18/03/2017 – I compensi per attività non autorizzate : l’omessa restituzione è danno erariale

I compensi per attività non autorizzate : l’omessa restituzione è danno erariale
di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale dei conti e giornalista pubblicista

 

La Corte dei Conti, sezione per la Sardegna, con la Sent. n. 19, del 21 febbraio 2017, ha stabilito che l’omesso versamento all’amministrazione dei compensi percepiti dal dipendente pubblico per attività non autorizzate, rappresenta una causa di danno erariale per l’intera somma percepita.

Il contenzioso tributario

Il Procuratore regionale della Corte dei Conti presso la Sezione giurisdizionale per la Regione Sardegna ha promosso azione di responsabilità nei confronti di una dipendente per un danno, arrecato alla Provincia, quantificato in euro di poco superiori agli 86mila euro. La Procura generale aveva esposto che la dipendente aveva intrattenuto, nel periodo 1.1.2004/31.3.2009, plurimi rapporti lavorativi di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) con la Provincia . Alla scadenza dell’ultimo contratto, la dipendente era stata assunta con contratto di lavoro a tempo determinato ed inquadrata con la qualifica professionale di funzionario amministrativo in posizione economica D-1, svolgendo le medesime mansioni assegnate negli ultimi co.co.co..

Il contratto di lavoro a tempo determinato, per effetto del quale la dipendente era stata formalmente assunta dall’ente provinciale e chiamata a svolgere la prestazione lavorativa sotto il vincolo della subordinazione, con applicazione della normativa legislativa e contrattuale del pubblico impiego, era valevole per due mesi, ma era stato successivamente prorogato, a più riprese, sino alla data del 31 luglio 2013 . Successivamente a tale data, la signora aveva cessato il rapporto di impiego con la Provincia ed era stata assunta con contratto a tempo determinato dall’Agenzia Regionale del Lavoro.

La Provincia aveva poi appreso che la dipendente risultava socio accomandante di una società in accomandita semplice, ma al contempo nella sezione “contatti” del sito internet della società veniva indicato il suo nominativo, unitamente a quello dell’altra socia accomandante, per eventuali richieste di svolgimento di attività e servizi.

Tanto è stato segnalato all’Agenzia del lavoro con una nota trasmessa per conoscenza alla Guardia di Finanza ed all’Ispettorato della Funzione Pubblica. Quest’ultimo ha proceduto ad eseguire, mediante delega alla Guardia di Finanza, verifiche sulle attività svolte dalla dipendente, accertando che ella aveva effettivamente svolto, nonostante la posizione formale di socio accomandante, attività gestionale per conto della suddetta società e che la medesima risultava titolare di partita i.v.a. per lo svolgimento di attività imprenditoriale di “servizi alle imprese”.

Era stato inoltre accertato che, nel periodo compreso tra l’1.04.2009 e il 23.07.2010 (in costanza di pubblico impiego), la dipendente aveva percepito emolumenti per lo svolgimento di varie attività libero – professionali, analiticamente indicate in citazione, per un ammontare complessivo pari ad oltre 89mila euro .

La Procura regionale, ritenendo che gli emolumenti professionali fossero stati percepiti dalla lavoratrice in violazione dei rigori normativi previsti dall’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001 e rilevato che l’interessata non aveva proceduto alla restituzione del relativo ammontare finanziario in favore dell’amministrazione di appartenenza, come previsto dal comma 7, del cit. art. 53, aveva emesso nei confronti della signora l’invito a fornire deduzioni.

Entro il termine assegnato, la dipendente aveva fatto pervenire, con il patrocinio dell’avvocato, una memoria, nella quale aveva svolto la propria difesa e aveva domandato l’archiviazione del procedimento. Non ritenendo che le deduzioni difensive determinassero una ricostruzione della vicenda diversa da quella prospettata nell’invito a fornire deduzioni, il Pubblico ministero aveva emesso l’atto di citazione in giudizio nei confronti della presunta responsabile.

Secondo la Procura regionale, l’attività professionale dalla quale è derivata la percezione della somma di euro 86mila euro era stata svolta dalla dipendente, nello stesso periodo in cui era inquadrata, con contratto di lavoro subordinato a tempo pieno, nei ruoli della Provincia.

In particolare l’attività lavorativa esterna era stata esercitata senza autorizzazione, in palese violazione delle norme in tema di incompatibilità tra pubblico impiego ed incarichi retribuiti esterni, con conseguente applicazione, nel caso di specie, dell’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001. Secondo la Procura contabile il comportamento della signora sarebbe stato caratterizzato da particolare gravità, poiché non soltanto non aveva ottenuto alcuna autorizzazione per lo svolgimento dell’attività libero professionale, ma non avrebbe potuto neanche ottenerla, atteso che, sulla base della normativa vigente, riportata in citazione, tali attività non potevano in alcun modo essere autorizzate.

