzi a tali norme, di carattere speciale e che, più che disciplinare concorsi pubblici, regolamentano procedure speciali volte alla stabilizzazione del personale precario”.
Come si è già evidenziato è molto difficile che dinnanzi a un giudice possa essere posta in discussione la legittimità di una procedura di stabilizzazione: gli unici veri i controinteressati, infatti, sono coloro che aspirano ad entrare nei ruoli per pubblico concorso che vedono ridotti (o azzerati) i posti disponibili a causa della preferenza accordata al personale precario in servizio. Costoro, tuttavia, non vantano un interesse differenziato da quello della collettività: nella normalità dei casi, purtroppo, il principio del merito non trova alcun portatore.
I possibili conflitti, dunque, coinvolgono contrapposti interessi particolari: quelli dei precari alla stabilizzazione, quelli degli idonei allo scorrimento della graduatoria, quelli dei dipendenti di ruolo che vogliono beneficiare di avanzamenti in carriera con concorsi riservati. Inevitabilmente, questa dinamica processuale condiziona le decisioni dei giudici. Il caso trattato, da questo punto di vista, è di grande interesse: l’interesse generale alla scelta dei migliori secondo il loro merito individuale non riesce ad emergere; il Tar è costretto ad arbitrare tra due privilegi. Tutti i precedenti invocati dal ricorrente, resi dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza amministrativa, che ruotavano intorno al principio del merito vengono ad uno ad uno scartati dal Tribunale amministrativo, perché irrilevanti.
La sentenza si riduce così ad un esercizio giuridico di risoluzione di antinomie (invero alquanto sterile), da superare, volta per volta, per il tramite del criterio della lex specialis: nel caso di specie, secondo il T.A.R. Sicilia, le norme sulla stabilizzazione dei precari sono “di carattere speciale” e, quindi, prevalgono(17).
In questo modo, tuttavia, si aggira il nodo della questione, relativo alla legittimità delle stabilizzazioni e al loro rapporto con i concorsi pubblici. Inevitabilmente, poi, l’effetto di queste pronunce è quello di rafforzare la percezione delle procedure di stabilizzazione come un diritto incondizionato degli interessati, fondato esclusivamente sull’esercizio di determinate funzioni per un tempo dato.
Nel bilanciamento dei diversi interessi, gli unici vincoli che gli enti pubblici incontrano sono quelli di natura finanziaria; ogni altra valutazione è sostanzialmente esente sia da controlli amministrativi, sia giurisdizionali. Potendo fruire di massima discrezionalità, le amministrazioni danno inevitabilmente sempre preferenza all’interesse dei precari interni, dequotando sia il proprio interesse organizzativo, sia l’interesse degli esterni alla parità di accesso agli impieghi.
Le sentenze esaminate dimostrano quanto siano instabili gli equilibri costituzionali in materia di precariato e dirigenza pubblica. Benché, in questi campi, specialmente nell’ultimo decennio, si sia stratificata una cospicua e sostanzialmente coerente giurisprudenza della Corte costituzionale, la possibilità di revisioni ed arretramenti è quantomai concreta. Ciò avviene senza nemmeno una chiara presa di coscienza della discontinuità generata da tali decisioni: gli stessi principi e clausole generali sono invocate per sostenere esiti diametralmente opposti.
Così accade in materia di dirigenza, laddove il criterio della “compartecipazione alla formazione dell’indirizzo politico”, da sempre utilizzata per restringere a casistiche eccezionali la connotazione fiduciaria del rapporto (dirigenti di staff, segretari generali dei ministeri e, con una certa forzatura, capi dipartimento) viene ora, all’inverso, invocato per sostenere che qualunque forma di fisiologica e ordinaria collaborazione tra dirigenza e organi politici (ivi compresa la consulenza istituzionale e giuridica) consente di sottoporre a spoils system il dirigente che la presti. E così, del pari, accade in materia di rapporti tra stabilizzazioni e concorsi, laddove i vincoli e i limiti costituzionali, pur cogenti in linea di principio, finiscono per non trovare applicazione concreta, in virtù di eccezioni e deroghe la cui legittimità sembra sfuggire ai controlli amministrativi e al sindacato giurisdizionale.
