16/02/2017 – Tangenti al Comune: l’imprenditore risponde di danno all’immagine

Tangenti al Comune: l’imprenditore risponde di danno all’immagine
di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale dei conti e giornalista pubblicista

 

La Corte di Cassazione con la Sent. n. 2695, del 2 febbraio 2017, ha affermato che l’imprenditore che paga tangenti ai funzionari di un Comune per ottenere dei lavori, oltre all’aspetto di rilevanza penale, rischia di essere anche condannato a risarcire il danno all’immagine.

Nel caso in esame un Comune aveva chiamato in giudizio, davanti al Tribunale due imprenditori, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni provocati a seguito di episodi di corruzione, posti in essere da due imprenditori e coinvolgenti funzionari dello stesso Comune.

I due imprenditore si erano costituiti in giudizio ritenendo che i fatti contestati erano caduti in prescrizione ed era del tutto infondata la domanda proposta nei loro confronti.

Il Tribunale con sentenza del luglio 2011 ha accolto le domande risarcitorie formulate dal Comune.

Avverso tale decisione i due imprenditori hanno proposto ricorso.

La Corte di appello, alla quale i due imprenditore si erano rivolti, ha rigetto la domanda.

Avverso tale sentenza sfavorevole solo uno dei imprenditori si è rivolto alla Cassazione impugnanzo la sentenza della Corte di appello.

Le motivazioni del ricorso

Il ricorrente deduce che la Corte di appello, pur avendo affermato di aver tenuto conto delle risultanze delle cause penali, sarebbe pervenuta a conclusioni non conformi ai fatti emersi dall’istruttoria penale ed avrebbe, conseguentemente, errato nell’individuare la disciplina giuridica applicabile ai fatti di causa. Ad avviso del ricorrente, la diffusa prassi dei pagamenti che coinvolgeva tutti gli imprenditori che, aggiudicatisi un appalto, dovevano confrontarsi coi funzionari incriminati per svolgere la propria attività senza subire vessazioni e, quindi, i pagamenti che venivano richiesti sia in modo esplicito che implicito servivano per far compiere ai funzionari atti del loro ufficio e non ad esso contrari. L’imprenditore ricorrente afferma che se la Corte territoriale avesse tenuto conto dei fatti emergenti dalla complessiva istruttoria penale avrebbe concluso nel senso che il reato commesso sarebbe quello di concussione e che nulla il ricorrente dovrebbe a titolo di risarcimento del danno, in quanto parte lesa.

Si evidenzia, brevemente, che la concussione è un reato tipico dell’ordinamento italiano e assente in quasi tutti gli altri ordinamenti, che può essere commesso solo da un soggetto che si qualifichi come esercente una pubblica funzione e che, pertanto, rappresenta un esempio di reato proprio.

La ratio che ispira la rilevanza penale della condotta (punita dall’art. 317 c.p.) è quella di protezione del buon andamento della pubblica amministrazione e, nel caso di specie, è di importanza tale da rendere la concussione il reato più severamente sanzionato tra tutti i reati propri dei pubblici ufficiali contro la P.A..

A disciplinare la concussione, più nel dettaglio, è l’art. 317 c.p., il quale punisce con la reclusione da sei a dodici anni il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro od altra utilità. La concussione, dal punto di vista soggettivo, come detto può essere commessa solo da un soggetto che riveste la qualità di pubblico ufficiale. Dal punto di vista oggettivo, invece, è rappresentata da un comportamento che si estrinseca nel farsi dare o nel farsi promettere denaro o altro vantaggio, anche non patrimoniale, abusando della propria posizione.

La sentenza della Cassazione

I giudici di legittimità evidenziano che in modo corretto e motivato la Corte di merito, pur pervenendo alla medesima qualificazione giuridica del reato di cui si discute in causa operata prima dal P.M., con la richiesta di rinvio a giudizio, e poi dal G.U.P. nella sentenza, ha però operato un’autonoma valutazione delle predette risultanze processuali, osservandosi pure che l’applicazione della pena è stata effettuata sulla base dell’ipotesi di reato di corruzione e che la richiesta di patteggiamento dell’imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato.

Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, la sentenza penale di applicazione della pena, pur non implicando un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile, contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può escludere il rilievo senza adeguatamente motivare, secondo cui la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque una ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione.