Tra l’altra, osserva la Procura regionale, la dipendente all’atto dell’assunzione ed anche successivamente, in sede di proroga del rapporto di lavoro, ha più volte dichiarato, sulla base delle previsioni di cui al D.P.R. n. 445 del 2000, di non avere altri rapporti di impiego pubblico o privato e di non trovarsi in nessuna delle situazioni di incompatibilità previste dall’art. 53D.Lgs. n. 165/2001. Questa dichiarazione, da ritenere falsamente formulata, ha indotto la Compagnia della Guardia di Finanza ad inoltrare denuncia di reato alla competente autorità (ai sensi degli artt. 483 c.p. e 76D.P.R. n. 445 del 2000).

La Provincia aveva attivato nei suoi confronti un apposito procedimento disciplinare per i fatti in argomento e aveva richiesto con nota del luglio 2015, il riversamento delle somme indebitamente percepite, alla quale la convenuta non ha dato seguito, ponendo in essere i presupposti per l’esercizio, a suo carico, dell’azione di responsabilità amministrativo-contabile, secondo la normativa vigente.

L’analisi della Corte di Conti

I giudici contabili osservano preliminarmente che la giurisprudenza contabile e di legittimità è concorde nel riconoscere la giurisdizione della Corte dei Conti in fattispecie come quella in esame anche per fatti verificatisi prima dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 42, lett. d), L. 6 novembre 2012, n. 190, con il quale, all’art. 53D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, è stato aggiunto il comma 7-bis, che così dispone: “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.

La Corte di cassazione, ha legittimato che l’obbligo del pubblico dipendente di versare alla propria amministrazione di appartenenza il compenso percepito per un incarico presso terzi non previamente autorizzato, previsto dal comma 7, dell’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001, ha natura, almeno latamente, sanzionatoria.

La norma in questione così dispone: “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.

Per i giudici di legittimità l’affermazione della natura sanzionatoria dell’obbligo di riversamento previsto sarebbe imposta dalla considerazione che, altrimenti opinando, non sarebbe manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale della disposizione, se cioè fosse consentito “che si delineassero prestazioni lavorative senza corrispettivo, consentendo anche l’arricchimento senza causa dell’amministrazione di appartenenza senza alcun riferimento all’incidenza della condotta sul patrimonio della PA”.

Secondo la Cassazione, tale sanzione, prevista ex lege, sarebbe funzionale a rafforzare la fedeltà del dipendente pubblico. L’obbligo di costui di riversare i compensi indebitamente percepiti prescinderebbe quindi dai presupposti della responsabilità amministrativa e sarebbe perciò estraneo ai confini istituzionali della giurisdizione contabile, collegata, per l’appunto, all’esistenza di un danno.

La competenza giurisdizionale

Nel caso in esame la sede giurisdizionale competente a dirimere le controversie inerenti l’adempimento di tale obbligo non potrebbe, quindi, che essere quella ordinaria (nel caso, come quello esaminato, di un rapporto di impiego pubblico contrattualizzato).

L’affermazione, sostiene l’ordinanza della Cassazione (n. 19072/2016 del 28 settembre 2016), non contraddice precedenti giurisprudenziali della medesima Corte di Cassazione (tra i quali quelli invocati dal Procuratore regionale) che avevano affermato la giurisdizione contabile in fattispecie analoghe. Secondo la Cassazione, andrebbe fissata una precisa linea di demarcazione tra le due giurisdizioni. Qualora il giudizio attenga unicamente alle conseguenze dell’inadempimento dell’obbligo del dipendente di denunciare la percezione di compensi da parte di terzi, la relativa cognizione, giusta quanto detto, rientrerebbe nell’ambito della giurisdizione del giudice del rapporto di lavoro.

Può tuttavia accadere che l’attività illegittimamente svolta dal dipendente pubblico a favore dei terzi determini anche un vero e proprio danno a carico della PA, come potrebbe verificarsi, ad esempio, qualora l’attività in questione venga svolta durante l’orario di servizio, con conseguente sottrazione all’ente pubblico delle energie lavorative del dipendente.

Solo in tal caso la fattispecie ricadrebbe, secondo i normali canoni interpretativi, nell’ambito della giurisdizione contabile.

In definitiva, fattispecie come quella esaminata nell’ordinanza (e, parallelamente, come quella oggetto del presente giudizio), ratione temporis, non possono sottrarsi alle ordinarie regole di riparto di giurisdizione, con conseguente attribuzione della stessa al giudice ordinario.

Le conclusioni

Nel caso in esame è pacifico che il Procuratore regionale non abbia neppure prospettato che dall’attività, asserita illecita, della dipendente siano derivati, per l’amministrazione di appartenenza, danni erariali del tipo di quelli ipotizzati dalla Corte di Cassazione. La domanda è, infatti, chiaramente circoscritta alla sola somma oggetto dell’obbligazione di riversamento prevista dall’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001 cit..

In adesione all’orientamento manifestato dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 19072/2016 cit., va pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti in favore del giudice ordinario.

 

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