Peraltro, anche volendo prescindere da questi moti di riflusso, gli equilibri raggiunti in materia di reclutamento (sia al vertice, tra classe politica e dirigenza, come alla base, tra stabilizzazioni e concorsi) appaiono comunque gravemente insoddisfacenti, come si è avuto modo di evidenziare nel corso dell’analisi; i correttivi recenti hanno reso meno evidenti o percepibili le prassi devianti, ma non per questo meno dannose per il buon andamento del sistema amministrativo.
Questi esiti, a ben vedere, non devono stupire e sono la conseguenza del modo di procedere cui si è discusso finora: la torsione dei modelli costituzionali in materia di reclutamento e di carriera non è stata affrontata cercando soluzioni strutturali, ma con correttivi al margine, per loro natura insicuri ed inidonei ad imporre una stabile inversione di tendenza. Non solo: lo scarso consolidamento del principio costituzionale del merito è un fattore di estremo rischio in periodi di stress o instabilità del sistema istituzionale (certo non infrequenti in Italia), perché diminuisce la capacità di resistenza delle amministrazioni a tentativi di cattura da parte della classe politica.
I necessari interventi correttivi ruotano tutti intorno alla revisione dei meccanismi di reclutamento e di carriera. Occorre creare dei modelli che siano stabili e condivisi in ordine ai criteri di ammissione e selezione, oggettivi ed indipendenti da condizionamenti politici, regolari e prevedibili nei tempi di indizione e conclusione, esclusivi come canali di accesso, non condizionati da preesistenti graduatorie di idonei, né subordinati alla previa stabilizzazione di personale precario, attrattivi per i canditati migliori, istituzionalmente ed anche socialmente accettati come unica fonte di legittimazione per l’assunzione di funzioni pubbliche. Porre a regime il modello costituzionale non solo rende più difficile approvare deroghe contingenti per interessi di parte, ma, nel lungo periodo, è in grado di privare l’amministrazione e la classe politica degli alibi prima descritti che, finora, hanno indotto l’una a ricorrere al precariato e l’altra alla chiamata fiduciaria per coprire gli uffici pubblici.
Nel prossimo futuro sussistono condizioni di fatto eccezionali che offrono margini concreti per agire in tale senso. Per l’effetto delle politiche di blocco del turn over, perduranti da oramai quindici anni, il pubblico impiego si è sensibilmente ridotto da un punto di vista numerico. L’età media, inoltre, è particolarmente elevata: nonostante l’allungamento della vita lavorativa, dunque, sono destinate a formarsi ulteriori scoperture negli organici. Infine, i cambiamenti tecnologici impongono importanti modifiche nella composizione del pubblico impiego. Per effetto di questi vari fattori, i prossimi anni registreranno un fabbisogno straordinario di personale, in tutti i livelli di impiego, per alcune centinaia di miglia di unità nell’ambito del personale impiegatizio e per diverse migliaia tra la dirigenza.
Vi è dunque uno spazio effettivo, sul piano organizzativo e finanziario, per adottare interventi organici e stabili per un periodo di tempo adeguato, superando l’approccio finora seguito, caratterizzato dalla ricerca di soluzioni contingenti o parziali.

(1) S. Cassese, Il principio del merito e la stabilità degli impiegati, Napoli, 2007, p. 10.
