28/05/2019 – I giudici battono i politici: spazi delimitati per negare la cittadinanza agli stranieri

I giudici battono i politici: spazi delimitati per negare la cittadinanza agli stranieri

di Amedeo Di Filippo – Dirigente comunale
Il giudizio riguarda la legittimità di un provvedimento di diniego dell’istanza di naturalizzazione presentata ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), L. n. 91 del 1992, che riconosce la cittadinanza allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica. Il provvedimento è stato motivato sulla base di “elementi ritenuti indicativi di una non compiuta integrazione dello straniero nella comunità nazionale e di una conseguente dissociazione tra l’interesse pubblico e quello del richiedente al conseguimento dello status civitatis italiano”. In particolare, il richiedente risultava condannato per incauto acquisto ai sensi dell’art. 712 c.p.
A seguito di ricorso, il giudice di primo grado lo ha respinto, ritenendo sul punto che l’amministrazione è chiamata ad apprezzare, nell’esercizio dell’ampio potere discrezionale che le compete, la sussistenza di tutti gli elementi che possono incidere e consentire quello che non è un mero atto autorizzatorio amministrativo ma una provvedimento di concessione avente natura di “alta amministrazione” rispetto al quale il controllo demandato al giudice non può spingersi al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell’esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole.
Trascorsi più di due anni dalla condanna, il ricorrente ha presentato istanza di estinzione del reato ex art. 460, comma 5, c.p.p., che è stata accolta dal GIP e comunicata all’amministrazione nel corso del procedimento per il rilascio della cittadinanza. Il procedimento si è comunque concluso col provvedimento negativo in quanto il Ministero ha ritenuto che la condanna subita costituisse indice di inaffidabilità e di non compiuta integrazione nella comunità nazionale, tale da determinare la mancata coincidenza tra l’interesse pubblico e quello del richiedente alla concessione della cittadinanza.
Il ricorso
Il ricorrente premette di risiedere interrottamente in Italia da oltre 20 anni, unitamente al coniuge e ai figli; di essere in possesso di regolare permesso di soggiorno/carta di soggiorno a tempo indeterminato; di lavorare con contratto a tempo indeterminato.
Posto che la concessione della cittadinanza è atto connotato da forte discrezionalità ma pur sempre vincolato ai canoni di ragionevolezza, coerenza e adeguatezza, egli evidenza nel provvedimento di diniego la carenza di istruttoria e di motivazione oltre che l’irragionevolezza e abnormità dei contenuti, in quanto unicamente fondato su un decreto penale di condanna risalente al 2009 e oggetto di estinzione, per di più originato da un fatto di lieve entità.
Stigmatizza quindi la mancanza di una adeguata ponderazione della propria personalità, dei suoi trascorsi, della sua condizione di piena e stabile integrazione lavorativa, del pieno inserimento anche della famiglia nella compagine sociale (scolastica, lavorativa) italiana.
Le ragioni del Consiglio di Stato
La terza sezione sposa in pieno le motivazioni prospettate dal ricorrente, accoglie l’appello e annulla il decreto del Ministero dell’Interno. Il motivo di fondo è che la concessione della cittadinanza italiana è atto ampiamente discrezionale, che deve tenere conto non solo di fatti penalmente rilevanti ma anche valutare l’area della prevenzione di qualsivoglia situazione di astratta pericolosità sociale. Questo comporta per l’amministrazione la necessità di operare accurati apprezzamenti sulla personalità e sulla condotta di vita dell’interessato, che si esplica in un potere valutativo circa l’avvenuta integrazione nella comunità nazionale sotto i molteplici profili della sua condizione lavorativa, economica, familiare e di irreprensibilità della condotta.
Per converso, il provvedimento di diniego non deve necessariamente riportare analiticamente le notizie sulla base delle quali si è addivenuti al giudizio di sintesi finale, purtuttavia i giudici di Palazzo Spada ritengono che torni a vigere l’obbligo contenuto nell’art. 3L. n. 241 del 1990 “nella sua più ordinaria dimensione e, quindi, in termini proporzionati alla varietà delle circostanze meritevoli di considerazione nel giudizio discrezionale dell’amministrazione”. Talché la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Motivazione che deve in primo luogo essere calibrata in funzione (anche) della delicatezza degli interessi coinvolti, in secondo deve essere “rafforzata” nel caso il provvedimento abbia contenuto negativo. Nel caso di specie si hanno entrambe queste situazioni, ma il provvedimento ministeriale impugnato non ha fatto alcun cenno né al particolare disvalore della condotta sanzionata rispetto ai principi fondamentali della convivenza sociale e alla tutela anticipata della incolumità pubblica né alla condizione sociale dello straniero, limitandosi a constatare in modo meccanicistico, a fronte del fatto storico di reato e nonostante la intervenuta estinzione, la mancata coincidenza tra l’interesse pubblico e quello del richiedente alla concessione della cittadinanza italiana.
Il provvedimento manca dunque di qualsiasi valutazione degli elementi riportati in sede procedimentale dall’appellante e rappresentativi della sua prolungata permanenza in Italia in condizione di piena e sana integrazione nel tessuto sociale.
I giudici poi rilevano che la fattispecie di cui all’art. 712 c.p. non rientra in alcune delle ipotesi ostative di cui all’art. 6, comma 1, L. n. 91 del 1991, per cui sarebbe stata necessaria una valutazione in concreto del fatto di reato, che avrebbe condotto a considerare per un verso la levità del reato stesso, per l’altro la obiettiva ed effettiva integrazione dello straniero nella società italiana, rapportata ai legami familiari, alla attività lavorativa, al reale radicamento al territorio, alla complessiva condotta che, per quanto non totalmente irreprensibile sul piano morale, deve comunque mostrare, perlomeno e indefettibilmente, una convinta adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento, di cui egli chiede di far parte col riconoscimento della cittadinanza.

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