La Cassazione rileva che deve aggiungersi che effettuare dazioni di denaro per “essere agevolati” nei pagamenti e nella stessa esecuzione delle opere affidate non significa certo, come sembra ritenere il ricorrente, effettuare tali dazioni “per far sì che i funzionari volgessero le attività del loro ufficio”, atteso che dette attività quanto meno venivano poste in essere, nel caso di specie, in violazione dei principi di imparzialità e correttezza cui deve conformarsi l’attività dei funzionari pubblici.

Di interesse risulta poi, contrariamente a quanto ritenuto dall’imprenditore ricorrente, il richiamo della Corte territoriale al principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di distinzione tra i reati di corruzione e concussione, non è ravvisabile l’ipotesi della concussione cosiddetta “ambientale” qualora il privato si inserisca in un sistema nel quale il mercanteggiamento dei pubblici poteri e la pratica della “tangente” sia costante, atteso che in tale situazione viene a mancare completamente lo stato di soggezione del privato, che tende ad assicurarsi vantaggi illeciti, approfittando dei meccanismi criminosi e divenendo anch’egli protagonista del sistema.

Come evidenziato dalla Corte di merito, l’imprenditore ha seguito uno schema di comportamento ormai radicato da più generazioni nell’impresa da lui gestita, avendo il medesimo fatto riferimento a “una consuetudine”, ad “una situazione ereditata” dal padre e dal nonno ed affermato che “il pagamento al fine di ingraziarsi i funzionari comunali e ottenere una serie di utilità… data da moltissimo tempo”, il che denota la sussistenza di un rapporto paritetico e non vessatorio tra i dipendenti comunali e l’imprenditore ora ricorrente.

Il danno all’immagine

L’imprenditore afferma che la sentenza della Corte di appello che lo avrebbe condannato “per il profilo dell’esistenza e l’entità del danno all’immagine subito dal Comune” nella misura di Euro 85.000,00, non sarebbe corretta in quanto non sarebbe liquidabile un danno all’immagine nei confronti di soggetto che non sia un dipendente dell’ente, in quanto il soggetto privato compirebbe un reato che provoca un danno all’immagine di sé stesso e non dell’ente di cui sarebbero responsabili solo i suoi funzionari.

I giudici di legittimità osservano che le censure dell’imprenditore ricorrente sono infondate. In modo corretto, rileva la Cassazione, la Corte di merito ha condannato il ricorrente al risarcimento del danno all’immagine in favore dell’ente pubblico, evidenziandosi che non può condividersi la tesi del ricorrente che esclude la possibilità di una tale condanna a carico di soggetto privo della qualifica di pubblico dipendente e circoscrive tale voce di danno ai soli casi di responsabilità contrattuale.

L’imprenditore ricorrente, sostiene inoltre, che la sentenza impugnata dovrebbe essere comunque annullata per violazione delle richiamate norme e, conseguentemente, il Comune dovrebbe essere considerato corresponsabile del danno da esso subito in quanto l’art. 1227 c.c. si applica anche alla Pubblica Amministrazione. Alla luce di quanto emerso dall’intera istruttoria penale emergerebbe, secondo il ricorrente, che i funzionari avrebbero preteso il pagamento di somme di denaro con le modalità e per le ragioni illustrate in ricorso per contestare la qualificazione giuridica del reato individuata dalla Corte territoriale. Ad avviso dell’imprenditore ricorrente, attivando i controlli interni previsti dalla normativa, l’Amministrazione avrebbe potuto avvedersi del comportamento dei propri funzionari ed evitare o comunque ridurre il danno di cui dovrebbe essere chiamata a rispondere e, pertanto, anche il Comune sarebbe responsabile ex art. 1227 c.c.

Per i giudici di legittimità anche tale motivo è infondato.

Non è configurabile nella specie l’ipotesi del concorso di colpa del danneggiato di cui all’art. 1227, comma 1, c.c., contrariamente a quanto sostiene l’imprenditore ricorrente, atteso che, dagli stessi estratti dei verbali riportati in ricorso, non vi è prova della consapevolezza del Comune degli accordi corruttivi tra il convenuto e i dipendenti comunali sicché non può al predetto ente imputarsi un omesso controllo con riferimento ai fatti di cui si discute in causa, tenuto conto anche delle modalità degli stessi.

Le conclusioni

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori, come per legge.

Cass. Civ. 2 febbraio 2017, n. 2695

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