(2) Il fenomeno descritto nel testo è una delle più interessanti costanti del pubblico impiego, che ha attraversato, con caratteristiche sostanzialmente sovrapponibili, tutta la storia dell’amministrazione italiana, dal periodo liberale ad oggi. Il D.Lgs. n. 207 del 1947 vietava “sotto qualsiasi forma” e “su qualsiasi capitolo di bilancio” l’assunzione di personale non di ruolo e tuttavia con una deroga (decisiva visto il periodo) per “le esigenze della ricostruzione” e con graduale assorbimento del precariato esistente, tramite riserve di posti nei concorsi; il d.P.R. n. 262 del 1948 accelerava questo processo, prevedendo la costituzione di “ruoli speciali transitori” per dipendenti con anzianità di almeno sei anni; anche questo decreto abrogava “tutte le disposizioni che consentano l’assunzione di personale non di ruolo, con qualsiasi denominazione”; il d.P.R. n. 448 del 1955 prevedeva una “sistemazione di talune situazioni del personale in servizio” sempre tramite la tecnica dei ruoli speciali; la L. n. 775 del 1970, c.d. del riassetto e il d.P.R. n. 276 del 1971 abrogavano nuovamente tutte le disposizioni speciali che autorizzavano assunzioni di personale straordinario; il D.L. n. 702 del 1978 prevedeva una nuova, amplissima “sistemazione” nei ruoli degli enti locali, indipendentemente dalla durata e dalla tipologia del rapporto, sempre accompagnata dal divieto di nuove assunzioni in fuori ruolo; il D.L. n. 663 del 1979 prevedeva prove di idoneità per l’immissione in ruolo dei dipendenti assunti con la legge sull’occupazione giovanile. Norme e divieti similari si riproducono anche negli anni Ottanta del secolo scorso (la L. n. 554 del 1988 e il D.P.C.M. n. 127 del 1989 introducono procedure concorsuali semplificate per l’assunzione a termine) e con la c.d. prima privatizzazione (l’art. 36D.Lgs. n. 29 del 1993 ripristina il divieto generale di rapporti a termine, salvo i c.d. “trimestrali“). Un tentativo di impostare su nuove basi il fenomeno si sperimenta con la seconda privatizzazione: il D.Lgs. n. 80 del 1998 rinvia alla disciplina privatistica, affidando il buon governo delle procedure di reclutamento alla responsabilità della dirigenza pubblica; anche questo impianto, come si dirà nel testo, era tuttavia destinato a fallire nel volgere di pochi anni.
(3) A causa del blocco del turn over, in un primo momento è cresciuto il ricorso a contratti flessibili; sono seguite, così, per reazione, una serie di norme che hanno irrigidito questa facoltà: l’art. 4D.L. n. 4 del 2006, l’art. 3, comma 79L. n. 244 del 2007 e l’art. 49D.L. n. 112 del 2008, volte a relegare a presupposti “eccezionali” le assunzioni fuori ruolo. Per ulteriore reazione, le amministrazioni pubbliche hanno fatto un ricorso a tipologie di confine, quali in prima battuta le collaborazioni coordinate. Sul piano legislativo, si è allora intensificata la regolazione di queste fattispecie (tra il 2006 ed oggi, l’art. 7, D.Lgs. n. 165 de 2001 è stato interessato da undici novelle) imponendo limiti finanziari e procedurali; per ulteriore reazione, le amministrazioni hanno abbandonato anche queste forme contrattuali, confinando il precariato nell’area del lavoro autonomo. Vi sono evidenze statistiche chiarissime di questi fenomeni: come rileva la Ragioneria generale dello Stato, in Analisi di alcuni dati del conto annuale del periodo 2007-2014, in www.contoannuale.mef.gov.it, è “avvenuto un consistente travaso fra le due forme contrattuali fra il 2007 e il 2009” e ciò in perfetta coincidenza temporale con gli interventi legislativi citati.
(4) Si tratta dei provvedimenti adottati con l’art. 1, commi 519 e 558L. n. 296 del 2006L. fin. 2007; l’art. 3, commi 90 ss., L. n. 244 del 2007L. fin. 2008; l’art. 17, commi 10 ss., D.L. n. 78 del 2009Anticrisi; l’art. 4D.L. n. 101 del 2013Dalia; l’art. 20D.Lgs. n. 75 del 2017Madia.
(5) Per la stabilizzazione dei supplenti delle scuole, art. 1, comma 96L. n. 107 del 2015Buona scuola; per i dipendenti non di ruolo delle aziende sanitarie, D.P.C.M. 6 marzo 2015Disciplina delle procedure concorsuali riservate per l’assunzione di personale precario del comparto sanità.
(6) Questa, ad esempio, la formula adottata dall’art. 20 del D.Lgs. n. 75 del 2017: “Le amministrazioni […] possono, nel triennio 2018-2020, in coerenza con il piano triennale dei fabbisogni di cui all’articolo 6, comma 2, e con l’indicazione della relativa copertura finanziaria, assumere a tempo indeterminato personale” con rapporto di lavoro precario.
(7) Ragioneria generale dello Stato, Commento ai principali dati del conto annuale del periodo 2008-2017, in www.contoannuale.mef.gov.it, p. 11: “[c]onsiderando la serie storica […] la riduzione annua del personale è stata nell’ordine delle decine di migliaia di dipendenti, toccando il minimo nel 2015 […]. La principale determinante di questo andamento è costituita dal blocco del turn over […]. Al rallentamento registrato negli ultimi anni ha contribuito significativamente la modifica delle disposizioni in materia di accesso alla pensione”; e pag. 32: “[a] parità di enti, il ricorso a contratti a tempo determinato e di formazione lavoro si è ridotto di quasi un quarto rispetto al valore registrato all’inizio del decennio considerato” (salvo una “contenuta ripresa” nel servizio sanitario nazionale).
(8) Le pronunce in materia sono numerose (indice della frequenza con cui le regioni avviano processi di stabilizzazione del personale) e sono riconducibili a due filoni: la violazione dell’art. 117, comma 3, Cost. in relazione alla competenza statale di coordinamento della finanza pubblica che viene intesa con particolare latitudine in materia (da ultimo, sent. n. 234 del 2017: “la semplice differenziazione soggettiva degli enti ai quali si riferisce il personale da stabilizzare è di per sé sufficiente a configurare la discrepanza […] con la previsione statale di principio”; v. anche n. 237 del 2014 e n. 110 del 2014); e la violazione dell’art. 97 Cost. in materia di pubblico concorso (da ultimo, sent. n. 40 del 2018: “la deroga al principio del concorso” deve essere “giustificata dalla necessità di far fronte a peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico”; in termini, n. 110 del 2017 che esclude altresì “il legittimo affidamento dei lavoratori” tra le cause giustificative).
(9) Nessun richiamo a possibili verifiche concrete dell’interesse organizzativo è contenuto nelle circolari della Funzione pubblica in materia (vedi le circ. n. 3 del 2017 e n. 1 del 2018, recanti “indirizzi operativi in materia di valorizzazione dell’esperienza professionale del personale con contratto di lavoro flessibile e superamento del precariato”).
(10) Questi provvedimenti sono stati adottati nella XIII leg. per regolamento (art. 8d.P.R. n. 150/1999) e nella XIV con legge (art. 3, comma 7L. n. 145/2002). Gli effetti di queste misure sono stati analizzati nel dettaglio dalla Sezione controllo Stato della Corte dei conti. Si vedano, in particolare: le relazioni “La gestione degli incarichi dirigenziali nello stato dopo la l. n. 145/2002” (approvata con del. 21 giugno 2006, n. 10); “Il riordino della dirigenza statale: l’attuazione della l. 15 luglio 2002, n. 145 e i nuovi strumenti per la selezione e la formazione dei dirigenti” (approvata con del. 11 novembre 2004, n. 24); “La gestione del ruolo unico della dirigenza statale” (approvata con del. 23 aprile 2002, n. 15); “Attuazione della normativa concernente il conferimento di funzioni dirigenziali nell’ambito delle amministrazioni dello Stato” (approvata con del. 23 febbraio 2001, n. 13).
(11) Nelle regioni, tra le tante, L.R. Calabria n. 12 del 2005; L.R. Abruzzo n. 27 del 2005; artt. 53 e 55, Stat. reg. Lazio; art. 34, L.R. Molise n. 4 del 2013; negli enti locali, artt. 50, commi 8 e 9, 99, comma 2, e 110, commi 1 e 2, T.U.E.L.; art. 38, R.o.u.s. di Milano; art. 38, R.o.u.s. di Roma.
(12) Sul piano legislativo, nuove misure di spoils system hanno riguardato solo i dirigenti esterni (art. 2, comma 161D.L. n. 262 del 2006 e art. 2, comma 20D.L. n. 95 del 2012) peraltro anch’esse dichiarate poi incostituzionali. Si segnalano, invece, i nuovi obblighi motivazionali e procedimentali previsti dall’art. 19, comma 1 bisD.Lgs. n. 165 del 2001, introdotto dal D.Lgs. n. 150 del 2009; dall’art. 110D.Lgs. n. 267 del 2000, come modificato dalla L. n. 114 del 2014, per la dirigenza locale; dagli artt. 15 ss.D.Lgs. n. 502 del 1992, come modificati dal D.Lgs. n. 171 del 2016, in materia di dirigenza sanitaria; dall’art. 14D.L. n. 83 del 2014, per i direttori di musei. In ordine alla prassi degli interpelli, oramai generalizzata, v. C. conti, Sez. contr. St., 5 febbraio 2016, n. 2: “[i]l conferimento di incarichi dirigenziali non può prescindere dall’effettuazione delle procedure concorsuali ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 165/2001. Sono illegittimi i conferimenti effettuati senza il rispetto delle forme regolamentari di pubblicità dei posti vacanti ed in assenza delle procedure valutative”.
(13) È dal 2007 che la Corte di cassazione ha progressivamente affinato la propria giurisprudenza in ordine agli obblighi di motivazione in materia di incarichi dirigenziali: “le norme […] obbligano la P.A. a valutazioni comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte; laddove, pertanto, l’Amministrazione non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni seguiti nella selezione dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale” (Cass., Sez. lav., 11 novembre 2017, n. 26694; in termini, 14 aprile 2015, n. 7495).
(14) La giurisprudenza costituzionale è ormai stratificata. Si vedano, tra le tante, le pronunce relative alla dirigenza sanitaria (nn. 27 del 2014, 152 del 2013, 228 del 2011), nelle A.r.p.a. (n. 34 del 2010), in enti strumentali (n. 20 del 2016) o relative ai dirigenti esterni (nn. 246 del 2011, 81 del 2010 e 161 del 2008).
(15) Così al par. 4 in diritto. Che questa fosse la finalità perseguita trova conferma anche nella sede nella quale lo spoils system dei segretari è stato istituito: non la L. n. 142 del 1990, di riforma dell’ordinamento degli enti locali, ma la L. n. 127 del 1997, in materia di semplificazione dei procedimenti e dei controlli amministrativi (“in coerenza con un contesto riformatore che intende accentuare l’autonomia degli enti locali”, come ancora rileva la sentenza della Corte n. 23 del 2019).
(16) In ordine al rischio di revisione di principi finora consolidati, S. Battini, L’invasione degli apicali: la Corte costituzionale riabilita lo spoils system, in questa Rivista, 2019, 269 ss., che legge la pronuncia n. 23 del 2019 anche in collegamento con la n. 20 del 2019, che avalla gli obblighi di trasparenza reddituale dei direttori generali, in ragione del “rapporto fiduciario” con l’autorità politica.
(17) Così ragionando, il T.A.R. omette anche di verificare l’esistenza di obblighi di motivazione in capo agli enti, in relazione alla scelta tra stabilizzazione e indizione nuovi concorsi (in questo senso, v. Cons. Stato, sez. V, 11 ottobre 2018, n. 5864) o l’esistenza di rapporti percentuali tra i due canali (cui fa riferimento, ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 5 ottobre 2018, n. 5720).

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